Tasso, Torquato
Le frequenti assunzioni di linguaggio dantesco nelle sue opere poetiche (basti un breve saggio per la Gerusalemme Liberata: I 67 3 = If XX 70; II 36 7-8 = Pg XIV 148-150; III 73 8 = If IV 80; IX 66 5-6 = If III 113-114; X 24 1-4 = If XV 95-96; X 56 1-4 = Pg VI 62-66; X 61 1-2 = If XIV 28-30; XIV 51 5 = If XXXIII 58; XV 23 ss. = If XXVI 90 ss.; XVII 96 2 = Pg XXVII 133; XIX 19 3-5 = Pd XXVI 85-87) rinviano alla questione generale del travaglio espressivo del T., precisabile soltanto nella confluenza di diversi modelli.
Fece una statistica delle citazioni dirette, sulla fine del secolo scorso, il de' Claricini Dornpacher, dalla quale risulterebbe che delle circa centocinquanta menzioni, quelle favorevoli pareggiano le sfavorevoli, mentre i due terzi sono neutre; fra le postille alla Commedia le seconde superano largamente le prime. Se ne ricava la testimonianza di un interesse costante ma vigile (manifestato indirettamente, seppure in attitudine esclamativa, dal dialogo di Alessandro Guarini, Il farnetico savio ovvero il Tasso, Ferrara 1610), formatosi fin dalla giovinezza, sull'esempio del padre e di letterati e dantisti quali Sperone Speroni e Iacopo Mazzoni.
La sua particolare natura poetica e l'assillo dei problemi formali lo portavano a rilevare con maggiore insistenza gli aspetti esecutivi e simbolici della Commedia nei confronti di quelli drammatico-fantastici, come si constata nei discorsi Dell'arte poetica e Del poema eroico, dove con puntualità il T. chiarisce gl'insegnamenti che pensa di trarre dal modello dantesco. A parte le citazioni eleganti e di tipo proverbiale, non è raro in essi il riconoscimento della singolare grandezza di D., posto accanto a Omero per l'" evidenzia " e l'" energia " con le quali " pone finanzi a gli occhi la cosa " (ediz. Poma, p. 47) e " nell'ardire e nella licenza e nel mescolamento delle parole antiche e barbare ", mentre per la " brevità è più simile a Virgilio " (p. 248); la struttura lo lascia meravigliato e perplesso, osservando che " nel suo maggior poema non è parte che non sia allegorica ma egli non dechiara se stesso " e che " altissima, oltre tutte l'altre di questa e d'ogn'altra lingua ", è l'allegoria del Veglio di Creta (p. 210); e nelle postille che " nissun poeta, fuorché D., fa professione dell'allegoria, anzi sempre l'ha dissimulata (a If IX 61-63 e Pg VIII 19-21, nell'ediz. Sessa). " Della vita dell'uomo contemplante è figura la Commedia di D. " (Apologia..., p. 302): tale la conclusione tropologica, mentre rimane aperto a un vario discorrere, lungo tutta la meditazione letteraria tassiana, il giudizio tecnico, sul lessico e sullo stile. Non sempre questi lo persuadono: alle neoformazioni dignitose (Discorsi, p. 180) si alternano stridenti cacofonie e nomi " ch' hanno del vieto e quasi del rancido " (p. 185) e nell'Inferno " i più sozzi vocaboli e più vili ch'usasse il popolo fiorentino " (p. 192); D. insomma - questa era pure l'opinione del Salviati - " scrisse più fiorentinamente che il Petrarca, ma non ebbe come lui l'elocuzione così poetica e così pellegrina " (Apologia, p. 376). Spiccano, al riguardo, due scritture: il dialogo La Cavaletta overo de la poesia toscana e la lezione sopra il sonetto del Della Casa Questa vita mortal. Nel primo il T. accoglie sostanzialmente la concezione, espressa nel De vulg. Eloq., della poesia come finzione retorico-musicale e fa seguire osservazioni sulle forme metriche del sonetto e della canzone, cogliendo le felici prevaricazioni di D. rispetto alle norme da lui stesso codificate (ediz. Raimondi, II II 634 ss., 640-641, 658); nella seconda dissente dalla tesi (ancora nel De vulg. Eloq.) che al sonetto si addica lo stile più umile, argomentando che la capacità di accogliere concetti " gravi e magnifici " (come appunto in taluni di D. stesso e del Cavalcanti) porta con sé la legittimità di una correlativa espressione. Il fatto è - osserva il T., isolando qualche asserzione dantesca - che errate erano le premesse, cioè che la poesia si fondi non sopra i concetti o la favola, come volle Aristotele e attuò il Petrarca, bensì sul verso e la corrispondenza delle rime, da cui tutto il resto deve prendere legge.
Sarebbe però errato parlare, come si è fatto, di ‛ un ascolto puramente esterno ', perché se più d'una delle reminiscenze dantesche nella Liberata (e nelle altre opere del T.) rientrano in un ben noto procedimento umanistico di ricerca del bello stile mercé l'immagine e il vocabolo illustre e spesso peregrino (e peregrine suonavano al tempo del T. non poche voci dantesche), o risultano soltanto echi stanchi e inerti (" onorate l'altissimo campione ", III 73 8), è pur dato cogliere più d'una volta i segni di una più intima partecipazione alla poesia dell'antico poeta, letto con tanta attenzione come attestano l'Aminta, nel cui gioco raffinatissimo di citazioni D. compare non una sola volta accanto agli altri poeti, o le lime (basti citare la ballata di gusto stilnovistico Deh nuvoletta in cui m'apparve Amore che si rifà alla ballata dantesca nella lezione vulgata), o, per restare fra le liriche dantesche, la raffigurazione di Clorinda, che si suggella in un discreto richiamo a un luogo insigne della Vita Nuova: " dir parea: ‛ S'apre il cielo; io vado in pace ' ", XII 68 8. Più frequenti, ma più estrinseci (questi sì) gl'incontri danteschi nella Congquistata: ben più interessanti, alcuni passi della Liberata, che saranno soltanto saggi di squisita perizia letteraria, come il verso di remota ascendenza biblica in cui si congiungono due emistichi del Petrarca e di D. (" Fiamma dal cielo in dilatate falde ", X 61 2) ma rivelano pure altre volte il proposito di porre in risalto una voce o un'immagine dantesca come il ‛ torreggiare ' di If XXXI 43, che con altra reminiscenza (più fiacca, del canto di Farinata) varrebbe a delineare le figure dei tre grandi Saraceni sulle mura di Gerusalemme (né manca la spia della voce ‛ gigante '): " e quinci in forma d'orrido gigante / da la cintola in su sorge il Soldano; / quinci tra' merli il minaccioso Argante / torreggia, e discoperto è di lontano, / e in su la torre altissima angolare / sovra tutti Clorinda eccelsa appare ", XI 27 3-8 (e sarà da notare che il ‛ torreggia ' ha nel verso la stessa posizione del torreggiavan dantesco).
Così nel colloquio di D. con Brunetto (però giri Fortuna la sua rota / come le piace, e 'l villan la sua marra, If XV 95-96) è lo spunto della magnanima risposta di Solimano a Ismeno, che soltanto parzialmente gli aveva svelato il futuro: " Girisi pur Fortuna / o buona o rea, come è lassù prescritto, / ché non ha sovra me ragione alcuna / e non mi vedrà mai se non invitto ", X 24 1-4), traduzione, o meglio trasfigurazione dell'episodio dantesco trasportato dal tono familiare e colloquiale alla tensione di un discorso eroico conforme al carattere del personaggio e alla tendenza intrinseca alla poesia tassesca. Simili anche e pur dissimili il congedo del mago d'Ascalona (XVII 96) e il congedo di Virgilio (Pg XXVII 124 ss.), dissolte senza forzature e ambizioni eroiche le immagini di quei versi e fuse con altre dantesche nel nuovo discorso del tutto adeguato alla diversa situazione: " Vedete il sol che vi riluce in fronte, / e vi discopre con l'amico raggio / le tende e 'l piano e la cittade e 'l monte. / Securi d'ogni intoppo e d'ogni oltraggio " (cfr. XXXIII 42 e anche If XXI 81).
Ma non semplice reminiscenza o allusione, e qualcosa di più che non uno spunto, è nell'assunzione di un grande personaggio della Commedia - di Ulisse - in quella solenne meditazione storica che si dispiega nel discorso della Fortuna e in cui la rievocazione dell'eroe mitico e dantesco s'intreccia con la celebrazione di Colombo e delle nuove scoperte geografiche. Importante questo vero e proprio omaggio a D. per il rilievo dato dal T. a quello che è per noi uno degli episodi più caratteristici della Commedia; ma importante pure per la stessa disparità di accento fra l'antico testo e la parafrasi tassesca (XV 25-26), che palesa in più di un'espressione la diversa personalità dei due poeti, cosicché diventa tutto tassesco e rinascimentale quel che si dice di Ercole, che " 'n troppo brevi chiostri / l'ardir ristrinse de l'ingegno umano ", o di Ulisse (il suo nome è posto in risalto in rima nella chiusa dell'ottava: " ma quei segni sprezzò ch' egli prescrisse, / di veder vago e di saper, Ulisse "), o del suo " volo audace " (non più ‛ folle ': " Ei passò le Colonne, e per l'aperto / mare spiegò de' remi il volo audace "); o, più innanzi (ott. 30), della leggenda delle Colonne d'Ercole " Tempo verrà che fian d'Ercole i segni / favola vile a i naviganti industri "), e di Colombo infine in cui si rinnova l'insofferenza, e l'ardimento ulisseo: le immagini di tutti i pericoli da affrontare non faran sì " che 'l generoso entro a i divieti / d'Abila angusti l'alta mente accheti ". I " troppo brevi chiostri ", lo " sprezzò ", la " favola vile ", i " divieti angusti ", l' " accheti " non sono naturalmente di D., e queste espressioni e l'episodio tutto tassesco ci sembrano di per sé stesse come pagina di poesia e documento dell'arte del T., quasi l'avvio, ma quanto lontano e ancora misurato, della trasfigurazione e delle vere e proprie deformazioni che l'Ulisse dantesco per opera dei più recenti poeti e interpreti subirà più d'una volta in ambiente romantico e decadentistico.
Bibl. - Edizioni: T.T., Opere, a c. di L. Caretti, I, Milano 1957 (per la Gerusalemme Liberata); Discorsi dell'arte poetica e del poema eroico, a c. di L. Poma, Bari 1964; Dialoghi, a c. di E. Raimondi, Firenze 1958; Prose diverse, a c. di C. Guasti, I, ibid. 1875 (per l'Apologia in difesa della Gerusalemme Liberata); Lezione sopra il sonetto LIX di M. Giovanni Della Casa, in G. Della Casa, Opere, I II, ibid. 1707, 176-178. Le Postille alla Commedia oltre che nelle edizioni Giolito (Venezia 1555: fino al c. XXIV dell'Inferno, di scarsa importanza; ristampate a c. di E. Celani, Città di Castello 1895), Sessa (ibid. 1564: le più organiche e meditate, a tutto il poema), Da Fino (ibid. 1568: attente soprattutto alle figure retoriche), si trovano in T.T., Opere, XXX, Pisa 1831. Le Postille al Convivio nell'edizione Sessa, Venezia 1531 (fino al cap. VIII del IV trattato), in quella a c. di G. Trivulzio, V. Monti, e A. Maggi (Milano 1826; quindi Padova 1827).
Studi: S. Grosso, Sulle postille del T. alla D.C., in " L'Alighieri " I (1889) 7-20; N. De' Claricini Dornpacher, Lo studio di T.T. in D.A., Padova 1889 (cfr. F. Pasqualigo, in " L'Alighieri " I [1889] 120-123; M. Barbi, in " Bull. " I [marzo 1890] 9); T. Casini, Prefazione all'edizione delle Postille, Città di Castello 1895; G.B. Marhesi, Della fortuna di D. nel sec. XVII, Bergamo 1898, 5-7; G. Maruffi, La D.C. considerata quale fonte dell'Orlando Furioso e della Gerusalemme Liberata, Napoli 1903 (cfr. N. Zingarelli, in " Bull. " n.s., XII [1905] 307-309); C. Previtera, La poesia e l'arte di T.T., Milano-Messina 1936, 119; A. Franz, D. in T., in " Deutsches Dante-Jahrbuch " n.s., XXII-XXIII (1953) 148-167; E. Mazzali, Tradizione retorica e tradizione poetica nella poesia di T.T., nel vol. collettivo T.T., Milano 1957, 122, 133, 134, 136 e passim; C. Varese, L'Aminfa, ibid., 164; W. Moretti, Tre maestri della tecnica epica tassiana, in " Annali Scuola Norm. Pisa " s. 2, XXX (1961) 28-32; D. Della Terza, T. e D., in " Belfagor " XXV (1970) 395-418; E. Di Poppa Vòlture, D. e T., in Il padre e i figli, Napoli 1970, 175-189.