TASSO, Torquato
– Nacque a Sorrento l’11 marzo 1544, da Bernardo (v. la voce in questo Dizionario), letterato e uomo di corte, e da Porzia de’ Rossi, gentildonna napoletana di origini pistoiesi, terzogenito dopo Cornelia e un fratello omonimo morto di pochi mesi nel 1542.
Verso la fine del 1542 la famiglia si era trasferita da Salerno a Sorrento; Bernardo, continuamente lontano al seguito del principe di Salerno Ferrante Sanseverino, conobbe il figlio solo nel gennaio del 1545; nel corso di quell’anno la famiglia si ristabilì a Salerno. Le peripezie di Sanseverino, costretto ad abbandonare Napoli alla fine del 1551 perché in conflitto con il viceré Pedro de Toledo, coinvolsero Bernardo, che restò fedele al suo principe, seguendolo a Venezia e accettando, nel 1552, l’incarico di una missione diplomatica prima a Ferrara, poi a Parigi. Bernardo, che aveva lasciato la famiglia a Napoli, divenuto ‘ribelle’ come il principe Sanseverino, non poté più tornare nel Viceregno e non rivide più la moglie e la figlia. Frattanto Torquato, che aveva ricevuto le prime lezioni da Giovanni d’Angeluzzo, un sacerdote di casa, iniziò a Napoli degli studi regolari «sotto la disciplina» dei gesuiti (Lettere..., a cura di C. Guasti, 1852-1855, 133).
Nel 1554 Bernardo, con un sussidio di Sanseverino, si stabilì a Roma in un appartamento nel palazzo del cardinale Ippolito d’Este, sperando di essere raggiunto dai suoi. Ma solo al decenne Torquato, in compagnia di d’Angeluzzo, fu permesso di lasciare Napoli (nel 1556 fu dichiarato anche lui ribelle): il suo dolore per il distacco dalla madre, che non avrebbe più rivisto (Porzia morì due anni dopo), sarà nel 1578 evocato nella cosiddetta canzone Al Metauro (Rime, a cura di A. Solerti, 1898-1902, 573). A Roma Tasso proseguì privatamente gli studi insieme al cugino di secondo grado Cristoforo Tasso, giunto da Bergamo, con cui restò anche in seguito in buoni rapporti (a lui fu dedicato, ormai arcidiacono di Bergamo, il dialogo La Cavaletta del 1585). La più antica lettera a noi pervenuta del suo epistolario fu scritta da Roma, nel 1556, a Vittoria Colonna (omonima della defunta zia poetessa), moglie di Garzia de Toledo: Tasso, istruito dal padre, chiese che s’impedisse il matrimonio svantaggioso della sorella, architettato dagli zii per riappropriarsi, morta ormai Porzia, di parte dei beni dotali. Nel settembre del 1556, preoccupato della paventata invasione a Roma dell’esercito del duca d’Alba, nuovo viceré di Napoli (per il conflitto tra papa Paolo IV e Filippo II), Bernardo inviò il figlio e il nipote a Bergamo, dove Torquato conobbe Ercole (v. la voce in questo Dizionario), fratello di Cristoforo, più tardi (nel 1585) dedicatario di un’operetta in lode del matrimonio. Pochi mesi dopo si ricongiunse a Pesaro con il padre, prima ospite e poi al servizio del duca di Urbino Guidubaldo II Della Rovere; nei due centri rovereschi Torquato restò due anni, divenendo compagno del principe Francesco Maria, che aveva otto anni, e giovandosi di maestri come Girolamo Muzio e della frequentazione di letterati, fra i quali Bernardo Cappello e Dionigi Atanagi, che coadiuvava il padre nella revisione dell’Amadigi.
Nella primavera del 1559 Torquato raggiunse a Venezia il padre, impegnato nella stampa dell’Amadigi e di altre opere; nel giugno conobbe a Padova Sperone Speroni, cui aveva portato in lettura alcuni canti del poema paterno; a Venezia conobbe artisti letterati come Gian Mario Verdizzotti e Danese Cataneo, e altre figure della civiltà letteraria del tempo, quali Girolamo Ruscelli, Francesco Patrizi, Domenico Venier. In questo milieu Tasso iniziò forse la composizione del primo canto (centosedici ottave) del futuro poema sulla crociata, Il Gierusalemme, provvisoriamente dedicato a Guidubaldo II; è tuttavia possibile che tale tentativo sia da ascrivere a una fase più tarda, di poco precedente o di poco successiva alla redazione o alla stampa del Rinaldo.
Nell’autunno del 1560 Tasso s’iscrisse ai corsi di legge dello Studio di Padova; l’anno dopo passò ai corsi di filosofia ed eloquenza, divenendo studente di Francesco Piccolomini (ricordato nel dialogo Il Costante) e di Carlo Sigonio, «eloquentissimo» espositore della Poetica, «con gloria di sé e stupore ed invidia altrui» (Rinaldo, a cura di M. Navone, 2012, Ai lettori, p. 47). A Padova Tasso frequentò anche la «privata camera» di Speroni, che paragonò all’«Academia» e al «Liceo» in cui disputavano «i Socrati e i Platoni» (Discorsi dell’arte poetica, 1964, p. 15). Tanto il magistero di Sigonio, che individuava la storia come fondamento della poesia narrativa, tanto quello di Speroni, dalla cui teoria del poema eroico Tasso in seguito si allontanò, ebbero un ruolo nella formazione del poeta, che a Padova compose il Rinaldo, pubblicato nell’estate del 1562 con dedica al nuovo padrone di Bernardo, il cardinale Luigi d’Este, fratello del duca di Ferrara Alfonso II.
Poema cavalleresco in dodici canti, il Rinaldo è preceduto da una prefazione che costituisce il primo intervento pubblico di Tasso in materia di poetica. Lo scopo è dimostrare che i propri versi sono nati all’ombra delle più aggiornate teorie, assorbite nell’ambiente padovano, mitigate dalla convinzione che un poema deve anche essere di piacevole lettura: seguendo gli insegnamenti aristotelici di Sigonio e Speroni, nel Rinaldo il narratore non interviene quasi mai; la trama è costruita intorno a un solo personaggio principale, ma un’unità troppo rigida è evitata grazie al ricorso a digressioni ed episodi secondari. Tasso propose così una strada intermedia fra la tradizione ariostesca e il tentativo di fondazione di una nuova epica intrapreso da Gian Giorgio Trissino. Come altri poemi successivi al Furioso, il Rinaldo è centrato sulle imprese (armi e amori) di uno dei paladini resi popolari da Matteo Maria Boiardo e Ludovico Ariosto, per le quali Tasso si giovò largamente della tradizione derivante dai cosiddetti Cantari di Rinaldo.
È probabile che tra il primo e il secondo anno di studi Tasso componesse i Discorsi dell’arte poetica, pubblicati, con dedica a Scipione Gonzaga (conosciuto a Padova, figura di primo piano nella sua vita), solo nel 1587 in una forma certamente rielaborata.
Nel trattato, consacrato alle regole di composizione del poema epico, si trova la prima formulazione dei principi teorici alla base del futuro poema gerosolimitano: la conciliazione di un evento «illustre» con l’invenzione (il «meraviglioso» della tradizione romanzesca), che si realizza scegliendo un argomento di storia cristiana e ricorrendo a una mitologia ‘credibile’ (gli interventi di Dio, degli angeli, dei demoni ecc.); la libertà d’invenzione del poeta, rispetto allo storico, nei particolari e nei personaggi, ma senza che siano alterate le verità generali (il «verisimile in universale»); il compromesso tra l’unità di azione, requisito indispensabile – le norme desunte dalla Poetica aristotelica sono considerate valide per ogni epoca (contrariamente a quel che aveva scritto Giraldi Cinzio, una delle fonti dei Discorsi) –, e la «varietà» degli episodi, legati alla trama da precisi nessi narrativi; infine il «decoro» che deve essere in linea con le esigenze del gusto moderno.
Nel novembre del 1562 Tasso si iscrisse allo Studio di Bologna (precedendo di qualche mese il maestro Sigonio), riunendosi ai cugini Ercole e Cristoforo. A Bologna restò sino al gennaio del 1564, trascorrendo l’estate a Mantova, dove Bernardo era ora segretario del duca Guglielmo Gonzaga. Venuto meno, per ragioni che si ignorano, il sussidio inizialmente ottenuto per seguire i corsi, inquisito con l’accusa di essere l’autore di pasquinate lesive della reputazione di maestri e condiscepoli, Tasso fuggì da Bologna, dove erano state sequestrate le carte conservate nella sua camera, trovando riparo a Modena dai Rangone, antichi protettori del padre. Dagli atti del processo (Solerti, 1895, III, pp. 3-15), istruito in contumacia, si deduce che il poeta ne era probabilmente l’autore o uno degli autori. Da Castelvetro, feudo dei Rangone, egli spedì il 29 febbraio 1564 una memoria difensiva al vicelegato di Bologna, ammettendo di avere talora recitato tali «versi infamatorii», ma non di averli composti (Lettere..., cit., 2). Nel marzo Tasso tornò a Padova, accogliendo l’invito e la protezione di Scipione Gonzaga: con il nome di Pentito divenne membro dell’Accademia degli Eterei, animata da Scipione, e riprese a seguire i corsi di filosofia dello Studio, di cui fu alunno ancora nel 1565 (non è noto se conseguì la laurea). All’Accademia, sul finire del 1564 o poco dopo, Tasso lesse l’orazione in memoria di Stefano Santini, conosciuto a Bologna, anch’egli poeta e membro degli Eterei: è l’unica, fra le cinque orazioni che ci sono rimaste, a non essere un semplice esercizio retorico. Come altri sodali, Tasso partecipò con quarantadue componimenti a un volume (Rime degli Academici Eterei) stampato nel 1567. Già in precedenza il poeta aveva pubblicato versi d’amore o d’occasione composti a partire dagli anni Sessanta, partecipando fra l’altro con quattro sonetti, poi confluiti nelle ‘eteree’, a una prestigiosa raccolta promossa da Atanagi (1565); ora per la prima volta Tasso pubblicava un nucleo compatto di rime che mostravano al pubblico un talento eccezionale, pur all’interno di una riconoscibile adesione al codice petrarchista, mitigata, per lo stile, dall’assorbimento sia di altri testi fondanti della tradizione, a cominciare da Dante, sia della più recente lezione di Giovanni della Casa. Le rime ‘eteree’ rappresentano il primo tassello del futuro canzoniere amoroso che Tasso provvide poi, a partire dal 1583, a strutturare in due libri, operando una selezione dei materiali accumulati nel tempo.
Nell’ottobre del 1565 iniziò per Tasso, che entrò al servizio di Luigi d’Este, la stagione ferrarese. Fra le personalità allora attive a corte vi erano il segretario ducale Giovan Battista Nicolucci, detto il Pigna, poeta, critico letterario e storiografo del casato; il filosofo Antonio Montecatini, più tardi (dal 1574) segretario ducale, e Battista Guarini, dal 1567 al servizio di Alfonso II. Meno importante, ma centrale per la sfera affettiva di Tasso (di cui si sa poco), è la figura di Luca Scalabrino, colto ferrarese ch’egli definì il suo amico più «caro» e «intrinseco» (Lettere..., cit., 76). La frequentazione della corte mise Tasso in contatto sia con il duca, sia con le sue sorelle Lucrezia e Leonora, destinatarie di rime galanti e d’occasione (un sonetto e una canzone per Leonora «inferma» furono inclusi tra le rime ‘eteree’).
Abbastanza libero nei movimenti (più volte si recò dal padre a Mantova), Tasso adattò il progetto del poema sulla prima crociata – su cui aveva continuato a lavorare (lo dimostrano i reperti della redazione arcaica in cui il protagonista è Ubaldo, preteso antenato di Guidubaldo II, protettore di Tasso sino alla fine degli studi universitari) – al contesto estense: nel corso del 1566 i primi sei canti del Gottifredo risultavano composti (Lettere..., cit., 6). Il 21 dicembre 1567 Tasso inaugurò con un’orazione l’Accademia ferrarese; in questo consesso lesse anche, in data imprecisata, una celebre lezione sul sonetto Questa vita mortal di Della Casa. Nel 1568 compose gli intermedi, perduti, di una commedia di Bernardo concepita per il battesimo di Marco Pio di Sassuolo (ove Tasso si recò nel maggio), figlio del signore locale, vassallo del duca d’Este. Assistito dal figlio, il 5 settembre 1569 Bernardo morì a Ostiglia, dove svolgeva un incarico per i Gonzaga.
Per le nozze di Lucrezia d’Este e Francesco Maria Della Rovere, Tasso compose, tra il gennaio e il febbraio del 1570, varie rime d’occasione e difese pubblicamente, in una sorta di disputa galante, cinquanta «conclusioni amorose» (stampate nel 1581), più tardi rievocate nel dialogo Il Cataneo overo de le Conclusioni amorose (1588 ca.). Lasciando a Ferrara le parti compiute del poema e altri inediti (Lettere..., cit., 13), nell’ottobre del 1570 partì per la Francia con altri cortigiani di Luigi d’Este, intenzionato a regolare una serie di questioni economiche. Vi giunse a fine ottobre, toccando varie località, ma risiedendo soprattutto a Parigi e nell’abbazia di Chaalis. Luigi raggiunse i suoi cortigiani solo in febbraio, partecipando ai festeggiamenti per le recenti nozze di Carlo IX. Un mese dopo, Luigi ridusse il proprio seguito: Tasso fu tra i cortigiani che ripartirono per Ferrara, giungendovi il 12 aprile 1571 con l’incarico di «baciar le mani» al duca da parte del fratello (Solerti, 1895, II, p. 100). Su richiesta di Ercole de’ Contrari, capitano delle guardie del Ducato, Tasso si cimentò in una sorta di analisi comparata (stampata nel 1581) dei «costumi» di Italia e Francia; i tanti riferimenti libreschi suggeriscono di non dare credito all’affermazione secondo cui si tratterebbe di pagine scritte «tumultuariamente ne’ disagi della corte di Francia» (Lettere..., cit., 14).
Provvisoriamente libero, per la lontananza di Luigi d’Este, da obblighi di servizio, Tasso trascorse varie settimane a Roma, forse alla ricerca di una nuova sistemazione; nell’estate si aggregò alla corte di Lucrezia d’Este, soggiornando nella villa roveresca di Casteldurante. In autunno fu tra i cortigiani che accompagnarono Alfonso II ai fanghi di Sant’Elena, nel Padovano. Il passaggio alla corte del duca, già nell’aria, avvenne a partire dal gennaio del 1572: Tasso vi otteneva prestigio e condizioni economiche più favorevoli, impegnandosi implicitamente a portare a termine, nel segno del nuovo protettore, il poema gerosolimitano. Tra la fine dell’anno e il marzo del 1573 partecipò al viaggio organizzato da Alfonso per omaggiare il nuovo papa Gregorio XIII. Frattanto componeva uno dei suoi capolavori, l’Aminta, favola pastorale in cinque atti rappresentata probabilmente per la prima volta a Ferrara tra la primavera e l’estate del 1573 (a stampa nel 1580).
La scelta di una pastorale in versi era in linea con la tradizione ferrarese del ‘terzo’ genere. In una struttura unitaria, che teneva conto della recente rinascita della tragedia regolare, Tasso rimodulò temi bucolici e satireschi, conciliando la leggerezza degli amori pastorali con un’atmosfera drammatica che sfiora la tragedia prima dello scioglimento felice. L’Aminta fu concepito anche come un dispositivo a chiave dai molti possibili significati: per ogni personaggio (a cominciare da Tirsi, maschera dell’autore) era ed è possibile ipotizzare l’identificazione con una personalità di corte.
Nel 1574 Tasso fu nominato professore di geometria dello Studio ferrarese, incarico poco oneroso che gli permetteva di aumentare le proprie entrate. Durante il Carnevale fu ospite a Pesaro per una rappresentazione dell’Aminta, partecipando a dispute letterarie insieme al cesenate Jacopo Mazzoni. Pochi mesi dopo, per la morte di Carlo IX, gli fu commissionata un’orazione (perduta) che pronunziò il 21 giugno durante le esequie ferraresi. Nel luglio fece parte del seguito di Alfonso II a Venezia per l’accoglienza a Enrico di Valois in fuga dalla Polonia verso il trono di Francia. Tornato a Ferrara, Tasso iniziò nell’agosto la stesura dell’ultimo canto del poema sulla crociata: a causa di «una improvvisa quartana» e dei suoi postumi (Lettere..., cit., 18) altri mesi passarono prima che ultimasse la cosiddetta redazione 1575, distante sia dai materiali superstiti delle prime stesure, sia dai successivi rimaneggiamenti. Il 17 febbraio 1575 spedì i primi quattro canti a Scipione Gonzaga, da tempo residente a Roma, il quale formò un comitato di revisori che annoverava, oltre lui stesso, Pier Angelio da Barga, Flaminio de’ Nobili, Sperone Speroni e Silvio Antoniano (il più insidioso e moralista del gruppo). Ebbe così inizio la ‘revisione romana’, alla quale contribuirono con un ruolo secondario Speroni e Giovan Vincenzo Pinelli, conosciuto negli anni padovani, che Tasso rivide nel mese di marzo.
Tra il marzo e l’ottobre Tasso spedì a Roma, un po’ alla volta, gli altri canti (nel giugno ne lesse l’ultimo ad Alfonso II): Gonzaga o Scalabrino, ora al servizio di Scipione, gli trasmettevano le osservazioni dei revisori, riguardanti, a seconda delle personalità, lo stile, la forma, la struttura, l’unità, la morale. Le risposte di Tasso (che si recò personalmente a Roma sul finire del 1575), ora indirizzate a Gonzaga ora, con toni più franchi, a Scalabrino, sono in gran parte raccolte nelle Lettere poetiche, stampate nel 1587 senza il suo consenso. Pur se non sempre convinto dalle obiezioni, Tasso finì in molti casi per cedere, almeno nelle intenzioni; ma vari importanti mutamenti, che riguardavano una maggiore adesione alla storia e una riduzione della sfera del meraviglioso, furono in realtà realizzati solo molti anni più tardi, nella riscrittura radicale del poema, la Gerusalemme conquistata (1593). Dopo una prima fase di revisione, attuata grazie alla mediazione e all’opera di amanuense di Gonzaga, una nuova copia in pulito (da lui stesso realizzata), che recepiva varie indicazioni dei revisori, fu spedita in due riprese a Tasso nel maggio del 1576 (è l’attuale ms. II 474 della Biblioteca comunale Ariostea di Ferrara).
Turbato da scrupoli di varia natura, che gli ispirarono l’idea di stampare il poema in due versioni, una castigata e una integrale ma in pochi esemplari, Tasso, dopo avere redatto un’allegoria con cui intendeva, come i difensori di Ariosto dei decenni precedenti, valorizzare i presunti significati morali nascosti negli episodi licenziosi, iniziò una nuova fase di revisione che, per le circostanze e per le successive vicende della sua vita, non portò a termine. Il poema, privo di una stesura definitiva, fu stampato solo nel 1581. Nel luglio del 1576 Tasso fece pervenire a Lionardo Salviati, che, forse per la speranza di sistemarsi a Ferrara, si mostrava amichevole, un sunto della trama (Lettere..., cit., 82): singolare documento nel quale figurano, come fossero già realizzati, mutamenti attuati più tardi nella Conquistata.
La revisione fu fonte per Tasso di inquietudini e fastidi: nelle sue lettere trapela insistentemente il timore, non ingiustificato ma certamente esagerato (quando il poema fu stampato, nessuno dei paventati pericoli si verificò), che la pubblicazione potesse essere bloccata dall’Inquisizione. Nel contempo, scrivendo a Gonzaga nel marzo del 1575, Tasso rivelò di essere a corte infastidito da molte persone (Lettere..., cit., 22); da altre lettere si deduce l’esistenza di un malessere, non bilanciato dai ripetuti favori ricevuti dal duca, che spinse il poeta a ipotizzare per sé, tessendo trame maldestre, un futuro a Roma o a Firenze. Nel giugno del 1575 si recò a Bologna per ragioni imprecisate; è tuttavia improbabile che in questa occasione, come invece ritennero Pierantonio Serassi e Angelo Solerti, incontrasse l’inquisitore locale: nelle lettere di questi mesi sono infatti assenti gli assilli religiosi che si manifestarono di lì a due anni (Corsaro, 2003, pp. 11-29).
Nel marzo del 1576 Alfonso II accolse la sua domanda di succedere al defunto Pigna come storiografo, carica che Tasso aveva richiesto per avere, in caso di rifiuto, un pretesto per andarsene (Lettere..., cit., 58). Nella corrispondenza di questi mesi si trovano tracce di un progressivo deteriorarsi delle relazioni con gli altri cortigiani: considerava Montecatini, nuovo segretario ducale, «successor» di Pigna anche nella «malevolenza» verso di lui (ibid., 58); in una missiva a Scalabrino fece cenno a «l’abbaiare d’alcuni bracchetti» aizzati contro di lui (ibid., 62); allo stesso (ibid., 70 e 81) scrisse che Claudio Bertazzolo, funzionario ducale, avrebbe intercettato le sue lettere e di avere scoperto «cento tradimenti» orditi ai suoi danni da un tale «Brunello» (presumibilmente un epiteto di ascendenza boiardesca e ariostesca), accusato anche di rovistare fra le sue carte (ibid., 86). A ciò si aggiungono i sentimenti a corrente alternata verso Orazio Ariosto, nipote di Lodovico, di cui Tasso, tra sospetti e diffidenze, accettava l’intimità forse per l’esistenza di un legame omosessuale. Il 7 settembre il podestà di Ferrara informò il duca, fuori città, che «una bastonata» era stata data a Tasso da un servitore, uno dei «fratelli Maddalò» (Solerti, 1895, II, p. 110); stando a quel che il poeta raccontò a Orazio Capponi, l’aggressore lo aveva colpito per vendicarsi di uno schiaffo «provocato da una mentita insolentissimamente ed impertinentissimamente replicatagli» (Lettere..., cit., 85).
Come già era avvenuto nelle precedenti vacanze pasquali, il poeta trascorse quelle del Natale del 1576 a Modena, ospite del conte Ferrante Tassoni: forse si deve a questo soggiorno, in cui strinse amicizia con Tarquinia Molza, più tardi personaggio eponimo del dialogo De l’amore (1585), il Discorso sopra la gelosia, stampato nel 1585. A fine febbraio del 1577 Tasso si recò, con la corte, a Comacchio, allestendo per il Carnevale una commedia e recitando lui stesso il prologo. È l’ultimo evento pubblico in cui svolse un ruolo di primo piano. Nel marzo, lamentando continui fastidi e furti ricevuti dalla servitù, chiese a Guidubaldo del Monte di Pesaro, conosciuto alla corte roveresca, l’invio di un servitore fidato (Lettere..., cit., 95, 97). È a partire da questo momento che comincia a divulgarsi la notizia che Tasso fosse preda di un’alterazione di mente dai contorni inquietanti, difficilmente gestibili dalla medicina del tempo. Tra la tesi di Serassi (il poeta vittima di un complotto tessuto da invidiosi) e quella di Solerti (Tasso in preda a una folle mania di persecuzione), la verità è probabilmente nel mezzo: a corte, come già Tasso adombrava nell’Aminta, rivalità e invidie erano all’ordine del giorno; nel contempo, le numerose testimonianze disponibili concordano nel documentare in Tasso un progressivo cedimento delle facoltà raziocinanti.
In maggio fu sottoposto a due salassi e ad altre cure che non sortirono alcun effetto. Il 7 giugno, dubbioso della propria fede, fu assolto dall’inquisitore di Ferrara, dopo essere stato su propria richiesta esaminato. Ma Tasso, forse per vendetta, forse per debolezza o paura, compì poi un gesto gravissimo: denunziò il segretario Montecatini. L’inquisitore, timoroso che potesse derivare «da debol principio e vano qualche fabbrica fastidiosa», avvisò il duca, informandolo che Tasso era intenzionato a recarsi dall’inquisitore bolognese (Solerti, 1895, II, p. 121). Alfonso II si premurò che le accuse fossero bollate come frutto di farneticazioni. Il 18 giugno Tasso fu imprigionato per aver minacciato un servo con un coltello mentre era a colloquio con Lucrezia d’Este. Qualche giorno dopo gli fu concesso di tornare nelle sue stanze in un regime, comunque, di reclusione. A luglio poté raggiungere il duca a Belriguardo; di lì, per scelta propria o perché indotto, passò nel convento di S. Francesco a Ferrara, dove scrisse due lettere concitate al duca, dicendosi convinto di essere stato accusato al S. Uffizio dai suoi «persecutori» e chiedendo di essere di nuovo esaminato (Lettere..., cit., 101-102). Tornato da qualche giorno nel castello ferrarese, guardato a vista, Tasso evase nella notte fra il 26 e il 27 luglio e rocambolescamente partì alla volta di Bologna: è in questa occasione che probabilmente si recò dall’inquisitore, confessando, come poi avrebbe raccontato nel 1580, di avere nutrito dubbi su molte questioni di fede (ibid., 133). Sparsasi la notizia della fuga, l’inquisitore di Ferrara scrisse al duca di temere che Tasso potesse «infamare» qualcuno «per semplice pazzia», magari non rilevata da «chi è men pratico» (Solerti, 1895, II, p. 128).
Il rigore che in seguito Tasso avrebbe patito con la lunga detenzione è certamente in relazione anche con la delicata posizione di casa d’Este nei confronti del papato: privo di eredi, Alfonso II sperava ancora di evitare che alla sua morte il ducato fosse riannesso allo Stato della Chiesa e in questo contesto non poteva permettersi di lasciare libero un uomo che accusava se stesso e altri cortigiani di eresia.
I dubbi di fede di Tasso – sull’immortalità dell’anima, sulla creazione del mondo, sull’autorità del papa – aggiunti a suggestioni luterane (la salvezza solo per grazia, la diffidenza verso le indulgenze), sono elencati nella lettera a Giacomo Boncompagni del 17 maggio 1580 e, se sono genericamente in rapporto con tante questioni dibattute in ambienti erasmiani ed evangelici, appaiono però più il lamento di un cristiano deluso (la Chiesa «a me s’era mostra non madre, ma madrigna», Lettere..., cit., 133) che non l’invettiva di un miscredente. Si trattava tuttavia di affermazioni gravi, da cui difficilmente sarebbe stato assolto senza la taccia di pazzia. Diagnosi che, d’altronde, metteva al riparo sia Montecatini sia gli altri cortigiani chiamati in causa. Se alla fine del 1585 Tasso, dopo aver ricordato la sua inclinazione più per la filosofia che per la teologia, scrisse di avere ritrovato la fede (ibid., 456), il traguardo, frutto di uno sforzo teso a superare gli ostacoli che la ragione stessa gli poneva innanzi, va considerato come una meta desiderata, non come un triste epilogo indotto da pressioni esterne o da ‘follia’.
Dopo Bologna partì alla volta di Sorrento, entrando nel Viceregno in incognito (era ancora un ‘ribelle’). Traendo spunto da una lettera di dieci anni dopo alla sorella Cornelia, in cui Tasso rievocò il suo viaggio «in abito di pastore» (ibid., 920), Giovan Battista Manso raccontò che il poeta, giunto in casa di lei, aveva finto di essere un «messo» che le annunciava che suo fratello era in condizioni disperate, provocando lo svenimento della donna: a quel punto Torquato si sarebbe rivelato. L’aneddoto, uno degli episodi della leggenda biografica di Tasso, fu concepito sul fondamento di celebri luoghi letterari (dal mito di Ulisse, che nei panni di pitocco verifica la fedeltà di Penelope, a quello di Oreste, che nell’Elettra di Sofocle fa annunziare alla sorella la propria finta morte). L’unico aspetto veritiero è testimoniato dallo stesso Tasso: le mentite spoglie di pastore erano utili sia per fuggire da Ferrara, sia per entrare nel Viceregno in incognito. Ospite di Cornelia e dei nipoti, Tasso rimase a Sorrento dal mese di agosto sino agli inizi del 1578. Dopo una tappa a Napoli, nel febbraio era a Roma, ospite del cardinale Luigi de’ Medici e poi dell’ambasciatore estense Giulio Masetti, grazie ai cui uffici cercava di essere riammesso a Ferrara, dando continue testimonianze di alterazione che certo non lo aiutavano. Solo il 16 aprile, accompagnato da Camillo Gualengo, poté rientrare a Ferrara, dove rimase per poco: a luglio era a Mantova, poi a Padova, a Venezia, quindi a Pesaro, ove giunse a metà mese trovando ricovero presso Giulio Giordani, segretario ducale, infine ad agosto a Urbino. Durante la permanenza nei territori rovereschi, Tasso compose la canzone Al Metauro, incompiuta alla terza strofa, in cui evocava le sventure patite sin dall’infanzia. Allo stesso periodo appartiene probabilmente la Lettera politica a Giordani, pubblicata postuma nel 1619, su quale fosse la migliore forma di governo tra repubblica e principato.
All’inizio del settembre del 1578 era di nuovo a Ferrara, donde, senza che gli fosse concessa udienza, ripartì alla volta di Mantova per proseguire verso Torino (l’arrivo nelle campagne del Novarese è rievocato nel dialogo Il Padre di famiglia, del 1580). Qui, accolto da Angelo Ingegneri, conosciuto tre anni prima a Roma, fu ospitato da Filippo d’Este, cugino di Alfonso II e genero del duca di Savoia, iniziando a redigere il suo primo dialogo, Il Forno overo de la nobiltà, e probabilmente anche Il N. o de la pietà. L’occasione delle terze nozze di Alfonso II lo persuase a tornare a Ferrara, speranzoso di riprendere le funzioni di un tempo: vi giunse a fine febbraio del 1579, sistemandosi nella dimora di Luigi d’Este. Pochi giorni dopo fu imprigionato nell’ospedale di S. Anna come pazzo furioso, dopo varie prove di violenza verbale. Il rigore della detenzione via via s’ammorbidì: un mese più tardi egli era in grado di ricominciare la sua attività epistolare.
Le condizioni mentali di Tasso durante la prigionia sono di difficile definizione. Le numerose testimonianze disponibili sono concordi nel ritrarre un uomo che ha smarrito la ragione: inquietanti sono le lettere in cui Tasso affermò di essere stato «ammaliato» e descrisse una serie di allucinazioni acustiche (Lettere..., cit., 190, 244, 454); in altre accenna a un «folletto» che gli ruba danari o carte (Lettere..., cit., 448, 454, 456), ma potrebbe trattarsi di linguaggio cifrato. Quel che è certo è che Tasso non ha mai smesso di avere interessi culturali di ampia portata, testimoniati dai suoi numerosi libri postillati, e ha continuato a comporre opere letterarie di pregio altissimo e spesso ineguagliato.
Durante la detenzione, oltre a una lunga serie di lettere (spesso, a sua insaputa, non recapitate) e rime per vecchi e nuovi possibili protettori affinché richiedessero la sua liberazione, Tasso compose versi per gli Este, cercando di riconquistarne il favore: notevoli sono le canzoni O magnanimo figlio (Rime, cit., 668), diretta ad Alfonso, e O figlie di Renata (667) per Lucrezia e Leonora. Di altro genere, ma per gli stessi fini, è il Discorso della virtù eroica e della carità, scritto per il cardinale Alberto d’Austria, fratello di Rodolfo II, nei primi tempi della prigionia e stampato nel 1582: Tasso discetta sulle varie virtù di cui il destinatario sarebbe dotato, supplicandolo di intercedere per la propria libertà presso Luigi d’Este. Nello stesso anno, in ideale dittico con il precedente, vide la luce il Discorso della virtù feminile e donnesca dedicato alla duchessa di Mantova. Lo scritto è in rapporto con la visita a Sant’Anna nel giugno del 1579 di suo figlio Vincenzo Gonzaga: una volta individuata nel principe una possibile via d’uscita, Tasso compose varie opere dedicate a lui e ai suoi (alla duchessa è dedicato anche il dialogo Il Ghirlinzone, del 1585), iniziando nei mesi successivi la stesura del dialogo Il Messaggiero e probabilmente dei primi due atti di una tragedia, il cosiddetto Galealto re di Norvegia (stampato nel 1582 con il titolo Tragedia non finita), che riprese poi nel 1586.
Nel tempo della prigionia compose molti dei dialoghi, anche nella speranza di ottenere favori; ma l’evento editoriale più importante, che permise a Tasso di guadagnare una fama europea, fu la stampa del suo poema epico, che apparve (dopo la pubblicazione, nel 1579, del canto IV in un’antologia di rime di vari, tra cui lo stesso Tasso, e un’edizione nel 1580, Il Goffredo, realizzata da Celio Malespini, priva dei canti XI, XIII, XVII-XX) in forma integrale, nel 1581, con il titolo destinato a imporsi, Gerusalemme liberata, coniato dal curatore Angelo Ingegneri. A Febo Bonnà nello stesso 1581 si deve la prima edizione ferrarese, realizzata con il beneplacito di Alfonso II e con il consenso solo formale dell’autore, che in realtà fu escluso dal lavoro tipografico.
Per il suo testo Bonnà si fondò con indubbia perizia su diversi testimoni, non privilegiando sistematicamente l’ultimo stadio di revisione, che del resto non era sempre identificabile facilmente. Le sue edizioni (ne curò a stretto giro altre due, con varie modifiche) costituirono il fondamento della vulgata del poema, la forma attraverso cui per secoli è stato letto. Con i suoi venti canti, la Gerusalemme, unico fra i poemi di ispirazione aristotelica a incontrare un successo duraturo, s’impose al pubblico per la mistione calibrata di storia e invenzione, armi e amori, unità d’azione e varietà di episodi. Un meccanismo perfetto, fondato su una dialettica non scontata fra Cielo e Inferno, sul conflitto fra la saggezza di Goffredo e gli ardori giovanili di Rinaldo, sul racconto di passioni impossibili come quella del gentile Tancredi, involontario uccisore dell’amata Clorinda.
Parallelamente iniziava la complessa vicenda editoriale delle rime e dei dialoghi: Aldo Manuzio il giovane pubblicò nel 1581 una Parte prima delle Rime che comprendeva il Romeo overo del giuoco; una ristampa dell’anno seguente offriva il Forno overo de la nobiltà (già edito autonomamente due anni prima); con la Parte seconda delle Rime (1582), ancora dei torchi manuziani, veniva stampato Il Padre di famiglia. Nessuna di queste e delle numerose raccolte che seguirono, come la Scielta delle Rime, edita da Guarini a Ferrara nel 1582, o le numerose impressioni di Rime e Prose, edite da Giulio Vasalini a partire dal 1583, rispecchiavano un disegno d’autore. Anche se Tasso riuscì in varie occasioni a interagire con i suoi stampatori, nessuna edizione nacque con suo utile e quasi mai soddisfazione. Infastidito e offeso, Tasso iniziò nel 1583 una lunga opera di revisione e selezione delle sue rime, che dopo uno stratificato lavoro di riscrittura approdò nell’edizione mantovana della Parte prima presso Osanna, nel 1591, con un proprio commento, e nell’edizione bresciana delle Laudi e gli Encomi del 1593.
Alla fine del 1584 ebbe inizio la polemica fra ‘ariostisti’ e ‘tassisti’, iniziata con la pubblicazione di un dialogo di Camillo Pellegrino e presto sfociata in una diatriba che vide impegnata sul fronte dei primi, capeggiato da Lionardo Salviati, l’Accademia della Crusca. Tasso stesso prese parte alla polemica, con un’Apologia del suo poema, apparsa nel 1585, e altre scritture. La produzione di dialoghi trovò nello stesso anno una formalizzazione teorica nel trattatello Dell’arte del dialogo. Durante il biennio 1586-87 potrebbe avere composto la commedia Intrichi d’amore (di controversa attribuzione, fu rappresentata tre anni dopo la sua morte e stampata nel 1603).
Nel luglio del 1586, Vincenzo Gonzaga ottenne dal cognato Alfonso II l’affidamento del poeta, che partì con lui per Mantova. Per ringraziarlo della liberazione, Tasso riscrisse e completò la sua tragedia, il cui manoscritto, con il titolo Il Re Torrismondo, ricopiato da Antonio Costantini (segretario dell’ambasciatore fiorentino a Ferrara, tra i più assidui corrispondenti dell’ultimo decennio di vita), fu consegnato nel dicembre. Negli stessi mesi, in omaggio al duca Guglielmo, ultimo protettore del padre, Tasso curò l’edizione di un inedito di Bernardo (il Floridante), aggiungendovi una serie di ottave encomiastiche. Nel 1587, Giovan Battista Licino, un sacerdote bergamasco promotore di diverse edizioni di opere di Tasso, pubblicò a Venezia, a insaputa dell’autore, i Discorsi dell’arte poetica con le Lettere poetiche, e le Gioie di rime e prose, dove figuravano dialoghi quali la seconda redazione di Il Forno overo de la nobiltà, il De la dignità, Il Malpiglio overo de la corte, La Cavaletta overo de la poesia toscana, La Molza overo de l’amore, che consacrarono definitivamente Tasso anche come prosatore, attribuendogli fama di «filosofo». Insoddisfatto, il poeta iniziò la correzione di gran parte di essi e riscrisse, notevolmente ampliandoli, i Discorsi che, con giunte ulteriori, videro la luce a Napoli, nel 1594, con il titolo Discorsi del poema eroico; nel frattempo aveva iniziato un’intensa lettura di testi teologici, i cui riflessi sono evidenti in tutte le opere degli ultimi anni.
Nell’agosto del 1587 si recò a Bergamo per rivedere i cugini e seguire l’attività editoriale di Licino e in particolare la stampa del Torrismondo. A fine mese tornò a Mantova, richiamato dalla morte del duca Guglielmo e dall’insediamento del figlio Vincenzo. In ottobre Tasso andò via, senza licenza del duca, forse spaventato, come ipotizzò Solerti (1895), dall’arrivo in visita di Alfonso II. Dopo una tappa a Modena, raggiunse a Bologna Costantini, poi proseguì, passando per Fano, per il santuario di Loreto e per Macerata, dove fu ospite di Orazio Capponi. A novembre era a Roma, trovando ricovero nel palazzo di Scipione Gonzaga. Vincenzo Gonzaga, che aveva contratto l’obbligo con Alfonso II di custodire Tasso, cercò tramite Scipione e Costantini, che si cimentarono in una pietosa serie di stratagemmi, di riportare il poeta a Mantova, ma senza risultati. Infine Alfonso fece sapere di non essere più interessato al destino di Tasso, che fu lasciato in pace.
All’inizio della primavera del 1588, dopo aver probabilmente negoziato una sorta di salvacondotto, Tasso partì per Napoli, speranzoso di recuperare i beni confiscati a suo tempo. Aiutato da prelati e gentiluomini, tra cui Matteo di Capua, conte di Palena, conteso dai letterati, fra cui Manso, il musicista Carlo Gesualdo, forse il giovane Giovan Battista Marino, che certamente incontrò più tardi, Tasso fu ospitato nel convento di Monte Oliveto, dove lavorò alacremente su più fronti, correggendo le rime, iniziando la composizione della Conquistata e probabilmente del Mondo creato, e lavorando al poemetto devozionale Il Monte Oliveto. Contemporaneamente cominciò, tramite suppliche e lettere, la lite per i beni, destinata a durare sino a qualche mese prima della morte, senza nessun risultato concreto. Nel dicembre tornò a Roma, dove restò sino all’aprile del 1590, risiedendo prima nel palazzo di Scipione poi, dal mese di agosto, quasi senza interruzione, nel convento di Santa Maria Nuova. In questi mesi, oltre a prose di rilievo, come la Risposta di Roma a Plutarco (terminata nel marzo del 1590) per Fabio Orsini (per lui scrisse anche il poemetto pastorale Il rogo amoroso), a versi d’occasione e alla prosecuzione di altri lavori, Tasso vagheggiò un progetto, destinato a fallire, di riedizione dei suoi scritti e di ordinamento e correzione della miriade di rime. Al medesimo periodo si devono probabilmente tre dialoghi fra i più impegnativi: Il Conte overo de l’imprese (su cui continuò a lavorare sino al 1593-94), Il Cataneo overo de le conclusioni amorose e Il Ficino overo de l’arte; più difficile è la collocazione cronologica del Minturno overo de la bellezza e del Porzio overo de la virtù, in ogni caso da ascrivere, con altre prose, all’ultima stagione.
Nell’aprile del 1590, Tasso si recò a Firenze (per i Medici aveva composto mesi prima il dialogo Il Costante overo de la clemenza), invitato dal granduca Ferdinando: onorato e ricompensato, Tasso compose una serie di versi d’occasione. Tornò a Roma nel settembre, dopo la morte di Sisto V, soggiornando prima nel palazzo di Scipione Gonzaga poi, mandato via per le proprie intemperanze, ricoverandosi in qualche camera privata. A fine febbraio del 1591, dopo vari tentennamenti, mentre era al lavoro sul canto XX della Conquistata (Lettere..., cit., 1313), scortato da Costantini, ripartì per Mantova, dove curò la stampa della Parte prima delle Rime e compose in versi La genealogia di casa Gonzaga. Nel novembre prese parte al corteo ducale in visita al nuovo papa Innocenzo IX; restò a Roma sino alla metà del gennaio 1592, quando, su invito di Matteo di Capua (a lui e ai suoi familiari Tasso dedicò numerose rime), partì di nuovo per Napoli, dove fu suo ospite (Manso, con intenti autocelebrativi, racconta che il poeta, infastidito per la sorveglianza di Matteo, si sarebbe trasferito nel suo palazzo: ma la cosa appare per lo meno improbabile; lo stesso biografo pretende che Il Mondo creato fosse composto in questa occasione su suggerimento di sua madre: laddove tutto lascia pensare che Tasso vi lavorasse da tempo).
Ad aprile tornò a Roma dove era stato eletto papa Clemente VIII. Uno dei suoi nipoti, Cinzio Passeri (che assunse il cognome Aldobrandini dello zio), lo prese sotto la sua protezione. L’effetto sulla Conquistata, ancora in cantiere, fu immediato: interessato a una rapida pubblicazione che gli fosse dedicata, Cinzio assunse per aiutare Tasso a ricopiarla Angelo Ingegneri, che fu poi coinvolto anche nella rifinitura del Mondo creato. In questo clima Tasso compose altri versi sacri quali Le lagrime di Maria Vergine (1593), seguite da quelle di Gesù Cristo. La Gerusalemme conquistata apparve nel dicembre del 1593 presso il tipografo pontificio Guglielmo Facciotti: la nuova versione, in ventiquattro canti, non incontrò né allora né poi il successo della prima, sia per la difficoltà di lettura (Tasso vi riversò fiumi di erudizione storica e teologica), sia per il diverso equilibrio delle parti. Il poeta stese anche un lungo Giudicio sovra la ‘Gerusalemme’ riformata, trattato di grande rilevanza che permette di comprendere il senso e il valore del complesso lavoro di riscrittura (fu stampato postumo a Roma nel 1666).
Ai primi di giugno del 1594, Tasso si recò per l’ultima volta a Napoli, dove furono stampati i secondi Discorsi e il dialogo De le imprese; alloggiò nel monastero benedettino di S. Severino: qui, mentre ultimava il capolavoro esameronico della sua ultima stagione, Il mondo creato (in endecasillabi sciolti, edito postumo a Viterbo nel 1607, dopo una stampa parziale del 1600), iniziò un poema Della vita di S. Benedetto.
Nel novembre ritornò a Roma, dove il papa gli accordò una pensione annua (Lettere..., cit., 1526). Nella primavera 1595, ammalato, fu condotto nel monastero di S. Onofrio.
Di qui, sofferente, ai primi di aprile scrisse forse a Costantini la sua ultima lettera (ibid., 1535; ma seri dubbi di autenticità gravano su molte delle missive dirette a Costantini e da lui stesso in seguito divulgate).
Morì il 25 aprile 1595, un mese dopo aver compiuto cinquantun anni.
Edizioni. Per l’Edizione nazionale (Alessandria, Edizioni dell’Orso) sono apparsi i volumi: Rime. Prima Parte - Tomo I. Rime d’amore, a cura di F. Gavazzeni - V. Martignone, 2004; Rime. Terza Parte, a cura di F. Gavazzeni - V. Martignone, 2006; Il Mondo creato, a cura di P. Luparia, 2006; Postille. Tomo II, 1-2, a cura di M.T. Girardi, 2009; Gerusalemme conquistata. Ms. Vind. Lat. 72 della Biblioteca nazionale di Napoli, a cura di C. Gigante, 2010; Rime. Prima Parte - Tomo II. Rime d’amore, a cura di V. De Maldé, 2016. La raccolta più completa, ma filologicamente inattendibile, è a cura di G. Rosini, I-XXXIII, Pisa 1821-1832. Sillogi di Opere sono a cura di G. Petrocchi, Milano 1961; B. Maier, I-V, Milano 1963-1965; B.T. Sozzi, I-II, Torino 1974. Edizioni critiche o di riferimento: Lettere di Torquato Tasso, a cura di C. Guasti, I-V, Firenze 1852-1855; Prose diverse, a cura di C. Guasti, I-II, Firenze 1875 (con l’Appendice, a cura di A. Solerti, Firenze 1892); Opere minori in versi, a cura di A. Solerti, I-II, Bologna 1891; Gerusalemme liberata, a cura di A. Solerti, I-III, Firenze 1895-1896, e a cura di L. Caretti, Milano 1979; Rime, a cura di A. Solerti, I-IV, Bologna 1898-1902, e a cura di B. Basile, I-II, Roma 1994; Gerusalemme conquistata, a cura di L. Bonfigli, I-II, Bari 1934; Il Mondo creato, a cura di G. Petrocchi, Firenze 1951; Aminta, a cura di B.T. Sozzi, Padova 1957; Dialoghi, a cura di E. Raimondi, I-III, Firenze 1958; Prose, a cura di E. Mazzali, Milano-Napoli 1959; Il Monte Oliveto, a cura di A.M. Lagomarzini, in Studi tassiani, XI (1961), pp. 5-67; Il Rogo amoroso, a cura di F. Gavazzeni, ibid., pp. 77-103; Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico, a cura di L. Poma, Bari 1964; Intrichi d’amore, a cura di E. Malato, Roma 1976; Tre scritti politici, a cura di L. Firpo, Torino 1979; Teatro, a cura di M. Guglielminetti, Milano 1983; Il Re Torrismondo, a cura di V. Martignone, Parma 1993; Lettere poetiche, a cura di C. Molinari, Parma 1995; Dell’arte del dialogo, a cura di G. Baldassarri, Napoli 1998; Giudicio sovra la Gerusalemme riformata, a cura di C. Gigante, Roma 2000; B. Tasso, Floridante, a cura di V. Corsano, Alessandria 2006; Risposta di Roma a Plutarco, a cura di E. Russo, Torino 2007; Rinaldo, a cura di M. Navone, Alessandria 2012; Il Gierusalemme, a cura di G. Baldassarri, Roma 2013; Rime eteree, a cura di R. Pestarino, Parma 2013.
Fonti e Bibl.: Strumento indispensabile per la ricchezza dei documenti raccolti è A. Solerti, Vita di T. T., I-III, Torino-Roma 1895; ma utili ancora sono P.A. Serassi, La vita di T. T., I-II, Bergamo 1790; B. Capasso, Il T. e la sua famiglia a Sorrento, Napoli 1866; G.J. Ferrazzi, T. T. Studi biografici, critici, bibliografici, Bassano 1880. Si veda inoltre G.B. Manso, Vita di T. T. (1621), a cura di B. Basile, Roma 1995. Cfr. anche E. Williamson, Bernardo Tasso (1951), Bergamo 1995. Regesti: A. Tortoreto-J. Fucilla, Bibliografia analitica tassiana (1896-1930), Milano 1935; A. Tortoreto, Nuovi studi su T. T. (1931-1945), in Aevum, XX (1946), 1-2, pp. 14-72; E. Bonora, Rassegna di studi tassiani, in Belfagor, VII (1952), 1, pp. 79-90; A. Tortoreto, Gli studi sul T. dal 1946 al 1951, in Studi tassiani, II (1952), pp. 63-106; G. Da Pozzo, Rassegna tassiana, in Lettere italiane, X (1958), pp. 192-214; M. Guglielminetti, Studi tassiani, in Letteratura, VI (1958), 31-32, pp. 156-165; G. Da Pozzo, Rassegna tassiana (1958-1963), in Lettere italiane, XVI (1964), pp. 473-510; B. Basile, Un decennio di studi tassiani (1970-1980), ibid., XXXIII (1981), pp. 400-437; G. Baffetti, Rassegna tassiana (1987-1998), in Lettere italiane, L (1998), pp. 416-445; P. Di Sacco, T. T. 1980-1997, in Rivista di letteratura italiana, XVI (1998), 1-3, pp. 275-370. Si vedano quindi le rassegne di L. Carpanè, pubblicate su Studi tassiani a partire da XXXVII (1989). Studi monografici: E. Donadoni, T. T., Venezia 1928; L. Caretti, Ariosto e T., Torino 1961; G. Getto, Malinconia di T. T., Napoli 1979; M. Guglielminetti, T. T., in Storia della civiltà letteraria italiana, dir. G. Barberi Squarotti, III, Torino 1990, pp. 303-355; G. Baldassarri, T. T., in Storia generale della letteratura italiana, a cura di N. Borsellino - W. Pedullà, V, Milano 1999, pp. 281-446; C. Gigante, T., Roma 2006. Per la storia dei testi, oltre alle edizioni citate: G. Resta, Studi sulle lettere del T., Firenze 1957; E. Raimondi, Il problema letterario e filologico dei Dialoghi (1957), in Id., Rinascimento inquieto, Torino 1994, pp. 189-217; A.M. Carini, I postillati “barberiniani” del T., in Studi tassiani, XII (1962), pp. 97-110; L. Caretti, Studi sulle rime del T., Roma 1972; A. Oldcorn, The textual problems of T.’s Gerusalemme conquistata, Ravenna 1976; B. Basile, Poëta melancholicus, Pisa 1984; C. Dionisotti, Amadigi e Rinaldo a Venezia, in La ragione e l’arte. T. T. e la Repubblica Veneta, a cura di G. Da Pozzo, Venezia 1995, pp. 13-25; L. Carpanè, Edizioni a stampa di T. T. 1561-1994, Bergamo 1998; P. Trovato, Per una nuova edizione dell’Aminta, in T. T. e la cultura estense, a cura di G. Venturi, III, Firenze 1999, pp. 1003-1027; E. Scotti, I testimoni di fase alfa della Gerusalemme liberata, Alessandria 2001; F. Gavazzeni - V. Martignone, Per l’edizione delle Rime, in Studi tassiani, XLIX-L (2001-2002), pp. 133-158; E. Russo, L’ordine, la fantasia e l’arte, Roma 2002; A. Corsaro, Percorsi dell’incredulità, Roma 2003; C. Gigante, Esperienze di filologia cinquecentesca, Roma 2003; V. Martignone, Catalogo dei mss. delle Rime di T., Bergamo 2004; L. Poma, Studi sul testo della Gerusalemme liberata, Bologna 2005; G. Baldassarri, Sulla fase alfa della Liberata, in Filologia e Critica, XXXIX (2014), pp. 161-206; E. Russo, La prima filologia tassiana, in La filologia in Italia nel Rinascimento, a cura di E. Russo - C. Caruso, Roma 2018, pp. 293-310. Tra i numerosi volumi collettanei: Dal ‘Rinaldo’ alla ‘Gerusalemme’. Il testo, la favola, a cura di D. Della Terza, Sorrento 1997; Sul T., a cura di F. Gavazzeni, Roma-Padova, 2003; Lettura della “Gerusalemme liberata”, a cura di F. Tomasi, Alessandria 2005.