GARZONI, Tomaso
Nacque nel marzo 1549 a Bagnacavallo, in Romagna, nello Stato pontificio, da Pietro e Altabella Lunardi, di condizioni economiche modeste ma in grado di provvedere all'educazione dei figli, e fu battezzato col nome di Ottaviano.
Già a dieci anni il piccolo Ottaviano componeva un poemetto cavalleresco in ottava rima sulle "battagliole de' putti", secondo quanto racconta il fratello Bartolomeo; nello stesso periodo frequentava le scuole di grammatica di Filippo Ossano da Imola e di Ottaviano da Ravenna. Nel 1563 iniziò gli studi di diritto, prima a Ferrara e poi a Siena, dove passò a frequentare i corsi di logica e di filosofia di Orazio Spannocchi e Fabio Maretta, senza comunque completare l'iter universitario. Il 18 ott. 1566 entrò infatti nella Congregazione dei canonici lateranensi, vestendo l'abito nell'abbazia di S. Maria in Porto di Ravenna (la maggiore dell'Ordine, tanto che ne fu sino alla metà del Seicento la sede generalizia) e mutando il nome in Tomaso. Ancora assai giovane ottenne incarichi di lettore della sacra scrittura e di predicatore, sui quali non abbiamo notizie precise, ma a cui probabilmente si debbono i suoi spostamenti in diverse città italiane (Treviso, Ferrara, Padova, Mantova, Venezia): il fatto per esempio che le dediche della prima edizione della Piazza universale (5 dic. 1585) e dell'Hospidale de' pazzi incurabili (25 febbr. 1586) siano datate da Treviso potrebbe far supporre che il G. vi si trovasse per i cicli omiletici dell'avvento e della quaresima (si noti anche che numerose sono le opere dei due famosissimi predicatori del Cinquecento, Francesco Panigarola e Cornelio Musso, presenti in un elenco di libri posseduti dal fratello Bartolomeo, anch'egli entrato nella Congregazione dei canonici lateranensi, che probabilmente questi aveva ereditato da Tomaso).
Il G. sembra tuttavia non essersi chiuso nelle dimensioni culturali proprie dell'esponente di un ordine religioso, ma apparentemente mantenne un tessuto di rapporti non convenzionali con una serie di intellettuali laici del suo tempo, alcuni dei quali anche su posizioni non propriamente ortodosse. Fra essi merita di essere citato subito il poeta e maestro di scuola di Adria Alvise Groto, detto il Cieco d'Adria, processato dall'Inquisizione di Rovigo nel 1567 per aver tenuto libri proibiti (in particolare di Erasmo e Agrippa di Nettesheim, letture, come si vedrà, che condivideva col G.) e per alcune opinioni ereticali, poi ammonito nel 1576 e nel 1580. Altri legami letterari da ricordare sono quelli con Celso Mancini, Torquato Tasso, che gli dedicò due sonetti, il filologo Fabio Paolini, l'ebreo Abramo Colorni, ingegnere mantovano al servizio di Alfonso II d'Este, i medici Bernardino Paterno, Teodoro Angelucci e Vincenzo Carrari, l'erudito Bartolomeo Burchellati da Treviso, e altri.
Questa varietà di curiosità e di contatti emerge anche dai suoi scritti, che appaiono in grande prevalenza opera caratteristica più dell'intellettuale enciclopedico, non privo di interessi spregiudicati, che del canonico lateranense. Nel 1583 appaiono a Venezia le due prime sue opere che ci siano note, significativamente poste sui due differenti versanti che qualificano la sua produzione letteraria: Il teatro de' vari e diversi cervelli mondani (presso P. Zanfretti) e il Colloquio, ovvero Dialogo del giudicio particolare dell'anima dopo la morte (presso F. Ziletti), traduzione di uno scritto di Dionigi il Certosino.
Nel Teatro il G. presenta una tipologia morale dei vari "cervelli", che distingue in "cervelli, cervellini, cervelluzzi, cervelloni, cervellazzi", per mezzo di una serie di aneddoti desunti da autori classici e moderni che però, a uno studio attento, si potrebbero "ridurre ad un manipolo di libri" (Cherchi, 1980, p. 25), primo fra tutti l'Officina di Ravisio Testore (Jean Tixtier de Ravisy). Già in questa prima opera si manifesta dunque la tecnica di "riscrittura enciclopedica" con la quale lavorò costantemente il G., non diversamente del resto da tanti altri autori del suo tempo quali Ortensio Lando e Anton Francesco Doni; tecnica che consisteva nell'utilizzare, con modificazioni più o meno ampie, repertori antichi o a lui coevi. Significativa tra l'altro la vastissima riutilizzazione compiuta in questa, come in altre sue successive opere, di uno scritto di grande fortuna europea quale il De incertitudine et vanitate scientiarum di Cornelio Agrippa di Nettesheim. Non mancano tuttavia nel Teatro allusioni all'attualità storica e letteraria: così, nel capitolo dedicato ai "cervelli bravi ed armigeri" incontriamo riferimenti a Francesco I ed Enrico II di Francia che sembrerebbero lasciar percepire da parte del G. una scelta di campo filofrancese; e numerose, in tutto il libro, sono le citazioni di autori contemporanei e con ogni evidenza conosciuti direttamente, quali L. Ariosto, A. Alciato, G. Camillo, e ancora F.M. Molza, B. Varchi, S. Guazzo, e, ripetutamente, A. Groto. Cominciamo inoltre a incontrare quegli aneddoti rustici che satireggiano contadini e montanari e che sono caratteristici della prosa del G. e dell'ambiente urbano nel quale egli si riconosceva.
Nel 1585 uscì ancora a Venezia, presso Giovan Battista Somasco, dedicata ad Alfonso II duca di Ferrara, la prima edizione di quella che è l'opera più celebre e diffusa del G., La piazza universale di tutte le professioni del mondo.
Si trattava di un insieme di 155 discorsi, ciascuno dedicato a una o più professioni o mestieri o condizioni, per un totale di circa 400 attività, talora nominate in più sedi con 544 denominazioni diverse complessive. L'opera ci offre una visione che potremmo definire onnicomprensiva della società dei tempi del G., ricchissima di particolari interessanti e singolari, anche se non si dovrà mai dimenticare quanta larga parte del testo sia ripresa da altri autori o, più spesso, da repertori, anche antichi; ma ugualmente occorrerà apprezzare la descrizione minuziosissima delle tecniche di alcune attività artigianali (per esempio, la fabbricazione del vasellame di coccio), e i lunghi elenchi di oggetti e strumenti a esse legati (privi però spesso del necessario chiarimento sulla loro forma e il loro uso, che evidentemente doveva sembrare superfluo al G., in quanto si trattava di notizie ovvie per i suoi contemporanei).
Il quadro funzionale delle articolazioni sociali quale era stato trasmesso dal Medioevo (si pensi alle immagini tripartite della società, o alle frequenti comparazioni di essa a un corpo) appare nella Piazza completamente scomparso. La società si sbriciola in un'atomizzazione moltiplicabile all'infinito: essa, appunto, non ha più l'aspetto di un triangolo, di una piramide o di un corpo, ma di una piazza circolare in cui alcuni personaggi si trovano al centro, mentre altri dovranno essere confinati ai margini, e ad alcuni saranno addirittura assegnati "i cantoni del piscio, remotissimi dal luogo ove passeggia la nobiltà, per non imbrattar con loro le toghe de' dottori o le spade de' soldati" (ed. Cherchi - Collina, 1596, p. 1360). Si noti inoltre che il G., pur dedicando un omaggio formale all'"honore" dell'agricoltura, dà un quadro fortemente negativo del contadino, secondo il tòpos, tradizionale sin dal medioevo, della satira contro il villano "di hoggidí", distinto nettamente dall'agricolapius descritto dai classici.
L'elenco che l'opera contiene di professioni, attività, condizioni di vita non appare avere alcun ordine, benché l'inizio paia conservare, contraffatto da alcune inserzioni, lo schema tradizionale degli elenchi di stati tardomedievale (imperatore, governatore, prelati, giureconsulti, chirurghi, notai, procuratori…); e del resto alcuni rimandi interni rendono evidente che le singole parti furono scritte in un ordine diverso da quello in cui sono pubblicate. L'unica vera suddivisione esaustiva è quella fra professioni o mestieri "onorevoli" e "disonorevoli", classificati prescindendo completamente dall'utilità sociale del lavoro stesso, ma basandosi soprattutto sulla "natura della materia lavorata o con la quale si entra in contatto", ovvero sulle "condizioni igieniche e di pulizia della lavorazione" (Tucci, 1982, pp. 328 s.), facendo così riferimento, per esempio, alla sporcizia di spazzacamini, stagnini, magnani, tintori, linaioli, canapai, ecc. considerati ignobili mentre tali, per esempio, non sarebbero i lanaioli, "perché il più sontuoso, et honorato vestire che si possa fare per un gentiluomo è di vestire di finissimi panni di lana" (ed. Cherchi - Collina, 1596, p. 1972).
L'opera è ricchissima di potenzialità diverse di utilizzazione e di lettura. Essa rappresenta senza dubbio un quadro colorito dei diversi aspetti della società nell'età della Controriforma, e, ancora, "un prezioso specchio delle paure collettive di una società che si sentiva minacciata nel suo ideale di stabilità di fronte all'insicurezza, ai torbidi, all'affollamento umano e alle tensioni nelle campagne causate dal montante pauperismo di fine '500" (Gnavi, 1990, p. 71); evidenzia in grado massimo le tecniche di riscrittura enciclopedica propria di tanti intellettuali del tempo; ci offre notizie su tecniche artigianali e sul lessico di alcune arti, ma può consentire anche altre chiavi di lettura, permettendoci per esempio di penetrare alcuni aspetti della dissimulazione tipica dell'età sua. Del G. è stato detto che può essere considerato "un intellettuale organico della chiesa della Controriforma" (Cherchi, 1980, p. 138); si tratta di una definizione che lascia tuttavia qualche perplessità quando si consideri l'ampio uso che il G. fa di scritti di autori condannati come Cornelio Agrippa e altri, e soprattutto quando si legga con attenzione il discorso De gli heretici e degli inquisitori, nel quale, sotto mostra di deplorarne le follie, si nominano, oltre agli eretici antichi, un buon numero di quelli moderni (Ecolampadio, Lutero, Calvino, Bullinger, Bucero, Ochino, Zwingli, Erasmo, Melantone, gli anabattisti, ecc.), offrendo un quadro abbastanza ampio delle loro rispettive opinioni, delle quali il G. mostra di avere una certa conoscenza, per quanto di seconda mano. Dissimulazione e conformismo appaiono insomma in G. andare di pari passo con una spregiudicatezza che avrebbe potuto, se individuata, costargli un processo inquisitoriale (come accadde all'amico Alvise Groto).
Nel 1586 uscirono altre due opere del G., L'hospidale de' pazzi incurabili (ancora presso il Somasco) e Le vite delle donne illustri della Scrittura sacra. Con l'aggiunta delle vite delle donne oscure e laide, dell'uno, et l'altro Testamento. E un discorso infine sopra la nobiltà delle donne (Venezia, presso G.D. Imberti), secondo il suo prudente dualismo, per cui alternava (come abbiamo osservato) opere di ispirazione profana a opere di ispirazione sacra. Entrambe erano state scritte a Treviso, dove, come si è detto, il G. si trovava, probabilmente per impegni connessi alla sua attività di predicatore.
L'hospidale de' pazzi incurabili è dedicato al medico Bernardino Paterno; l'opera è articolata in trenta discorsi, ciascuno dei quali dedicato a un tipo diverso di follia, nella finzione di ripercorrere la visita di un ospedale nelle cui stanze siano reclusi i vari generi di pazzi, descritti secondo i loro temperamenti e comportamenti. Appare inutile il tentativo - che pure è stato compiuto - di ritrovare nella tassonomia garzoniana della follia elementi realistici che ci consentano di riportarla alla nomenclatura della psichiatria odierna, anche se nelle pagine del G. emerge qualche riferimento a concreti luoghi di reclusione contemporanei (si fa cenno. per esempio, all'"Hospidale di Milano", cioè all'ospedale di S. Vincenzo presso porta Ticinese a Milano). Né si possono trovare in queste pagine tracce dell'elogio della follia di erasmiana memoria e di radice paolina, anche se la fortuna cinquecentesca dei temi della pazzia, della melanconia, ecc. è certamente alla base della scelta dell'argomento dell'opera. Il libro presenta un intreccio dei consueti materiali di repertorio con vicende tratte dalla storia contemporanea (rilevante in particolare l'accenno polemico e ingiurioso agli ugonotti a proposito della strage di S. Bartolomeo, che conferma l'attenzione del G. alla vita politica francese: cc. 60v-61r e 69v) e dai poemi cavallereschi (in particolare dal Morgante maggiore di L. Pulci e da T. Folengo) con storie d'ogni sorta di balordi di paese (vere o inventate non sappiamo), ambientate in buona parte in un'area veneta che il G. doveva avere frequentato a lungo.
L'opera si conclude con un Ragionamento dell'autore a' spettatori sopra quella parte dell'hospedale, che contien le femine, ove gentilmente dipinge tutte le specie di pazzia sopradette ritrovarsi in loro (cc. 70v-80r): nelle donne la pazzia è in realtà viziosità o debolezza di cervello, perché tali la natura le ha fatte, "operando da femina com'era" (c. 77v). Il G. inizia così a misurarsi con uno dei temi preferiti della pubblicistica del tardo Cinquecento, il dibattito sulle virtù e sui difetti delle donne. Tale argomento sarà al centro dell'altra opera pubblicata, come s'è detto, nel 1586, Le vite delle donne illustri della Scrittura sacra. Essa, pur portando la data "Treviso il 15 sett. 1586", doveva essere già stata composta dal G. da oltre un anno, come risulta con evidenza da un riferimento nella Piazza universale, dove lo scrittore parla di sé come autore di vite di donne illustri. Il titolo ricalca quello di un'opera dell'umanista riformato e propugnatore della dissimulazione religiosa Otto Brunfels, Catalogi virorum illustrium veteris et novi Testamenti. Virorum obscurorum utriusque Testamenti. Illustrium item mulierum. Obscurarum item mulierum, Argentorati 1528.
L'opera del G. è dedicata alla duchessa di Ferrara Margherita Gonzaga, terza moglie di Alfonso II d'Este, ed è suddivisa in quattro sezioni, due dedicate alle donne illustri rispettivamente del Vecchio e del Nuovo Testamento (trentacinque biografie), e due alle donne "oscure e laide" (nove biografie). Il genere letterario era noto e frequentato sin da Plutarco e poi da Boccaccio, ma la scelta del G. di limitarsi alle donne bibliche è del tutto personale e ci rimanda alla volontà dello scrittore di non perdere mai di vista, pur nelle sue peregrinazioni estravaganti attraverso la cultura a lui contemporanea, il suo ruolo di "canonico regolare lateranense predicatore", che infatti troviamo segnalato sul frontespizio, com'era già apparso sulla traduzione di Dionigi il Certosino. Le fonti delle Vite sono, rigorosamente, quelle bibliche; anzi si può dire che in alcuni passi il G. segua pedissequamente la Vulgata: ognuna delle biografie si presenta tuttavia costruita secondo uno schema fisso, che dall'etimologia del nome e da un breve ricordo delle origini procede attraverso riferimenti cronologici agli anni del mondo o ad avvenimenti contemporanei (utilizzando Isidoro di Siviglia, Beda, Eusebio), alla narrazione dei fatti e infine a una conclusione contenente in genere il racconto della morte del personaggio e il suo elogio o la sua riprovazione. Le caratteristiche che rendono le donne illustri sono la modestia, la remissività, la fedeltà coniugale, secondo una scala di valori che del resto era stata adottata anche dal Tasso nel suo Discorso della virtù femminile e donnesca, dedicato a Eleonora d'Asburgo, duchessa di Mantova, e pubblicato a Venezia quattro anni prima; solo in pochi casi il G. mette in evidenza l'animo virile e il "cor magnanimo" di alcuni personaggi (Debora, la Regina di Saba, Giuditta). Al contrario, ciò che rende le donne "oscure e laide" è proprio l'infrazione delle norme della virtù donnesca, qualificata secondo il modello presentato sopra. L'opera si conclude con un Discorso sopra la nobiltà delle donne, che s'inserisce anch'esso in un genere letterario largamente frequentato alla fine del Cinquecento.
La successiva opera del G., La sinagoga degli ignoranti, apparve, sempre a Venezia presso il Somasco, nel 1589, dopo tre anni di silenzio del suo autore (interrotti, nel 1588, dall'edizione delle opere di Ugo di San Vittore), che ritroviamo, ormai alla vigilia della morte, rientrato nell'abbazia di S. Maria in Porto: la dedica ad Alfonso Herrera è infatti datata "Ravenna, 10 marzo 1589".
L'opera, strutturata in sedici discorsi, tratta delle cause e delle conseguenze dell'ignoranza e delle caratteristiche degli ignoranti. Essa, a quanto emerge anche da due brevi passi del testo (disc. IV, p. 393, e disc. XVI, p. 471) e da una nota in margine a esso, venne composta in polemica contro un "gallo" non nominato che aveva "morso" il G.: si trattava in realtà del letterato Giusto Giuseppe Scaligero, che nel 1587 aveva attaccato il filologo Fabio Paolini ritenendolo un semplice prestanome del G., alla cui opera lo Scaligero alludeva abbastanza sprezzantemente: "opus cuiusdam hominis […] cucullati italico sermone conscriptum, et Plateam universalem scientiarum inscriptum" (cfr. Cherchi, Un episodio, 1969; Id., 1980, pp. 104 s.; Id. 1993, p. 395); altro oggetto della polemica del G. contro gli ignoranti appaiono essere quegli scrittori come Ortensio Lando, Anton Francesco Doni, Agrippa di Nettesheim che pure, paradossalmente a lui appaiono vicini o perché egli li sfrutta come fonti o perché ne condivide le tecniche scrittorie e compilative. Tali tecniche appaiono in realtà usate in pieno anche nella Sinagoga, che risulta infatti essere formata in buona parte da un collage di passi degli Adagia di Erasmo (apparentemente utilizzando l'edizione espurgata dal domenicano Eustachio Locatelli e pubblicata sotto il nome di Paolo Manuzio nel 1575 a Firenze dai Giunti) e degli Hieroglyphica di Pierio Valeriano (G.P. Dalle Fosse). Accanto a queste fonti illustri compaiono aneddoti di sapore scolastico, forse tratti da qualche repertorio umanistico oggi perduto; altri che fanno riferimento al comportamento riottoso e violento degli studenti universitari bolognesi e padovani; altre storie alludono al mondo delle campagne romagnole (come quella di quel tale che "avendo sentito cantare in banco da un romanzo la morte d'Orlando, se n'andò a casa piangendo come un fanciullo ben battuto": ed. Cherchi, 1993, p. 384). Nell'insieme il testo non presenta la struttura classificatoria propria dei precedenti scritti del G., e ha piuttosto il sapore dell'invettiva dell'uomo che ha percorso il cursus studiorum contro coloro che per insipienza, ignavia, bassa origine sociale sono rimasti involti nell'ignoranza. In questo senso davvero nulla di erasmiano hanno queste pagine, lontanissime come sono da ogni accenno al tema della "dotta ignoranza" o da quell'elogio dell'asino che aveva chiuso il De incertitudine et vanitate scientiarum di Cornelio Agrippa.
Negli ultimi mesi della sua vita il G. tornò a risiedere a Bagnacavallo, dove, secondo quanto apprendiamo dal testo della lapide sepolcrale, avrebbe dovuto predicare sulla Sacra Scrittura. Stava preparando un commento al Cantico dei cantici e si accingeva a essere accolto nell'Accademia degli Informi di Ravenna, anzi aveva già preparato il discorso per il suo ingresso, dal titolo L'huomo astratto, dedicato ai gradi della contemplazione estatica, quando fu colto dalla morte l'8 giugno 1589. Fu sepolto il giorno successivo nella locale chiesa di S. Francesco; l'elogio funebre fu recitato dal francescano Francesco da Tossignano.
Il fratello Bartolomeo curò l'edizione postuma di alcune opere del G. rimaste inedite. Così nel 1601 apparve a Bologna Il mirabile cornucopia consolatorio, elogio paradossale dei cornuti di tono burlesco; nel 1604 fu pubblicato L'huomo astratto (in Gli due Garzoni, Venezia 1604). Finalmente, nel 1613 (ibid.) uscì l'ultima opera impegnativa del G., quel Palagio degli incanti che egli aveva preannunciato come ormai concluso nelle ultime pagine della Sinagoga degli ignoranti. L'opera tuttavia venne pubblicata con un altro titolo, Il serraglio de gli stupori del mondo, perché quello originale era già stato utilizzato dal vicentino Strozzi Cicogna per un suo scritto di demonologia uscito nel 1605. Il Serraglio è opera difficile a valutarsi, perché appare in larga parte inzeppata di interventi, anch'essi molto estesi, di Bartolomeo che ne curò la stampa; si tratta comunque di un vastissimo repertorio di temi prodigiosi: dai mostri ai prodigi, alle sorti, agli oracoli, alle sibille e così via sino alle meraviglie. Ognuno di questi argomenti (in tutto dieci) occupa, secondo i gusti classificatori e architettonici del G., un appartamento, a sua volta suddiviso in diverse stanze (ricordiamo infatti che in origine l'opera doveva costituire un Palagio). Il grande tema della magia rinascimentale appare così amplissimamente trattato a un'epoca che per l'Italia è relativamente tarda.
Tentare un bilancio complessivo dell'opera del G. è davvero difficile, tanto appare contraddittoria in lui la mescolanza fra l'adesione plateale all'ortodossia controriformata e la prudente dissimulazione di letture e conoscenze che tali certamente non sono. Ci si chiede quale significato dare d'altronde a certi elementi (come il fatto che non sia stato un confratello a recitare l'elogio funebre del G.) e a qualche allusione di Ambrogio Dei, l'editore del Serraglio, che giustifica il ritardo nella pubblicazione ricordando enigmaticamente che "bisogna accomodarsi a' tempi e non declinare da' cenni de' maggiori […] che si può fare se tante materie ivi agitate non piacciono a' superiori esposte nell'italica favella?". Potremmo forse concludere ricordando l'elogio della "libertà prudente" che il G. inserì nel discorso XXXI del Teatro de' vari cervelli mondani, e che in qualche modo sembra rappresentare il programma di lavoro dell'autore.
Immensa la fortuna europea del G. (oltre quella italiana, misurabile nelle numerosissime ristampe delle sue opere: la Piazza fu stampata almeno 25 volte fino al 1675): il Teatro fu tradotto in francese (Parigi 1586) e in spagnolo (Barcellona 1600); l'Hospidale apparve in inglese (Londra 1600), in tedesco (Strasburgo 1618) e in francese (Parigi 1620); la Sinagoga in spagnolo (Barcellona 1600). Ma soprattutto straordinaria fu la fortuna della Piazza (che ebbe anche un adattamento spagnolo nel 1615) nel mondo tedesco, che apprezzava nell'opera proprio il tratto "sovraconfessionale" (Battafarano, 1991, p. 111) e non controriformistico. Basti pensare che fra il 1619 e il 1649 essa fu pubblicata quattro volte a Francoforte in lingua tedesca, e una (1624) in traduzione latina; è conservata, talora in più esemplari in tutte le maggiori biblioteche tedesche e giunse a essere, in molti ginnasi di lingua tedesca, una lettura obbligatoria per gli studenti. La penetrazione del testo garzoniano appare già nell'opera di Aegidius Albertinus, bibliotecario alla corte di Baviera dal 1593; ma è soprattutto evidente negli scritti di H.J.Chr. von Grimmelshausen e in particolare nel suo Der ewigwährender Kalender (1670), che contiene due lunghi dialoghi fra Simplicissimus e Zonagri (anagramma del Garzoni).
Le prime edizioni delle opere del G. sono state indicate nel testo; per un quadro completo si veda: T. Garzoni, Opere, a cura di P. Cherchi, Ravenna 1993, pp. 23-25; cui vanno aggiunte: una nuova edizione delle Vite delle donne illustri della Sacra Scrittura, a cura di B. Collina, Ravenna 1994. Due sono le edizioni recenti della Piazza universale, a cura di G.B. Bronzini, Firenze 1996, e di P. Cherchi - B. Collina, Torino 1996.
Fonti e Bibl.: Uniche fonti per la biografia del G. sono, oltre a elementi sparsi nelle sue opere, il Laconismo vitale, inserito dal fratello Bartolomeo nel Serraglio (e ora ripubblicato in appendice a T. Garzoni, Le vite delle donne illustri, cit., 1994, pp. 249-251), e il testo della lapide funebre, ora perduta (ibid., p. 10). Poco o nulla aggiungono G. Ghilini, Theatro d'huomini letterati, I, Venezia 1647, pp. 216 s. e C. Rosini, Lyceum lateranense, II, Cesena 1649, pp. 320-323.
B. Croce, Pagine di T. G., in Poeti e scrittori del tardo Rinascimento, II, Bari 1945, pp. 208-220; A. Scarpellini, Erasmo e i letterati romagnoli del Cinquecento, in Studi romagnoli, XVIII (1967), pp. 374-378; P. Cherchi, "La Sinagoga de gli ignoranti" di T. G. e gli "Adagia" di Erasmo, in Giornale storico della letteratura italiana, CXLVI (1969), pp. 391-395; Id., Un episodio dell'"Autobiografia" del Vico e una polemica del tardo Cinquecento, in Convivium, XXXVII (1969), pp. 463-469; E. Vidali Giorio, Una fonte del G.: "Dello specchio di scientia universale" di Leonardo Fioravanti, in Lingua nostra, XXX (1969), pp. 39-43; E. Concina, Per la "conditione" contadina nel secondo Cinquecento. Note al villano in T. G., in Archivio veneto, s. 5, CXXXVIII (1974), pp. 71-92; A. Bignardi, Mestieri di campagna nella Piazza di T. G. da Bagnacavallo, in Le campagne italiane nel Rinascimento e nell'età barocca, Bologna 1979, pp. 121-152; P. Cherchi, Enciclopedismo e politica della riscrittura: T. G., Pisa 1980; A.C. Fiorato, La folie universelle, spectacle burlesque et instrument idéologique dans l'Hospidale de T. G. (1586), in Visages de la folie (1500-1650): domaine hispano-italien, a cura A. Redondo - A. Rochon, Paris 1981, pp. 131-146; U. Tucci, I mestieri nella Piazza universale del G., in Studi in memoria di Luigi Dal Pane, Bologna 1982, pp. 319-331; R. Schenda, Enziklopädie des Märchens, V, Berlin-New York 1987, ad vocem; G. Scianatico, Il dubbio della ragione. Forme dell'irrazionalità nella letteratura del Cinquecento, Venezia 1989, pp. 57-100; A. Gnavi, Valori urbani e attività marginali nella Piazza universale di T. G., in Ricerche storiche, XX (1990), pp. 45-71; T. G. Uno zingaro in convento, Ravenna 1990; T. G. Polyhistorismus und Interkulturalität in der frühen Neuzeit, a cura di I.M. Battafarano, Bern-Berlin-Frankfurt am Main-New York-Paris-Wien 1991; B. Collina, "Due selve in una piazza". Due fonti della Piazza universale di tutte le professioni del mondo di T. G., in Filologia e critica, XVII (1991), pp. 187-230; P. Cherchi - B. Collina, Esplorazioni preparatorie per un'edizione della "Piazza universale" di T. G., in Lettere italiane, LXIII (1991), pp. 250-266; G.B. Bronzini, Il gran teatro dei mestieri del mondo dall'osservatorio di T. G., in Lares, LIX (1993), pp. 405-437; P. Cherchi, Aspetti della fortuna degli Apophtegmata, in Erasmo, Venezia e la cultura padana nel '500, a cura di A. Olivieri, Rovigo 1995, pp. 165 s.; U. Tucci, Le professioni nella Piazza universale di T. G., in Avvocati, medici, ingegneri. Alle origini delle professioni moderne. Secoli XVI-XIX, a cura M.L. Betri - A. Pastore, Bologna 1997, pp. 29-40; P. Cherchi, Onomastica e critica testuale nella Piazza di T. G., in Feconde venner le carte. Studi in onore di Ottavio Besomi, a cura di T. Crivelli, Bellinzona 1997, I, pp. 258-271.