TASSO, Torquato
Da una nobile famiglia bergamasca, le cui prime notizie sicure risalgono al sec. XIII, nacque T. a Sorrento da Bernardo (v.) e da Porzia de' Rossi l'11 marzo 1544. Ebbe come primo maestro un buon prete, don Giovanni d'Angeluzzo; studiò poi a Napoli per due anni, in una scuola tenuta dai gesuiti; quindi, chiamato a Roma (1554) dal padre esule, lasciò la mamma che non doveva più rivedere, e proseguì in quella città gli studî, insieme col cugino Cristoforo Tasso; nel 1557, accompagnato da don Angeluzzo, raggiunse Bernardo a Pesaro, dove fu compagno di studî di Francesco Maria della Rovere, figlio del duca Guidobaldo II. I primi versi del T. risalgono a questa dimora a Pesaro; nascono in una delle più importanti corti d'Italia; appunto in lode "di quei paesi e di quella corte" è un sonetto che ci è rimasto. Mandato nel 1560 a Padova a studiar leggi, frequentò, più che lo Studio, la casa di Sperone Speroni: le conversazioni letterarie cui ivi partecipò furono di grande importanza per lo sviluppo del suo pensiero critico e quindi, indirettamente, per la sua arte. Del resto, il giovane T. doveva naturalmente partecipare alle preoccupazioni teoriche che furono così vive in Bernardo come in tutti i letterati della sua età; egli ebbe col padre una consuetudine affettuosa e un'intimità spirituale come con nessun altro mai, e lo assisté e aiutò a Venezia nella correzione dell'Amadigi. L'arte di T. nasce dunque - possiamo fissarlo sin d'ora - in ambiente cortigiano e si alimenta sin dall'inizio di sottili discussioni teoriche: donde le derivano due caratteri che non perderà mai. Il T. componeva intanto versi (tra cui 4 sonetti per due raccolte funerarie, 1561 e 1562: le prime sue cose a stampa), anzi addirittura un poema, il Rinaldo, pubblicato nel 1562, con dedica al card. Luigi d'Este, presso il quale Bernardo si era l'anno prima allogato. Col 1561 egli, sempre a Padova, era passato a studiare filosofia ed eloquenza; discepolo questa volta zelante, specie del Sigonio, che leggeva la Poetica di Aristotele. Son di questi anni i versi, raccolti nella prima parte delle Rime, per Lucrezia Bendidio, sposa nel 1562 del conte Baldassarre Machiavelli. Col 1562 il T., munito di un sussidio del duca d'Urbino, passò a studiare a Bologna, dove si era trasferito il Sigonio; ma, processato come autore (e l'accusa era forse fondata) di una pasquinata offensiva per alcuni scolari e insegnanti dello Studio, nel gennaio 1564 si dové allontanare improvvisamente da quella città. Nel marzo torna a Padova, chiamatovi e ospitatovi da Scipione Gonzaga: vi continuò e finì nel 1565 i suoi studî di filosofia, ma non risulta da documenti che si sia laureato; fa parte, col nome di Pentito, dell'Accademia degli Eterei istituita dal Gonzaga; compone assai versi, pubblicati via via in raccolte; canta soprattutto Laura Peperara, di famiglia di ricchi mercanti mantovani, da lui conosciuta nel 1563 o nel 1564; studia e postilla classici, Dante, poeti italiani del Duecento e del Trecento; qualche dubbio in materia di fede si affaccia sin da questo tempo alla mente del giovinetto. Nell'ottobre 1565 si stabilisce in quella Ferrara, che doveva vedere i suoi anni più felici e i più tristi, e che il poeta non dimenticherà mai.
A Ferrara il T. è alla corte del card. Luigi, ma senza ufficio determinato e senza stipendio fisso (ebbe quest'ultimo solo col 1568). Giovanissimo e circondato dall'aureola della precoce poesia, si tuffa in pieno nel fasto della corte, come nell'elemento a lui propizio: Ferrara in festa per le nozze di Alfonso II con Barbara d'Austria (dicembre 1565) gli sembra che fosse tutta "una maravigliosa e non più veduta scena dipinta e luminosa, e piena di mille forme e di mille apparenze"; entra subito nelle grazie dei principi, soprattutto di Lucrezia, sorella di Alfonso; libero di sé, lavora molto: ad alcuni dialoghi (non sappiamo precisamente quali), a un grande poema sulla liberazione di Gerusalemme, la cui prima idea risale forse al maggio 1559. E in servigio del poema medita sull'essenza della poesia: i tre Discorsi dell'arte poetica, che più tardi il T. amplierà, furono forse letti nell'Accademia ferrarese tra il 1567 e il 1570. In questo stesso anno (ottobre) precede a Parigi il card. Luigi che si recava colà per regolare la successione ai benefizî ecclesiastici rinunciatigli dallo zio card. Ippolito, e per altre ragioni d'interesse; ne ritorna subito: il 12 aprile 1571 è di nuovo a Ferrara. Le Osservazioni sullo stato di Francia, opera di un osservatore acuto, realistico, pratico, rappresentano una singolare eccezione negli scritti del T., sempre così "poeta" nel senso più romantico della parola. Ma non passerà molto e il T., per ragioni non ben chiare, lascerà il servizio del cardinale.
Dopo aver tentato di allogarsi presso il card. Ippolito, nel 1572 ottiene d'essere tra gli stipendiati del duca Alfonso: lire marchesane 58,10 al mese, titolo di gentiluomo, ammissione alla tavola ducale, nessun obbligo se non quello di comporre poesie a onore della casa d'Este. "Io sono capital nemico della fatica e del disprezzo... Questo segno mi sono proposto: piacere e onore": il T. inseguirà per tutta la vita l'ideale di una vita senza obblighi di sorta, tutta spesa negli studî che gli avrebbero procurata gloria, e il più piacevole possibile. Naturalmente, invidie e sospetti non potevano mancare, massime da parte di G.B. Pigna e di B. Guarini, poeti anch'essi e per di più adibiti dal duca in negozî politici di alta importanza, i quali dovettero certo guardare con qualche preoccupazione all'astro sorgente e già così risplendente. Ma di una vera e propria ostilità non è da parlare: i due uomini politici e letterati erano troppo cortigiani per non fare buon viso a cattivo giuoco, e per quanto potessero essere gelosi della loro fama letteraria, alla quale ambedue tenevano immensamente, e che il T. minacciava di far impallidire, conoscevano troppo gli uomini per temere che un sognatore, negato come il T. a ogni attività pratica, potesse presentare pericolo per la loro posizione politica nella corte. È stato anche detto che ad aumentare le prevenzioni del Pigna contro il T. può avere contribuito anche il fatto che quello aveva sin dal 1571 preso a "servire", a corteggiare in versi, la Bendidio: ma si tratta di giuochi di corte che non impegnano altra rivalità che letteraria; e infatti vediamo, per esempio, il T. commentare tre canzoni per una raccolta di versi del Pigna in lode della Bendidio, curata dal Guarini e dedicata all'altra sorella del duca, Leonora. Eleganti giostre di cortesie letterarie e cortigiane.
Reduce da una gita a Roma (gennaio-marzo 1573) al seguito del duca, il T. finisce, probabilmente nella primavera del 1573, L'Aminta; della recita non si ha notizia in documenti: il Solerti congetturò, con qualche verosimiglianza, che essa dové avvenire il 31 luglio nell'isola di Belvedere. Nella prima recita mancavano, oltre l'episodio di Mopso, che fu aggiunto solo nella seconda edizione della pastorale, anche i cori, che furono composti in seguito, in occasione di una recita a Pesaro, e gl'intermedî, che non si sa in quale occasione siano stati introdotti. Come ricompensa per questa composizione, graditissima alla corte e subito imitatissima dappertutto, il duca nominò il T. lettore di geometria e della sfera allo Studio: ufficio puramente nominale che il T. tenne finché fu rinchiuso in S. Anna.
Sono anni di vivace fervore di vita, di grande attività artistica: gli anni più felici del T. Oltre gran numero di prose e di rime, conduce sino al principio del 20 atto (1574) la tragedia Galealto, che correggerà e compirà assai più tardi, nel 1586-87, a Mantova, col nuovo titolo di Re Torrismondo (1a ed., Bergamo 1587); soprattutto, questi son gli anni della prima Gerusalemme, finita nel 1575. Il grande sforzo creativo mette a dura prova il suo sistema nervoso, anche se dello squilibrio degli anni seguenti, o, come diagnosticheranno i medici moderni, "pazzia alternante", esso non possa ritenersi unica causa. Già in quello stesso anno 1575 si hanno i primi sintomi della caratteristica instabilità di propositi che fu propria del T.: avvia trattative per entrare al servizio di uno o altro principe de' Medici, sebbene Alfonso in un bando del 1573 avesse vietato ai suoi cortigiani di passare ad altro servizio senza sua licenza, e sebbene tra tutte le corti d'Italia quella di Firenze fosse la più sgradita al duca, per la grossa questione delle precedenze; nel novembre - pur sapendo che Alfonso non lo approvava - intraprende un viaggio a Roma per discutervi del suo poema, già preso da scrupoli rettorici e da inquietudini e paure d'ogni genere, timoroso che la Gerusalemme potesse essere proibita per troppo d' "amore" o d' "incanti", o per altro che potesse offendere la religione; già dubitoso della propria ortodossia. Sottopone pertanto il suo poema al giudizio e alla correzione di molti, amici e meno amici: Scipione Gonzaga, Pier Angelio da Barga, Flaminio de' Nobili, Silvio Antoniano, Sperone Speroni; e dei loro giudizî si cruccia, troppo poeta per accettarli senz'altro, troppo bisognoso di ammirazione universale per rifiutarli, per non desiderare di prevenire le critiche pubbliche. Nella speranza che un rifiuto potesse dargli pretesto per lasciar Ferrara, chiede di succedere quale storiografo ducale al Pigna; ma ottiene la carica, senza che peraltro scriva mai una riga di storia. Comincia a farneticare di folletti e di maghi; vede dappertutto insidie e tradimenti; e nel 1576 una prima scenata mette a rumore la corte. Ercole Fucci-Maddalò, modestissimo cortigiano, dà al T. una "mentita"; il T. risponde con uno schiaffo; poco dopo è aggredito e bastonato da Ercole accompagnato dal fratello Maddalò (questo era nome e soprannome della famiglia); il duca ordina un'inchiesta, il Fucci ripara a Firenze. Tradimenti e congiure si moltiplicano nella mente del poeta: un Brunello è sopra tutti sospettato: forse un Antonio Virginio Brunelli. Ma il T. ormai sospetta di tutti, piccoli e grandi.
E sospetta soprattutto di sé stesso; già da gran tempo, abbiam visto, lo assalivano dubbî in fondamentali argomenti di fede; e la religiosità avvertiva in sé come un'aspirazione, non come un possesso, in ciò assai men pazzo di quel che non sembrerà al Solerti. Teme di essere eretico e circondato da eretici; l'inquisitore di Ferrara lo assolve; non tranquilizzato, egli vorrebbe appellarsi a Bologna e a Roma. Era ciò che più dispiaceva al duca, che ben sapeva che la sua corte, nonostante il bando dato a Renata, era in sospetto presso la Curia, e temeva che da rinnovate accuse di eresia questa prendesse pretesto per irrigidirsi nel suo atteggiamento antiestense, mentre, in mancanza di eredi diretti, c'era da regolare la questione della successione e tentare di conservare Ferrara alla sua casa. Onde non sono forse lontani dal vero coloro che pensano che queste considerazioni abbiano influito sull'atteggiamento di Alfonso verso il T.: che, se non fu così crudele come la leggenda narrava, non fu così dolce come il Solerti credette di aver dimostrato.
Il 17 giugno un altro episodio assai grave: il T., armato di coltello, aggredisce un servo, in presenza di Lucrezia. È rinchiuso in certi camerini del cortile adibiti a prigione; verso la fine del mese è restituito alle sue stanze, ma le finestre di queste sono inferriate e due inservienti sono per qualche tempo addetti a sorvegliarlo. La corte, specialmente Lucrezia, fa di tutto per curarlo, ma T. recalcitra dinnanzi ai medicamenti energici, non sa privarsi delle dolcezze del vitto e del bere. Ricoverato nel convento di San Francesco, è fatto tornare poco di poi al castello, ma nella notte dal 26 al 27 luglio riesce a fuggirne. Solo, senza mezzi, senza aiuti, attraversa mezza Itafia, incalzato dai suoi vaneggiamenti, dalle sue paure. Ha inizio quella febbrile ricerca di un porto sicuro, che T. cercherà ormai per tutto, e non troverà mai. Spera questa volta di trovarlo a Sorrento, presso la sorella Cornelia, con la quale in verità non aveva avuti e non avrà neppure in seguito rapporti molto frequenti e affettuosi (vedova nel 1574 di Marzio Sersale, ella risposerà nel 1579 don Ferrante Spasiano). Ma dubita anche di lei: onde le si presenta in abito da pastore e le annuncia la morte di Torquato. Ella sviene, e il poeta rassicurato le si palesa.
Ma Ferrara splende lontana, miraggio di lusso, di vita piena, di gloria; e già nel novembre 1577 T. apre trattative per rientrarvi. Il 16 aprile 1578 è di nuovo in corte, ma per ripartirne, questa volta con licenza del duca, probabilmente nel giugno. Il poeta, più che mai "peregrino errante", va a Mantova, poi a Padova, a Venezia, a Pesaro, a Urbino e, con improvvisa risoluzione, a Torino, dove, ospite del cugino di Alfonso d'Este, Filippo, genero di Emanuele Filiberto, ha un po' di requie, e scrive o abbozza alcuni dialoghi. Nel febbraio 1579 è di nuovo a Ferrara, avendolo il duca riaccolto dietro sua promessa di lasciarsi curare. La corte e tutta la città era in festa per le terze nozze di Alfonso, con Margherita Gonzaga; nessuno bada al poeta, che sente questa noncuranza come contraria alle promesse fattegli, come una mancanza di riguardo al suo genio: dà in clamorose escandescenze, contro il duca e tutti, prima nel palazzo Bentivoglio, poi nello stesso palazzo ducale. Alfonso lo fa mettere, come pazzo, alla catena.
S'inizia così la settennale reclusione nell'ospedale di S. Anna. L'orrido locale che ancor oggi si mostra come prigione del T., se è verosimile che fosse adoperato come camera di sicurezza durante gli accessi furiosi di lui come degli altri infermi di mente, non c'è ragione di credere che fosse stabile alloggio del poeta (l'identificazione non è più antica del principio dell'Ottocento, e certo fu determinata dalla leggenda romantica); ma ciò non vuol dire che egli fosse trattato con molta umanità. Anche tenendo conto delle abitudini sanitarie del tempo, crudeli verso i mentecatti, non è possibile disconoscere, pur dopo le ricerche del Solerti, che specie nel primo anno dalla detenzione il T. fu trattato più come un prigioniero pericoloso che come un infermo nocivo solo a sé stesso. Certo, sin dal 1580 gli è permesso talvolta di uscire; gli si concede di ricevere; gli si ridà il vitto della cucina ducale, sebbene solo nel 1582; l'anno successivo gli è concesso di uscire regolarmente alcune volte la settimana, ed è condotto anche a corte; nel 1584 va due volte con Lucrezia, la più pietosa dei principi, nell'isola di Belvedere; talora lo si fa uscire durante il carnevale, quando più penoso era pel T. starsene rinchiuso. Ma nell'atteggiamento di Alfonso verso il suo poeta - che non vorrà mai più vedere - ci fu sempre assai più di severità e quasi di rancore che di pietà.
A S. Anna il T. continua a scrivere: la più gran parte dei dialoghi, e lettere in gran copia, a principi, a gentiluomini, a prelati, a quanti a ragione o a torto sperava potessero contribuire alla sua liberazione; prose e versi (650 liriche, è stato calcolato!), intesi anch'essi soprattutto a ingraziarsi persone influenti. Tutti componimenti artisticamente inferiori alla produzione precedente, ma lucidissimi, dottissimi, impeccabili; diffondendosi per l'Italia, essi dovevano contribuire al nascere di quella che sarà detta la leggenda del Tasso, che narrerà essere falsa la pazzia, fatta credere al mondo da Alfonso per punire segretamente il poeta d'aver osato alzar gli occhi innamorati verso la stessa sua sorella, Leonora.
La leggenda degli alti amori del T., che nasce direttamente dalla sua psicologia e dalla sua poesia, come spiegheremo più oltre (un primo accenno ad essa, in Francia, risale al 1574), è rafforzata dalla prigionia, che sembrava altrimenti inspiegabile. Che essa sia adombrata già nella favola boschereccia Flori di Maddalena Campiglia, del 1588, è opinione di B. Morsolin (v. Bibl.), rifiutata dal Solerti con argomenti, ci pare, assai deboli. Comunque, se i contemporanei del T. parlano concordi della pazzia di lui, i posteri immediati cercano altrove le cause della sua prigionia, e la leggenda è già in embrione nella biografia che nel 1604 un giureconsulto napoletano, G. P. D'Alessandro, premise a un suo studio sulle fonti della Gerusalemme. Nella biografia del protettore e intimo del T., G. B. Manso, un compendio della quale apparve sotto altro nome già nel 1619, vien fuori il nome di Leonora, sebbene il Manso non sappia decidersi fra tre Leonore della corte, la principessa, la contessa di Scandiano e una damigella di questa, pur propendendo per la prima. A metà del sec. XVII l'amore del T. per Leonora d'Este è ormai ritenuto cosa certa; e la credenza regna indisturbata sino al Tiraboschi e specialmente al Serassi: ma alcune strane oscillazioni di quest'ultimo, qualche ammissione a mezzo, serviranno ai romantici come prova di malafede. In tutto l'Ottocento la ferocia di Alfonso e il martirio del T. innamorato restano indiscutibili: troppo bene l'episodio conveniva all'uomo-poeta quale i romantici lo immaginavano, e quale vedevano mirabilmente incarnato nella figura del T. Il quale pertanto avrà in tutto il secolo singolare fortuna come tema di poesie, drammi, racconti, in ogni letteratura; finché gli studî del Solerti, culminanti nella biografia del 1895, distruggeranno il romanzo, passando anzi oltre il segno, nel tentativo di abbattere, con la forza dei documenti, l'idolo per un secolo tanto accarezzato.
Ma ad aggravare la reclusione, altri avvenimemi si aggiunsero: cominciò, da parte di speculatori e di ammiratori fanatici, la caccia alle opere del recluso, le cui edizioni abusive si moltiplicarono, prime fra tutte quelle della Gerusalemme. Molte copie manoscritte del poema, più o meno compiute e corrette, giravano fra le mani degli amatori, onde non riuscì difficile impadronirsi di qualcuna di esse, e stamparla. A Firenze un avventuriero, Celio Malespini (v.), s'impossessò di alcuni canti del poema che il granduca Francesco si era procurati, e li pubblicò a Venezia nell'estate 1580: ma già l'anno prima era stato pubblicato a Genova il quarto canto. Si ebbero in meno di un anno otto edizioni più o meno abusive, e continuarono frequenti negli annì successivi. Il T., rinchiuso in S. Anna, smaniava, si disperava, non solo per il mancato guadagno, ma anche per gli errori, per le manchevolezze, per la meschinità delle venali edizioni; soprattutto perché quelle sue opere non erano ancora corrette ad unguem, sia dal lato artistico sia da quello morale e religioso: la sua gloria, lo scopo supremo della sua vita, era minacciata. Debole e saltuario nelle sue azioni, pronto a prestar fede a imbroglioni non meno che a sospettar di galantuomini, facile a placarsi non meno che ad adirarsi sino al parossismo, il T. non sapeva porre freno all'indegna speculazione. Era vivo, era nell'integrità piena dei suoi mezzi intellettuali, e lo trattavano da morto, o almeno come un bimbo che si lascia strillare, continuando a fare a modo proprio.
Con la diffusione del poema, che fu grandissima, in Italia e all'estero, non tardarono ad accendersi e a divampare le polemiche su di esso; con le esaltazioni, col plauso universale, si accompagnarono - e come irruenti e talvolta velenose! - le critiche. Diedero i romantici esagerata importanza a queste polemiche, facendo della Crusca il secondo degli aguzzini di T., mostrando il "poeta" vittima - com'è suo destino in tutti i tempi - dei "pedanti", delle anime grammaticali e fredde, inidonee a comprender la poesia. In verità, la Crusca, allora nata (1583), non aveva l'importanza che venne assumendo di poi, né il T., almeno in un primo momento, si preoccupò eccessivamente delle sue critiche.
A un dialogo (Il Carrafa o vero dell'Epica poesia) di un buon canonico capuano, Camillo Pellegrino (v.), uscito a Firenze nel novemhre 1584, nel quale si affermava la superiorità del T. sull'Ariosto, i nuovi accademici risposero con una Difesa dell'Orlando Furioso degli accademici della Crusca, Stacciata prima (Firenze 1584 [stile fiorentino; cioè febbraio 1585]), dovuta alla penna dell'Infarinato, cioè di Leonardo Salviati (v.), con la probabile collaborazione di Bastiano de' Rossi (l'Inferrigno), che presentò ai lettori l'opuscolo. Il quale non era davvero una semplice difesa dell'Ariosto; ma considerava con molta severità le invenzioni, lo stile e soprattutto la lingua della Gerusalemme. L'impressione suscitata in Italia da questa vivace e a volte villana accusa al poeta infermo e recluso non dovette essere nel complesso faYorevole, se la Crusca, e per essa il De' Rossi, sentì il bisogno di giustificarla, adducendo le ingiurie a Firenze e ai Fiorentini di cui il T. si sarebbe reso colpevole nel suo dialogo del Piacere onesto (lettera del De' Rossi a Flaminio Mannelli, pubblicata nel maggio). Replicò il T. alla Stacciata con una pacata Apologia, pubblicata nel luglio, nella quale, pur senza grande novità di pensiero, difendeva sé e soprattutto il padre Bernardo; e alla lettera del De' Rossi con un opuscolo uscito nell'ottobre. All'Apologia seguiva una scrittura di Orazio Ariosto, pronipote del poeta, che difendendo il Furioso non tralasciava di lodare anche i due Tasso. La Crusca pubblicò subito, nel settembre, una Risposta all'Apologia (Infarinato primo), opera anch'essa del Salviati, violentissima. Ci fu poi una repliea del Pellegrino alla Stacciata, una controreplica (Infarinato secondo) della Crusca; oltre i nominati, parteciparono alla grossa polemica, in un senso o nell'altro, Francesco Patrizi (v.), il senese Orazio Lombardelli, e poi via via molti altri letterati. All'atmosfera di questa polemica appartengono anche alcune acri Considerazioni che il giovine Galilei venne facendo su un suo esemplare interfogliato della Gerusalemme. E tanto dilagaiono le cavillose discussioni sulla superiorità reciproca dell'Ariosto e del T., che finirono col diventare argomento di satira.
La Crusca sin dai primi anni del Seicento respinse la responsabilità degli attacchi al T., che attribuì all'iniziativa personale del Salvíati e del De' Rossi: tesi che nell'Ottocento, quando le antiche accuse si rinnovarono da parte romantica, ebbe un valoroso sostenitore in Cesare Guasti. Ma sta di fatto che il T. - e con lui i contemporanei - reputò sempre sua avversaria tutta l'accademia, e che essa in ogni caso solidarizzò coi suoi due influenti membri. Né poteva far diversamente. In verità, a prescindere dalle acredini ingenerose contro un infermo, la responsabilità delle quali ricade naturalmente sulle persone degli scrittori, la polemica rispondeva a una necessità storica di difesa dell'egemonia letteraria fiorentina, alla quale non si era sottratto il fiorentineggiante Ariosto, ma alla quale invece si sottraeva in pieno il T., per lo spirito più ancora che per la lingua. Anche per questo il T. inizia una nuova fase della letteratura italiana.
Ma ormai la liberazione del T. era vicina. Vani erano rimasti tutti i tentativi fatti dal poeta presso le persone più diverse, e anche più volte presso la città di Bergamo; vani i progetti di lui, alcuni dei quali complicatissimi e romanzeschi, senza alcuna base nella realtà delle cose. Ma finalmente il benedettino genovese Angelo Grillo, col quale il T. aveva stretto amicizia nel 1584, poté persuadere Vincenzo Gonzaga; questi, recatosi a Ferrara presso il cognato Alfonso, riuscì a farsi consegnare il poeta, promettendo di aver cura che non fuggisse, e se ne tornò a Mantova con lui (luglio 1596). Risale forse agli ultimi mesi della permanenza a S. Anna la commedia Intrichi d'amore, che ormai s'inclina a ritenere opera del T., almeno nelle sue linee generali: fu recitata dagli Accademici di Caprarola nel 1598, e pubblicata nel 1603: povera cosa.
A Mantova il T. era libero di andar per la città a suo piacimento, solo sorvegliato da un servo: sulle prime, nella gioia della libertà recuperata, si sente e si trova benissimo, e lavora di grandissima lena. Continua, è vero, nelle malinconie e nelle stranezze di prima, ma non fa male a nessuno, come non ne farà neppure in seguito: prova che Alfonso per lo meno esagerava, ostinandosi per tanti anni a tenerlo segregato. Nel 1587 è invitato a leggere l'Etica e la Poetica di Aristotele all'Accademia degli Addormentati di Genova. Sarebbe stata la vita sicura; Genova avrebbe potuto rappresentare il porto tanto sospirato: ma il T., dopo molte esitazioni, finisce col rifiutare. Un impegno stabile, una fatica certa, un obbligo di lavoro che potesse essere in contrasto con la perenne mutevolezza del suo estro e del suo umore, non erano fatti per lui. Dopo la breve relativa quiete procuratagli dalla liberazione, le inquietudini riprendono: "Sono incerto di tutte le cose e di tutte mal soddisfatto, e pieno di rincrescimento e di noia". Già nell'agosto 1587 tenta di andarsene da Mantova, ma è richiamato; da lì a pochi giomi, con licenza del Gonzaga, può andare a Bergamo, ospite dei suoi parenti. Ma torna precipitosamente a Mantova per la morte del duca Guglielmo; pubblica il Re Torrismondo, dedicato al nuovo duca Vincenzo: dieci edizioni in meno di tre mesi; poi il silenzio si fa su quest'opera non riuscita. Nell'ondeggiamento del suo spirito, l'idea di andare a Roma si fa sempre più ferma: nell'ottobre parte: per Modena, Bologna, Loreto (dove scioglie un voto fatto a S. Anna), Macerata, giunge alla sospirata Roma (5 novembre), dove è ospite del suo Scipione Gonzaga. Ma era proprio a Roma che Alfonso d'Este non voleva che il T. si fermasse: onde Vincenzo Gonzaga, memore delle promesse fatte al cognato, fa di tutto per indurlo a tornare, anche con l'aiuto di Antonio Costantini, che il poeta aveva conosciuto nel 1584 o 1585 (e l'amicizia durerà sino alla morte) e che si reca appositamente a Roma. Gl'inganni tentati non riescono; violenza, Sisto V vieta che si usi; d'altra parte Alfonso, forse ormai rassicurato sul danno che il T. avrebbe potuto recargli con le sue accuse di eresia, e forse anche ormai sfiduciato circa la possibilità di riuscita delle sue trattative con la Curia per la successione, non insiste per avere il prigioniero temporaneamente ceduto al Gonzaga.
È questo, fino alla morte, il periodo più triste della vita del T.: per noi lontani spettatori, forse più triste della reclusione. Non solo il poeta, ma l'uomo, non mai di tempra salda, è ora in innegabile decadenza. Chiede a tutti di tutto, senza ritegno: querulo e arrogante, incontentabile e sospettoso. Scrive per ogni avvenimento, per ogni protettore vero o sperato, poesie encomiastiche letteratissime e fredde, roba di bottega; e per ogni poesia s'aspetta e pretende questo o quel dono: denari, o biancheria fine o oggetti di valore, scampoli miserevoli di quella vita di lusso che era la sua naturale, e che del lusso, nella miseria presente, potranno dargli per qualche attimo l'illusione. La critica positivistica, massime il Solerti, ha colorato questo periodo della vita del T. con molto foschi colori. In essa si trova una spietata requisitoria in nome di un astratto e superficiale moralismo, dove ci aspetteremmo miglior comprensione e soprattutto maggior simpatia verso un grande poeta al suo malinconico tramonto. Si fa presto a parlare di dignità perduta; ed è strano che parlino così proprio quei critici che si gloriarono di aver dimostrato la pazzia integrale del T.: a un pazzo non si rimproverano così acremente debolezze morali. Egli era appunto un infermo, dal sistema nervoso devastato; inoltre, un umanista in ritardo, convinto da due secoli di tradizione di dare con le sue lodi poetiche assai più di quel che i lodati non dessero a lui, e pertanto di essere perpetuamente in credito; per di più cosciente della sua incapacità a vivere praticamente, egli che aveva bisogno costante di qualcuno che si prendesse cura di lui e delle sue cose, non fosse che della sua valigia quando viaggiava; ben persuaso pertanto del suo diritto a trarre dalla poesia, e unicamente da essa, i mezzi per una vita quale si conveniva al suo genio, e quale nelle corti aveva visto vivere a uomini a lui tanto inferiori. Un sognatore, che ha aspettato tutta la vita che il mondo gli desse spontaneamente quanto credeva gli fosse dovuto, e che ora, sulla soglia della morte, vuol forzare gli eventi; che vuol finalmente vendere quel che ha coscienza di avere sin qui regalato, anzi sperperato. Restano del T. lettere e confessioni significative a questo riguardo: le pitoccherie, le petulanze, le piaggerie, che in questi ultimi anni della vita del T. assumono una frequenza assai maggiore e un tono assai più alto che nel passato anche recente, rappresentano la singolare reazione di un debole e di un malato all'ingiustizia della sua sorte. Decadenza morale, sì; ma bisogna sapersene spiegare le cause.
Anche nella desiderata Roma il T. non trova, naturalmente, quello che cerca. Nel marzo 1588 si reca a Napoli, per iniziarvi pratiche per il recupero della dote materna. A Napoli, ospite del monastero di Monte Oliveto, è assai festeggiato; stringe relazioni con molti illustri, e soprattutto con G.B. Manso, creato poi nel 1621 marchese di Villa, che lo onora, gli fa continui doni, e sarà in seguito suo primo biografo; compone nell'agosto, a istanza dei suoi ospiti, il primo libro di Monte Oliveto, in 102 ottave, sull'origine della congregazione olivetana: l'operetta non fu continuata, e fu pubblicata solo nel 1605. Nel dicembre è a Roma, vi compone il Rogo amoroso a istanza di don Fabio Orsini, in occasione della morte di una donna amata da questo; raccoglie e corregge secondo i nuovi intenti religiosi le sue rime; l'anno successivo, nell'agosto, lascia la casa del card. Gonzaga per il monastero di S. Maria Nuova (S. Francesca Romana) al Foro. Languisce, malato, senza ricetto, senza alcuna entrata se si eccettui qualche sussidio a lungo elemosinato; scivola giù sino al triste ricovero dell'ospedale dei Bergamaschi, finché nel gennaio 1590 è riaccolto dal cardinale, di cui sarà ospite pretensioso, malinconico, sospettoso, mal gradito. Disperato, nell'aprile si rassegna ad andare a Firenze, avendolo finalmente il granduca - prega e riprega - accolto perché potesse canere palinodiam delle cose dette contro i Medici e Firenze nel famoso dialogo: venti scudi al mese! Ma ai primi di settembre è di nuovo a Roma, a lungo febbricitante; in casa Gonzaga per le sue "fantasie" non lo possono più sopportare; nessuno lo vuole.
Continuano le peregrinazioni del poeta senza pace. Alla fine di febbraio 1591 si accompagna con A. Costantini che era andato a Roma come segretario di un'ambasceria dei Gonzaga, e torna con lui a Mantova. Colà, gravemente ammalato per alcuni mesi, compone la Genealogia di casa Gonzaga, albero genealogico in 119 ottave (inedita sino al 1666), e conduce a termine la stampa della prima parte delle Rime (poi Brescia 1593, con la seconda parte). E riparte: di nuovo per Roma, al seguito del duca di Mantova che va a riverire il pontefice neo-eletto, Innocenzo IX; poi (gennaio 1592) per Napoli, dove sarà ospite di Matteo di Capua principe di Conca e poi del Manso, circondato da attenzioni e da lusso. Comincia a scrivere le Sette giornate del mondo creato, in sciolti, che compirà a Roma negli ultimi mesi della vita e che saranno pubblicate in parte a Venezia nel 1600 e tutte a Viterbo nel 1607.
Anche la dimora di Napoli, che pur sembra dovesse essere l'ideale per il T., gli viene in uggia; e ricorre a espedienti per sottrarsi alle obbliganti cortesie degli amici di colà. Nell'aprile è di nuovo in viaggio per Roma; a Mola di Gaeta è costretto a fermarsi per le operazioni di vera e propria guerra che allora erano in atto contro il famoso brigante Marco Sciarra; una tradizione che risale al Manso, e che fece largamente presa sulle fantasie dei romantici, narra che lo Sciarra avrebbe voluto lasciar libero il passo al poeta, e che questi rifiutò. A Roma egli è, dal giugno, ospite del nipote di Clemente VIII, Cinzio Passeri-Aldobrandini; cominciano - troppo tardi! - tempi migliori; ma anche ora pensa ad altre servitù e ancora e sempre, a Ferrara. Il T., in relativa tranquillità, conduce a termine nel maggio il rifacimento della Gerusalemme, iniziato nel 1587 (ma il piano della correzione è già fissato nelle linee generali poco prima della partenza del T. da Ferrara) e lo pubblica nel dicembre con dedica al suo protettore; compone Le lagrime di Maria Vergine (25 stanze) e Le lagrime di Gesù Cristo (20 stanze), che, stampate a Roma nell'aprile 1593, furono ristampate in quell'anno altre sei volte; scrive altre rime sacre, e imprende a mostrare la superiorità della Conquistata sulla Liberata in un Giudizio sovra la sua Gerusalemme da lui medesimo riformata, che avrebbe dovuto comprendere 3 libri; i primi due, soli scritti, saranno pubblicati nel 1666. Nel novembre 1594 erano pubblicati a Napoli il dialogo Delle imprese, dedicato anch'esso a Cinzio, e i sei discorsi Del poema eroico, dedicati all'altro nipote del papa, il card. Pietro, nei quali il T. aveva rifuso e ampliato la materia dei tre giovanili discorsi Dell'arte poetica, che, donati a Scipione Gonzaga, erano stati pubblicati a Venezia nel 1587, con gran dispiacere dell'autore. Da Roma non si muove ormai più, salvo una gita a Napoli nel secondo semestre del 1594, fatta col permesso di Cinzio per salute e per curare la causa contro i principi di Avellino per il ricupero della sostanza di Porzia. Di fronte all'evidente buon diritto di T., così tenacemente disconosciutogli, gli avversarî propongono un accomodamento: offrono un vitalizio di 150 scudi annui, che, profittando dell'arrendevolezza del poeta, riducono poi a 130; infine, la sopraggiunta morte del T., li esonera dal pagare anche questi.
Torquato vive gli ultimi mesi in Vaticano, sempre ammalato, sempre più preparato alla morte, ma sempre infaticabile nello scrivere; il papa gli concede un'abbastanza lauta pensione; si avvicina, con la buona stagione, il tempo destinato per l'incoronazione poetica, della quale si parlava da parecchio, ma che era stata sempre rinviata per cause varìe. Nel marzo, è colpito da febbre leggiera, ma già da un anno sentiva la morte vicina; aggravatosi, chiede di essere trasportato nel monastero di S. Onofrio: "per cominciare da questo luogo eminente, e con la conversazione di questi devoti padri, la conversazione in cielo": il chiostro negli ultimi tempi gli era sempre più apparso come il solo luogo dove potesse trovar quiete. Testimonianze concordi ci dicono che negli ultimi giorni il T. sembrò affatto guarito del suo "tumore". Morì la mattina del 25 aprile 1595; gli furono tributati grandi onori funebri; la corona di alloro fu posta sulla bara.
I grandi progetti di Cinzio per onorare la memoria del poeta restarono ineseguiti, e neppure una pietra indicava il luogo dove egli era sepolto, finché nel 1601 i frati vi apposero una lapide. Nel 1608 il card. Bevilacqua eresse un monumentino, che fu sostituito da un altro, parimenti modesto, nel 1857.
Il T. nelle sue opere maggiori. - La Gerusalemme liberata fu nei secoli scorsi il poema più largamente popolare della letteratura italiana. Al suo apparire, suscitò quel ribollire di smisurate lodi e di nette denegazioni di cui abbiam toccato; ma già la passione stessa con cui la polemica fu combattuta dalle due parti denota che i dotti contemporanei sentirono subito - anche quelli che negavano la poesia del T. - di trovarsi di fronte a un fatto nuovo nella storia della letteratura, che si sarebbe potuto combattere, ma che non sarebbe stato ormai lecito ignorare o trascurare. Ma quali che fossero le opinioni dei dotti e dei superdotti, del resto nel complesso favorevoli al T., il poema fu letto con avidità, né l'interesse destato si affievolì per lungo volgere d'anni, tanto che alcuni suoi episodî entrarono a far parte del patrimonio della letteratura popolare di molte regioni. Nessuna opposizione aveva invece incontrato l'Aminta, che anzi suscitò grandissimo interesse nei letterati di tutta Europa (solo sino alla fine del Seicento ne sono state contate duecento imitazioni), ma peraltro non raggiunse mai la popolarità del poema. Così all'ingrosso, possiamo dire che l'Aminta piacque di più, sempre, ai lettori emunctae naris, la Gerusalemme all'universale; e anche oggi è opinione dei raffinati che il poeta vero è da ricercare in quella piuttosto che in questa opera. Ma bisogna determinare siffatta opinione in modo tale, che equivarrà a una negazione.
L'Aminta è certo un gioiello; ma questo sostantivo contiene già le limitazioni che ci occorrono. La pastorale del T. è un elegantissimo giuoco poetico: nel suo genere, perfetto; appunto per questa eleganza, per questa perfezione che la Gerusalemme è ben lontana dal raggiungere, essa piacque e piace ai raffinati di tutti i tempi. È perfetta, ma il lettore non sente quel battito della grandissima poesia che invece avverte, sicuro e trionfatore di tutte le brutture e le ridondanze e le posticce eleganze e le false musicalità, in tante pagine della Gerusalemme. Non si può capire l'Aminta se non si pensa all'occasione per la quale nacque, al modo come nacque, al pubblico al quale era destinato. Anche se non sapessimo tutto questo, la stessa bella favola sarebbe là a dirci, senza possibilità di dubbio, che essa fu creata per un'ora di spirituale godimento di una brigata sceltissima, ammaliziata e omogenea; che fu opera di getto, tanto salda è la sua costruzione, tanto armoniche le sue proporzioni, tanto il suo tono resta caldo e fermo dal primo all'ultimo verso, senza slittamenti né balbettii né pause di stanchezza. Se c'è dramma che serva a dimostrare che l'opera di teatro non la si comprende se non la si considera come opera di collaborazione tra autore e pubblico ascoltante, questo dramma è l'Aminta. Il poeta e i suoi ascoltatori non guardano al mondo pastorale con un sorriso di superiorità distaccata, ma neppure, e tanto meno, con ingenuità e abbandono fantastico. Esso è un dato intellettuale, una convenzione leggiera; potremo dire una mascherata, se togliamo a questa parola ogni idea di volgarità e di cattivo gusto. Non per nulla in quasi tutti i personaggi della favola è possibile riconoscere adombrati personaggi reali: Tirsi è Torquato, felice nella corte, un tempo innamorato di Licori (la Bendidio) e ora disincantato, scettico di uno scetticismo che non esclude la malinconia; Elpino il Pigna; Mopso forse lo Speroni, eccetera; e gli ascoltatori dovevano cogliere assai più allusioni al loro piccolo mondo di quel che possiamo cogliere noi. La finzione pastorale permette che si sviluppi graziosamente quell'arte del dire senza dire, in che gli ambienti eleganti hanno fatto sempre consistere la suprema distinzione dei rapporti sociali. Lo stesso arbitrario di alcune situazioni, l'illogicità di alcuni trapassi non spiacciono, dato il carattere squisitamente artificiale dell'Aminta, anzi concorrono a rendere più gradevole il giuoco, accentuando questo suo carattere; così non spiacciono le frequentissime reminiscenze letterarie (persino dal grave Cicerone!): cultura sapientemente incastonata, di cui non si avverte la pesantezza, e nella quale gli ascoltanti riconoscevano, compiacendosene, la loro propria. Qua e là, un sorriso, persino qualche venatura comica (le uniche, forse, nel T.); e più di un guizzo di sensualità repressa e calda, un corpo nudo di donna che toglie per un istante il respiro al poeta; ma tutto ciò appena accennato, che non turbi uno dei caratteri essenziali dell'Aminta, la serenità.
Non deve trarre in inganno la drammaticità dell'azione. Le situazioni drammatiche, che già i primi critici notarono essere più narrate che rappresentate - ma ciò era conforme alle convinzioni teoriche del poeta - si esprimono solo eccezionalmente in un grido; sono temperate in grazia. Il lieto fine dell'amore di Aminta per Silvia - pressoché isolato in tutta l'opera del T. - è presentito sin dal principio; onde si ammira la bravura drammatica del poeta, ma non si rabbrividisce mai. O è il brivido pelle pelle, che vellica deliziosamente, non squassa; le mascherate non dànno luogo a tragedie, anche quando le fingono. Ma in tutta la favola, in discorde concordia con la sua levità, scorre la finfa di una malinconia in sordina, che innalza il garbato giuoco a poesia più profonda. È la coscienza, caratteristica del T., che nulla può essere conquistato senza il dolore, e che il dolore è pesante a sopportare: malinconia di un edonista. L'ultimo coro è caratteristico: "Ma, se più caro viene - E più si gusta dopo 'l male il bene, - Io non ti chieggio, Amore, - Questa beatitudine maggiore". È uno scherzo di Torquato-Tirsi, che ai gravi tormenti preferisce "soavi disdegni e soavi repulse", il corteggiamento al vero amore. Scetticismo leggiero, che presuppone e sottolinea la malinconia, se anche la scioglie in un sorriso finale; in conformità a tutto il tono dell'Aminta, il più bel madrigale della letteratura italiana.
La Liberata è tutt'altra cosa. Lo squisito letterato assai spesso vi cede il posto al genio. E non importa che accanto al bellissimo ci sia l'inutile, il brutto e magari il bruttissimo; che il letterato non solo sussista, e nelle sue qualità deteriori, fuori da quel momento di grazia che ci aveva dato l'Aminta, ma anzi abbia quantitativamente il sopravvento sul poeta. La poesia non si misura con la stadera, e nemmeno con la bilancetta di precisione.
Ma non bisogna cercar nel poema quello che non c'è, quello che un uomo quale fu il T., vissuto com'egli visse e nei tempi in cui visse, non poteva darci, anche se s'illuse di avercelo dato. E anzitutto non bisogna cercarvi spirito religioso: il Donadoni, sviluppando gli accenni del De Sanctis, ha scritto a questo riguardo pagine assolutamente persuasive, anche se talvolta si è lasciato trascinare dall'interna polemica fino ad affermare per esempio che la religiosità del T. è "estetismo letterario". In verità, questa espressione importa alcunché di dilettantesco e di posticcio; mentre l'anelito verso la religiosità è uno dei caratteri fondamentali dell'uomo Tasso; il bisogno di credere è così profondamente connaturato in lui, fa parte così intima della sua spiritualità, che forse avrebbe potuto costituire anche il motivo fondamentale della sua arte. Ma i tempi non lo permettevano; in questo senso la Controriforma ha davvero nuociuto al poeta. Il T. non osa cantare il suo vano slancio, la freddezza del dubbio, il disperato bisogno di trovare nella pienezza della fede un punto di arrivo e di appoggio, finalmente la requie. Invece, vuol persuadere sé stesso, prima degli altri, di essere al di là dell'acqua perigliosa, di possedere quel che gli si nega; e canta la religione. Ma questa gli si riduce a splendore di riti considerati come spettacolo di bellezza; o diventa formalismo esteriore, costrizione a freddo; o si trasforrma in superstizione, nella credenza nel magico, nel meraviglioso: compiacimento estetico, inconscia ipocrisia, svagare fantastico. La corda religiosa del poema religioso per eccellenza suona falsa o è sorda.
Né occorre insistere sulla profonda amoralità del T. e quindi dei suoi personaggi. Anche per ciò l'Aminta è al di qua dal travaglio, schietta apologia com'essa è del diritto dell'istinto contro tutte le costrizioni, vagheggiamento di un'età dell'oro interpretata come l'età del libero soddisfacimento dei desiderî. Di contro ad essa, la Liberata, in cui l'amoralità fondamentale resta naturalmente invariata, ma giustifica sé stessa con restrizioni mentali, si colora di orpelli, cerca di dissimularsi; e tanto più spiace, quanto più ostentata è la generale intenzione moraleggiante del poema. Più procede per la sua via, più il T. costringe la sua vena e si mortifica; ma come non riesce a conquistare la fede, così non conquista mai una salda coscienza morale. E, orpello degli orpelli, l'allegoria: "Ma poi ch'io fui oltre al mezzo del mio poema, e che cominciai a sospettar de la strettezza de' tempi, cominciai anco a pensare a l'allegoria". E più tardi commenterà allegoricamente anche le Rime, come "antidoto nel pericolo del veleno amoroso". Qui i tempi hanno veramente la loro parte di responsabilità.
Ma è stato acutamente e giustamente osservato che la sensualità del T. avrebbe avuto probabilmente i caratteri che ha, anche se il poeta fosse vissuto in tempi più giocondi e più liberi. Dice il Manso che egli nella seconda parte della sua vita visse casto; non c'è ragione di non credergli. Ma non perciò è meno sensuale, anzi la sensualità si esaspera nella costrizione. Ed è sensualità torbida ed estenuante, vagheggiamento cupido più che gioia di maschia conquista; e le sta sopra assiduamente l'ombra della morte e del dolore: "S'impetrerò che giunto seno a seno - L'anima mia nella tua bocca io spiri". Anticipazione romantica; che potrà essere anche respinta in nome della sanità spirituale, della limpidità della vita, di tante altre belle cose; purché si convenga che nell'espressione di questa sensualità cocente, che è soprattutto sofferenza e che si affaccia sin nel Rinaldo, il T. raggiunge i vertici dell'alta poesia.
Come li raggiunge nel dar forma e vita a un motivo caratteristico di lui: il destino in agguato. I suoi personaggi artisticamente più persuasivi sono appunto quelli che hanno di contro un destino fosco, della cui ineluttabilità sono ben consci. E sono gli amanti sprezzati o ignorati, disperati o fantasticanti dietro un sogno Olindo o Erminia, Tancredi o Armida abbandonata: la loro infelicità non nasce da cause estrinseche, non è un accidente: anzi accidente, poeticamente nullo, è il raro lieto fine, come nell'episodio di Olindo. Gli amori nel T. sono, nella massima parte dei casi, unilaterali, o nascono in circostanze tali che i due innamorati sanno già dall'inizio la vanità del loro desiderio; la passione è essenzialmente ebbrezza di rinuncia, compiacimento di accarezzato dolore. O sono i guerrieri musulmani, Argante o Solimano, combattenti con energia disperata contro un destino che sanno segnato e invincibile; perciò appunto la simpatia del poeta va irresistibilmente verso di essi. Son questi, la rinuncia elegiaca e la ribellione forsennata, i due aspetti fondamentali sotto i quali la sensibilità romantica raffigurerà i suoi eroi.
Una grande stanchezza incombe sul T. Nel poema che narra tante morti, la morte non è mai rappresentata come qualcosa di desiderabile; se è pateticamente colorata, è però sempre "dura quiete e ferreo sonno", il supremo dei mali; solo negli ultimissimi anni il T. vedrà in essa la fine della sofferenza. La sua poesia invece o sbocca nel vagheggiamento di un mondo idilliaco, lontano dalle "inique corti", cioè lontano da quel mondo che era pel T. il suo proprio, quello dove poteva vivere la sua vita in pienezza di godimento e di gloria; o si rifugia nel desiderio della quiete, dell'annichilimento, del "non pensare". Quando il riposo, cercato invano di corte in corte, di chiostro in chiostro, si paleserà all'uomo T. come impossibile in terra, egli immaginerà, nel Mondo creato, gli angeli come destinati "all'eterna pace, - a quel piacer che non ha fine o tempo, - che gli fa sempre neghittosi e lieti - d'un ozio eterno"; il mondo che sorgerà dalle rovine di questo non sarà soggetto al tempo, sarà fermo col Sole, "eterna pace tranquilla". Supremo desiderio del peregrino errante, che è anch'esso un presentimento della poesia moderna e modernissima.
Dalle moderne esperienze poetiche risulta altresì illuminato un altro dei caratteri della poesia tassesca, rilevato già dai primi critici, sottolineato con sarcasmi dal Galilei, rimesso in luce dal Gravina: la scarsa concretezza fantastica. I cruscanti che le rimproveravano improprietà linguistiche, abuso di parole generiche, ridondanze verbali, coglievano senza saperlo nel segno: sotto la genericità dell'espressione si cela la non-concretezza della visione poetica. Quella del T. è una poesia sfumata, fluttuante, che non plasma figure rigorosamente coerenti, non situazioni di plastica evidenza. Ebbero torto i critici a pretendere ciò; ebbe torto il T. a dar loro retta nella Conquistata, dove non riuscì che ad uccidere la poesia in quel che aveva di più suo, per sostituirvi una logica esterna e fredda, rivestita di parole più schifiltosamente scelte con industria di vocabolarista. Non vogliamo certo fare del T. un simbolista nel senso moderno; ma affermiamo che la sua musicalità che si giova di sé stessa, senza dar corpo e peso logico alle parole; quel dissolvere la poesia in evocazione di fantasmi che possono anche essere evanescenti, ma suscitano lunghi echi nell'anima del lettore; quel rifuggire dal realismo, con alle spalle una grande tradizione opposta, succedendo a uno dei più concreti poeti della letteratura italiana, l'Ariosto: tutto ciò ubbidisce a un'intuízione della poesia - quali che siano le meditazioni del teorico - che ha con quella dei decadenti più di una somiglianza. E ben s'intende che si tratta di somiglianze, utili a rilevare per chiarire la poesia del T. alla luce della nostra esperienza di oggi; non già di rapporti storicamente determinabili. Già il De Sanctis non disse forse cosa diversa quando affermò: "Sul fondo romanzesco ex-ariosteo il T. edifica il suo mondo poetico, che è lirico". Lirico nel senso che a questa parola poteva dare il romantico De Sanctis.
Ma questi indicò altresì nella "serietà" un altro dei peculiari caratteri del T. Orbene: può dirsi che gli squilibrî dell'arte di lui nascono appunto dal contrasto tra le due tendenze del poeta: quella al lirismo ex-lege e quella al raziocinare più sottile, che si crea leggi ad ogni passo: morali, religiose, rettoriche. Un T. che si abbandona è sempre accanto a un T. che vuol giustificare ogni cosa. Il meraviglioso dell'Ariosto, per esempio, attingeva solo dalla poesia, cioè da sé stesso, le ragioni della sua credibilità, vale a dire della sua forza di persuasione; quello del T., conformemente ai canoni del teorico, dovrebbe essere credibile sol perché proviene da Dio - s'intende dal Dio vero, quello dei cattolici e degli ebrei -, o da angeli, demonî, maghi, da esso delegati. Cioè cerca una giustificazione al di fuori di sé stesso; e teologicamente in regola, o quasi, esso è poeticamente assai meno credibile di quello ariosteo. Tendenza che è rafforzata, indubbiamente, dalla Controriforma; ma che, in quanto bisogno di giustificazione logica, è nativa del T. Nella Conquistata, insistendo nel logicizzare, il T. obbedì, sì, ai critici, ma in quanto essi esprimevano un'esigenza avvertita da lui stesso. È opinione tradizionale, dallo Cherbuliez (v. Bibl.) in poi, che l'infelicità del T. nasca dal contrasto tra gli spiriti del gioioso primo Rinascimento, in lui nativi, e le costrizioni dei nuovi tempi. È vero: ma la Controriforma non è fuori di lui; è in lui.
La stessa scelta dell'argomento del poema risponde a questa esigenza. I progressi dei Turchi, riproponendo alle coscienze il problema della necessità di una nuova crociata, facevano naturalmente rivolgere il pensiero all'antica e più gloriosa: precedenti letterarî non mancavano, tra l'altro la Cristiade di M. G. Vida; i tempi in generale consigliavano argomenti religiosi. Ma la conquista di Gerusalemme offriva al poeta la possibilità di tuffarsi nella storia al di fuori della quale, secondo i suoi convincimenti, poema eroico non è possibile: una storia che fosse ancora cavalleria; una cavalleria che, in quanto storia, potesse essere giustificata e credibile.
Accanto al bisogno di giustificare, la "serietà" importa anche il bisogno d'ingrandire e di far "bello": altra sorta di giustificazione. Anche per ciò tutta una tradizione teorica, che il T. fa sua; ma altresì una tendenza personale. Quella esigeva che il mondo eroico fosse il mondo della perfezione, la quale consiste in ciò, che ogni cosa raccolga in sé tutte le caratteristiche della sua specie; questa era propria di colui, che fu felice solo nello splendore, nel "decoro" della corte. L'una dà alla Liberata quel che tanto e giustamente dispiace ai critici: la monotonia del tono tenuto costantemente troppo alto; crea Goffredo, astratto, scialbo campione di tutte le virtù; all'altra dobbiamo il colore di tutto il poema: la magnificenza delle parate, la sapienza dei duelli, più giostre che combattimenti, la natura agghindata come una grande dama, la compiacenza oratoria degli ornati discorsi, la distinzione sociale dei personaggi (è stato bene osservato che gli umili sono assenti da tutta la poesia tassesca); e anche la sua teatralità, nel senso buono e cattivo della parola. Ma tutto ciò è estremamente serio; dell'esteriorità decorosa si compiace naturalmente un mondo ricco ed elegante; e il T. sente e rende il fascino dello spettacolo. La serietà con cui considera la splendida coreografia come elemento costitutivo e indispensabile di una vita "bella", il genuino godimento che ne trae, diventano talvolta essi stessi poesia, come sempre, in un poeta, ogni convinzione e ogni commozione sincera. E, chi ben guardi, al medesimo bisogno di far "bello" risponde anche la cura dell'euritmia, dell'equilibrio generale, in che consiste uno dei più lodati pregi del poema.
Nel quale sono stati ravvisati, in questo o quell'episodio, nelle vesti di questo o quel personaggio, eventi e persone della vita reale del T. Ma l'autobiografismo della Gerusalemme non sta in ciò. Non la politica interessa il poeta (la sua fortuna internazionale si spiega anche col fatto che forse nessun poeta italiano è così poco nazionale come lui); non la natura, che descrive parcamente e in generale freddamente; e abbiam visto che la religione e la morale sono imposte dall'esterno, con risultati poetici negativi. Quel che lo interessa è l'uomo, e nell'uomo sé stesso. Tutti gli squarci di alta poesia tassesca sono autobiografici; naturalmente, non nel senso che essi possano essere direttamente usati come documenti biografici, ma nel senso che essi sono confessioni di quel che il T. aspirava a essere, di quel che soffriva, di quel che desiderava.
Nessuna Beatrice, nessuna Laura, nessuna Fiammetta, storicamente accertata, sorrise o si negò al T. uomo; la Bendidio o la Peperara scomparvero, senza rilevante traccia né poetica né psicologica. Ma già i posteri immediati, come abbiamo visto, la inventarono, e fu Leonora. E la inventarono non solo perché ciò spiegava la prigionia di S. Anna; non solo perché il modello mitico imponeva che ogni poeta avesse la sua ispiratrice; ma soprattutto perché T. uomo spasimò davvero per una donna irraggiungibile, che non visse se non nei suoi sogni, che non ebbe altro nome se non quello dei suoi personaggi. Torquato è ravvisabile in Olindo e in Tancredi; come lo si può riconoscere in Sveno o in Rinaldo o in Solimano. Insegue, nelle vesti di quelli, il suo sogno d'amore impossibile; si esalta, opera, muore con questi per il suo sogno d'impossibile gloria. Un anelito verso l'altezza; il bisogno di una donna più donna di quelle vive; un desiderio di primato assoluto; il tentativo di trascendere la realtà, la meschina vita quotidiana; il bisogno di spezzare le catene, di seguire l'istinto imperioso contro ogni legge; la coscienza dell'impossibilità di tutto ciò; l'evasione nello spettacolo coreografico, nell'idillio, nel fantasticare la bella avventura in paesi lontani; nell'immaginarsi protagonisia di sovrumane prodezze; il ripiegarsi per piangere di sé stesso con femmineo accoramento; l'ombra della morte su tutto, più fosca che mai per i sensuali e gli egocentrici: tutto questo canta l'autobiografica Liberata.
La stupenda poesia dell'Ariosto non poteva avere storicamente sviluppo; era il frutto saporoso e ultimo di una civiltà e di una sensibilità poetica al loro tramonto: e di fatti al di là di essa non vi fu che il Tassoni. Ma al di là della poesia del T., con tutte le sue manchevolezze, ci sarà, sì, il secentismo, che svilupperà alcuni dei caratteri negativi di essa, specialmente stilistici (contrapposizioni, sgambetti, come diceva il Galilei; insomma, "concetti"); ma ci sarà altresì la grande poesia romantica di tutta Europa, che ne svilupperà i positivi.
La Conquistata non ebbe fortuna di lettori; pubblicata nel 1593, fu ristampata nel 1594 e nel 1595; nel primo trentennio del sec. XVII si hanno altre 5 o 6 edizioni; poi basta. I secoli successivi non modificarono il giudizio negativo; né lo possiamo noi moderni. Quel raziocinare, che vedemmo contrastare col lirismo nella Liberata, qui ha il sopravvento. Una maggior cura, come già accennammo, di motivare logicamente, di rendere più serosimile, più "credibile" la favola, sia con l'abbondare in particolari, sia col raccontare antefatti e seguito (mediante sogni profetici e altri espedienti) degli episodî, sia infine con maggiori determinazioni storiche e geografiche; una visibile tendenza generale al concreto, il che non esclude però che in alcuni casi si abbia l'opposto, che per esempio alcune precisazioni onomastiche scompaiano sotto perifrasi, e vocaboli troppo concreti siano banditi come non consentanei all'alta poesia. La Conquistata è in regola con la poetica che allora il T. veniva nuovamente elaborando. In omaggio ad essa egli vi immette quanto più può di Virgilio e soprattutto di Omero, senza troppo badare che molti personaggi, camuffati alla classica, perdevano così la loro ragione di essere, o ne risultavano intimamente contraddittorî. In omaggio a preconcetti rettorici o moralistici, son soppressi alcuni degli episodî nei quali meglio T. si era espresso: quelli di Olindo e Sofronia, di Erminia tra i pastori, del viaggio alle Isole Fortunate. Goffredo - e forse in ciò è l'unico vantaggio della Conquistata sulla Liberata - è disegnato con maggior vigore; esercita la sua autorità con maggiore fermezza. Ad esigenze ancora più esteriori obbediscono l'aumentato posto che ha la religione: ben s'intende, la religione formale, quella che fu propria del T.; l'accentuazione del carattere allegorico del meraviglioso; le lodi, di cui il nuovo poema è pieno, a grandi e piccoli signori, che prendono il luogo degli Estensi, ricordati fugacemente in un sol passo. Sensibile alle critiche, egli che voleva essere ammirato da tutti, il vecchio T. (ancor giovane di anni, il poeta dopo S. Anna presenta tutti i caratteri della senilità) compone un poema "per pochi dottissimi ed intendentissimi"; smorza le tinte, attenua i colori, dà soddisfazione a piccole e a grandi, a vere o ingiuste censure; ma poiché mette mano nel suo poema con animo estraneo, senza che una nuova, diversa ispirazione abbia preso il posto dell'antica, e anzi col proposito di conservare del vecchio quanto fosse possibile, compatibilmente con i dettami della religione e con quelli della rettorica propria ed altrui; la nuova opera, nata dalla polemica, ha importanza soltanto polemica e dottrinale, analoga a quella dei contemporanei discorsi Del poema eroico.
Il T. prosatore e teorico di poesia. - Qualche intenditore, e non dei meno autorevoli, preferisce nel T. il prosatore al poeta; per esempio P. Giordani, che di prosa non s'intendeva certo poco. Checché sia di questi paragoni, è certo che la tendenza tassesca alla precisione logica, al raziocinare, dominando da sola la prosa, senza contrasti con emozioni liriche, se nuoce alla poesia giova alla prosa, Nei 26 dialoghi, che con le lettere (circa 1700) rappresentano il suo più importante bagaglio prosastico, il T. vuol persuadersi e persuadere, su questioni morali, o estetiche, o di vita cortigiana: e se talvolta indulge al sofisma e scambia magari una freddura verbale per valido argomento, per lo più è ordinato, serrato, nitidissimo. Si aggiunga che il promtore non ha, quanto alla lingua, i preconcetti teorici che assegnavano all'alta poesia un linguaggio aulico e generico, né deve obbedire a quell'istinto del poeta, di cui abbiamo detto, che dissolve la parola nell'insieme musicalmente evocatore. Si è detto che egli non ebbe la passione del pensiero, la quale lo avrebbe condotto lontano dal superficiale eclettismo che gli fu proprio; ed è vero; ma egli ebbe, in sommo grado, la passione del ragionamento. Il T., nell'atto di persuadere altrui, persuade sé stesso; la sua costruzione logica gli appare, almeno nel momento in cui scrive, inattaccabile. La gioia del ragionatore vale, artisticamente, la gioia del pensatore.
Il T., trascinato alla polemica dagli eventi, segnacolo in vessillo in secolari polemiche, non è un polemista. Tutta la sua vita, tutta la sua opera, tutto il suo dramma d'uomo e di scrittore è, all'opposto, nel tentativo di trovar la via media tra opinioni altrui, di conciliare tendenze e convincimenti suoi, in contrasto tra loro nel suo petto. Quanto più avanza negli anni, tanto più è conciliante; la Conquistata è il documento supremo, penoso, di questo sforzo. Un debole, quale lo abbiamo visto, non può avere opinioni teoriche ferme e taglienti; un uomo che aveva bisogno, come lui, di ammirazione totalitaria, non può ambire posizioni decise di battaglia. Oscilla tra il platonismo del Rinascimento e l'aristotelismo della Controriforma, e non giunge neppure a un personale eclettisrao, s'illude, in particolari problemi, di metter d'accordo tesi contrastanti. Ma il T. non fu un filosofo, anche se pretese di esserlo; e non gli si può legittimamente rimproverare di non esserlo stato; tutto ciò andava ricordato solo per renderci conto che nei suoi dialoghi, d'imitazione platonica quanto alla forma, non poteva esserci nemmeno lontanamente la drammaticità, che c'è in quelli, non diciamo di Platone, ma del Bruno o del Galilei. L'arte di essi è data da quella gioia di ragionatore che abbiamo vista, e dagli abbandoni sentimentali e descrittivi, dalle appassionate confessioni autobiografiche. Che sono le qualità prime anche delle moltissime lettere; quando non ragionano, esse imprecano o chiedono o pregano o adulano: con un'assenza tale di veli che, per noi che sappiamo che anche scrivendo il più piccolo biglietto il T. teneva d'occhio il gran pubblico al quale lo sapeva o sperava destinato, può sembrare, più che schiettezza, assenza d'intimo pudore.
Maggiore importanza del pensatore ha naturalmente il teorico di poesia, giacché l'opera teorica serve a bene intendere la poesia. I tardi libri Del poema eroico non sono che l'amplificazione e la documentazione erudita dei giovanili discorsi Dell'arte poetica: in più non v'è che, al solito, un maggiore sforzo di conciliare opposte tendenze, e una maggiore accentuazione dell'esigenza didascalica e moraleggiante: anche questa in conformità con tutta l'evoluzione tassesca.
"Giovare agli uomini coll'esempio delle azioni umane" è dunque il fine del poema eroico, cioè dell'alta poesia; il diletto ne è il mezzo, ma "quel solamente il quale è congiunto con l'onestà". Naturalmente, esso poema dovrà essere unitario, nella varietà delle sue descrizioni e narrazioni; tanto unitario, che "una sola parte o tolta via o mutata di sito, il tutto ruini", ma la varietà occorre: l'Ariosto, pur avendo azione molteplice, è letto; l'unità di azione non ha salvato il Trissino dall'oblio. Poggerà sulla verità, o almeno su "un'opinione di verità"; dunque sulla storia. Ma una storia che non sia troppo antica, sì che i lettori possano riconoscere sé stessi nei personaggi, né troppo recente: il poeta dovrà avere facoltà di cambiare a suo piacimento i dati storici, pur senza discostarsi dai risultati ultimi offerti dalla tradizione; essere "piuttosto artificioso poeta, che verace istorico". Il meraviglioso è necessario; ma deve fondarsi sulla religione vera, e ciò non solo per ragioni religiose, ma anche perché il meraviglioso cesserà d'esser tale, se non sarà "verosimile", se deriverà da enti cui nessuno più crede. Ma la storia dà il particolare, la poesia l'universale: onde il mondo eroico dev'essere il mondo della perfezione: i suoi personaggi saranno "al sommo della virtù" o all'"eccesso del vizio"; niente di troppo individuale dovià scemare "decoro" e "magnificenza" all'alta poesia. In nome del quale decoro sian banditi il riso e l'aperta oscenità; si abbia cura delle proporzioni; poiché "tutto quello che si allontana dalla consuetudine è magnifico", si cerchino "parole non comuni, ma peregrine, e dall'uso popolare lontane"; si badi alla melodia e alla sonorità del verso e della strofe. Facile ravvisare in minuti precetti tecnici, dei quali ïl T. si compiace, il risultato di personali esperienze di poesia; per il resto, nulla di nuovo recò il T. nell'annosa disputa pro e contro Aristotele, sull'essenza della poesia eroica, alla quale egli era portato a partecipare dalla sua stessa educazione e dall'esempio paterno. Ciò non tolse che l'opera teorica del T., così lucida e programmatica, avesse per lunghissimi anni grande influenza, in Italia e fuori d'Italia.
Il T. minore. - Se lo sforzo di conciliare si fa sempre più forte con gli anni, esso è vivo anche nel giovanissimo T. Il Rinaldo è già un compromesso; la sua azione è unica, ma solo "per quanto i presenti tempi comportano"; obbedisce ai precetti aristotelici, ma solo a quelli "i quali non togliono diletto"; come tale, il poema non dovrà essere giudicato "né da' severi filosofi seguaci d'Aristotile... né da' troppo affezionati dell'Ariosto". Allo stesso modo, il poeta canta - e sono gli accenti più persuasivi del poema - la bellezza del corpo umano, la sensualità irrompente e irrefrenabile o ripiegantesi in languore, il lusso stupendo delle feste cortigiane: ma premette a tutto ciò spiegazioni allegoriche; se talvolta si lascia andare sino a rimpiangere - come poi schiettamente nell'Aminta - la maggior libertà in amore dei "secoli migliori", tutta la favola tende a una glorificazione dei "santi e leciti imenei". Il T. adolescente conosce già l'autocostrizione: l'eroe dei nuovi tempi, moralmente perfetto, che Bernardo aveva fabbricato a scapito della poesia, resta per lui un ideale rettorico e morale: intellettualmente concepito come inderogabile esigenza, esso non parla alla fantasia del T. Rinaldo resta, dopo la Liberata e l'Aminta, la eosa migliore che il poeta ci abbia dato, e anzi ha un impeto, una freschezza che, se saranno ancora della favola pastorale, si cercheranno invano nel grande poema eroico; ma nel complesso non può essere considerato che come un'approssimazione alla poesia delle opere maggiori, delle quali anticipa motivi e movenze.
Non lungo discorso basterà anche per la copiosissima produzione lirica del T. Quel che noi moderni chiamiamo "lirismo", e che abbiamo visto determinare la poesia della Liberata, non si esprime nel T., se non fuggevolmente, in quei metri e forme che la rettorica chiama lirici. Altri modelli aveva per essi il poeta, che partiva dall'ammirazione piena per il letteratissimo e frigido monsignor Della Casa, suo autore prediletto di gioventù; altri scopi loro assegnava che non l'ingenua effusione del proprio sentire. Pressoché tutta la produzione lirica di S. Anna, e sopra tutto quella posteriore, è encomiastica nel senso più preciso di questa parola; in essa, e nella precedente di ugual tipo, il T. esercitava la propria bravura di esperto artefice di versi; ad essa affidava la raccomandazione delle proprie richieste presso i potenti e gli amici di questi; non possiamo quindi trovare da ammirarvi altro che abilità tecnica e, qua e là, il lampo isolato di qualche immagine e l'occasionale freschezza di qualche notazione. Ma, in certo senso, encomiastica è tutta la lirica del T., a cominciare dai canzonieri per la Bendidio e per la Peperara, argomento dei quali è il corteggiamento, non l'amore, e in cui tutto o quasi tutto è letteratura più o meno squisita, giuoco d'ingegno più o meno brillante: poesia vera è soltanto il vagheggiamento, lascivo o sereno, della bellezza femminile. Poesia culta quanto altra mai, tutta la lirica del T.: piena zeppa d'intarsî letterarî, anche là dove ci aspetteremmo il puro grido angosciato; ma è stato ben detto che la letteratura è la seconda natura del T. Onde sarebbe erroneo pensarlo frigido manipolatore di eleganze culturali: la reminiscenza peregrina è in lui spontanea, ingrediente della ricchezza e dell'eleganza di cui in lui era istintivo il bisogno, e ha un suo calore. Come già notammo per l'Aminta, il riferimento a un dato di cultura doveva essere particolarmente gustato in un ambiente colto, come era quello al quale il T. si rivolgeva. Non per nulla egli predilesse il madrigale, atto ad accogliere, diceva, i "concetti puri, candidi, gravi ed arguti": e in questo genere scrisse cose squisite, graziosissime nella loro sapiente ingenuità. Qui, e nell'abbandono melico, è la parte più viva del T. lirico: il T. profondo vi appare a tratti, in guizzi sensuali, e soprattutto in quel caratteristico procedere per interrogazioni trepide o esclamazioni sbigottite, nelle quali il poeta esprime la sua angosciata meraviglia che il mondo sia così diverso da quello splendido e facile che egli si ostina a sognare sin quasi alla vigilia della morte. "Oh mia vita, non vita! oh fumo ed ombra - Di vera vita, oh simulacro! oh morte!".
Son le ultime parole pronunziate da Germondo nel Torrismondo: lamento che il seguente breve coro finale sviluppa, in note di altissima poesia: "Ahi lagrime! ahi dolore! - Passa la vita e si dilegua e fugge - Come gel che si strugge... Che più si spera, o che s'attende omai? - Dopo trionfo e palma - Sol qui restano a l'alma - Lutto, lamenti e lagrimosi lai. - Che più giova amicizia o giova amore? - Ahi lagrime! ahi dolore!" Ma la poesia della "perfetta", tragedia classica, costruita secondo le norme, imitata come si doveva da Sofocle e da Seneca, è tutta o quasi tutta qui, nella lirica che la suggella. Il giovane T. l'aveva lasciata incompiuta; aveva lorse sentito la freddezza dell'ispirazione; la riprende e compie il T. degli ultimi anni, desideroso di cimentarsi anche nell'altro grande genere di poesia. Ma è freddo e impacciato, anche se il tema fondamentale è sempre quello che, dal Rinaldo in poi, lo aveva ispirato: il conflitto degli istinti con la regola: qui, con la legge dell'amicizia che Torrismondo viola, possedendo la donna destinata al suo amico Germondo. Che se poi si scopre essere quella donna, Alvida, altresì sua sorella, l'orrore dell'incesto non è sentito dai due protagonisti, che si uccidono l'una perché si crede abbandonata, l'altro perché non può più vivere senza di lei. Torrismondo si sforza sino all'ultimo (anche lui!) di conciliare il suo amore con la legge dell'amicizia, e tenta varî espedienti; si uccide quando l'agnizione e la fatalità e il suicidio di Alvida li hanno resi vani. La sua infelicità non consiste - come nei Greci che il T. imitava - nell'aver trasgredito alla legge morale, ma nel non poter godere della sua felicità. Delusione di edonista, non rimorso di uomo morale; l'amoralità del T. riceve una nuova conferma proprio là dove egli voleva darci la tragedia della moralità più raffinata e squisita. È stato detto che l'avere scelto come teatro della tragedia il Nord, è anticipazione anch'essa di gusto romantico. In verità, il Nord non è affatto idoleggiato come poi faranno i romantici meridionali; e, a prescindere dai precedenti che quella scelta ha in altri letterati cinquecenteschi che non possono davvero essere considerati preromantici, sta di fatto che essa è determinata dalle teorie del secolo, fatte proprie dal T., che imponevano, come abbiam visto, di basarsi sulla storia e, per le opere di pura fantasia, su una storia ignota, di paesi lontani, della quale i lettori o ascoltatori non fossero in grado di controllare l'autenticità. Naturalmente, c'entra nella scelta anche un po' il gusto dell'esotico, così difuso in tutto il T.: e solo in questo senso si può parlare di anticipazione romantica.
Quanto più il T. procede negli anni, quanto più la vita gli nega quello che ha aspettato, quanto più aspre si fanno le sue traversie e gli si palesa l'impossibilità di trovare quaggiù un approdo, tanto più si volge a Dio. Ma la religiosità di lui resta sempre quel che era nella Liberata: bisogno di Dio, non sentimento di Dio. Egli passa dallo scetticismo sereno e areligioso dell'Aminta alla Liberata; dalla Liberata procede alla Conquistata, ai molti componimenti religiosi degli ultimi anni, al Monte Oliveto, al Mondo creato, un De rerum natura cattolico; ma le "cangiate rime" si fanno di più in più letterarie e fredde; e solo le avviva il senso sempre più desolato della caducità di tutte le cose. Dio poeticamente vive, tra i ghirigori dell'esperto letterato, solo in certa pesante stanchezza dell'eterno pellegrino, che lancia ormai di là dalla tomba la sua ultima speranza di riposo.
Edizioni: Opere, a cura di G. Rosini, voll. 33 (Pisa 1821-32); Poesie e Prose, a cura di F. Flora (Milano 1934 e 1935). - La Ger. Lib., a cura di A. Solerti e cooperatori, voll. 3 (Firenze 1895-96: nel vol. I la bibl. delle edizz.); a cura di L. Bonfiglì (Bari 1930). - Sull'identificazione del codice Baruffaldi, F. Flora, Il codice Baruffaldi della "Ger." e dell'"Aminta" (Milano 1936): l'autografia di esso è però negata da G. Bertoni, in Giorn. stor. d. lett. it., CVIII (1936), p. 142. - Edd. comm.: a cura di E. Allodoli (Milano 1934), di G. Ziccardi (Torino 1935), di E. Zanette (ivi 1936). - La Ger. Conq., a cura di L. Bonfigli (Bari 1934). - Opere minori in versi, a cura di A. Solerti, voll. 3 (con bibl. delle edizioni, Bologna 1891-95); Rinaldo, a cura di L. Bonfigli (Bari 1936). - Edd. comm. dell'Aminta: a cura di L. Fassò (Firenze 1928), di G. Marzot (Milano 1930), di G. Petronio (Napoli 1933), di C. Previtera (Milano 1936). - Le Rime, a cura di A. Solerti, voll. 4 (Bologna 1898-1902; nel vol. I la bibl. delle edd.; mancano le rime sacre e i versi latini, i quali ultimi furono editi a Parma 1877, e da A. Martini, 2a ed., Roma 1895). - Una scelta delle rime e dei poemi minori ci ha dato G. F. Gobbi (Milano 1929). - Per le prose, siamo ancora alle edd. curate da C. Guasti: Lettere, voll. 5 (Firenze 1853-55); Dialoghi, voll. 3 (ivi 1858-59); Prose diverse, voll. 2 (ivi 1875): cfr. l'Appendice alle opere in prosa, a cura di A. Solerti (Firenze 1892), e per l'epistolario, anche le importanti aggiunte dello stesso in Vita di T.T., II (Torino 1895). - Una scelta dell'Epistolario curò S. Slataper, in 2 volumi (Lanciano 1912). - Le postille tassesche alla Divina Commedia furono edite da E. Celani (Città di Castello 1895).
Bibl.: La bibl. delle opere sul T. sino al 1894, in A. Solerti, Vita di T. T., III, Torino 1895, pp. 149-181, che assorbe G. I. Ferrazzi, T. T., Bassano 1880; per le opere procurate dalla ricorrenza del centenario tassesco del 1895, id., in Riv. d. biblioteche e degli archivi, VI (1895), e in Giorn. stor. d. lett. ital., (1896), pp. 391-435; per quelle del 1896 al 1930, A. Tortoreto e J. G. Fucilla, Bibliogr. analitica tassiana, Milano 1935 (ibid., pp. viii-xii e passim, indicaz. sommaria di altre pubbl. posteriori al 1930; e, p. 121 segg., addizioni al Ferrazzi e al Solerti).
Per la vita fondamentale A. Solerti, op. cit., voll. 3. Inoltre: G. B. Manso, Vita di T. T., 1a ed., Venezia 1621; ediz. con aggiunte, Roma 1634; P. A. Serassi, La vita di T. T., ivi 1785; 3a ed., postillata da C. Guasti, Firenze 1858; J. Blach, Life of T. T., Londra-Edimburgo 1810; C. Guasti, Della vita intima di T. T., prem. al vol. V delle Lettere di T. T., cit.; V. Cherbuliez, Le prince Vitale. Essai et récit à propos de la folie du T., Parigi 1864 (prima in Revue d. Deux Mondes, 1853: segna l'inizio degli studî moderni sul T.); F. D'Ovidio, Il carattere, gli amori, le sventure di T. T., in Saggi critici, Napoli 1879; E. Montégut, Poètes et artistes de l'Italie, Parigi 1881 (trad. di M. Puglisi Pico, in Saggi critici, Catania 1888); A. Mézières, Le mystère de la vie du T., in Revue des Deux Mondes, LXXIX (1909); A. Capuani, T. T., Milano 1935. - Tra gli studi positivistici: A. Rothe, T. T. Eine psychiatrische Studien, in Allgemeine Zeitschrift für Psychiatrie, XXXV (1878); A. Corradi, in Mem. R. Ist. lomb., 1881, e in Rendic. dello stesso istituto, 1880, 1884, 1885, 1890; L. Roncoroni, Genio e pazzia in T. T., Torino 1896; F. De Gaudenzi, Studio psico-patologico sopra T. T., Vercelli 1898. - Studi ragguardevoli su particolari biografici: B. Capasso, Il T. e la sua famiglia a Sorrento, Napoli 1866; G. Tigri, Notizie biogr. di Porzia de' Rossi, Pistoia 1871; B. Morsolin, M. Campiglia poetessa vicentina, ecc., in Atti d. Accad. Olimpica di Vicenza, 1882; L. Tosti, T. T. e i benedettini cassinesi, Roma 1886; G. Mazzoni, Un maestro di T. T. (Danese Cataneo), in Tra libri e carte, ivi 1887; G. Campori e A. Solerti, Luigi, Lucrezia e Leonora d'Este, Torino 1888; A. Solerti, Ferrara e la corte estense nella seconda metà del sec. XVI, Città di Castello 1891; P. D. Pasolini, I genitori di T. T., Roma 1895; V. Prinzivalli, T. T. a Roma, ivi 1895; C. Guasti, Il T. e la Crusca, premesso al vol. IV delle Lettere di T. T., cit.; A. Borzelli, G. B. Manso, Napoli 1916; G. Bertoni, Poeti e poesie del Medioevo e del Rinascimento, Modena 1922.
Sull'artista, e sull'uomo in quanto artista: F. De Sanctis, St. d. lett. ital., cap. XVII; E. Donaoni, T. T., Firenze 1921, voll. 2. - Inoltre: G. Falorsi, Sui tempi, l'animo e l'ingegno di T. T., premesso all'ed. Diamante della Gerusalemme, ivi 1889; E. Nencioni, T. T., in La vita ital. nel Cinquecento, II, Milano 1894; A. Albertazzi, T. T., Modena 1911; G. Bonanni, Saggio sullo spirito lirico del T., Firenze 1913; G. Fioretto, Unità e coerenza nello spirito di T. T., Palermo 1914; A. Marenduzzo, La vita e le opere del T., Livorno 1915; G. B. Cervellini, T. T., Messina 1921; Th. Spoerri, Renaissance und Barock bei Ariosto und T., Berna 1922; M. Mariotti, Intervista con T. T., Vercelli 1928-33; B. Croce, storia dell'età barocca in Italia, Bari 1929; A. Belloni, Lo spirito della Controriforma nel mondo epico del T., in La nuova Italia, 1932; S. Salvini, Divagazioni su T. T., in Il Boccadoro, III, giugno 1935; L. Malagoli, Interpretazione del T., Commento ai critici, in Civiltà moderna, 1935; L. Tonelli, T., Torino [1935]; C. Previtera, La poesia e l'arte di T. T., Messina-Milano [1936].
In particolare, sull'Aminta: G. Carducci, Su l'Aminta di T. T., saggi tre, Firenze 1896; C. De Vivo, Su l'Aminta di T. T., Napoli 1899; E. Carrara, La poesia pastorale, Milano 1909, cap. V; A. Solerti, Gli albori del melodramma, Palermo 1904-05; A. Corsaro, Su l'Aminta del T., Napoli 1930. E cfr. le introduzioni alle ristt. citate. - Sulla Liberata e sulla Conquistata, oltre alle introduzioni alle riviste citate: G. Mazzoni, Della Ger. lib., in Tra libri e carte, Roma 1887; A. Bernardini, L'arte del T.: il secentismo nella Gerusalemme, Arezzo 1910; A. Belloni, Il poema epico e mitologico, Milano 1912; B. Cestaro, La Musa della Ger., in Atti e mem. della R. Acc. di Padova, n. s., XLVI; M. Jirmounski, L'art de T. T. dans la Ger. lib., in Étud. ital., VII (1925); VIII (1926) e in Revue du seizième siècle, XIV (1927); F. Neri, La favola di Armida, in Cultura, 1929. - Sulle fonti: V. Vivaldi, Studi letter., Napoli 1891; S. Multineddu, Le fonti della Ger. lib., Torino 1895; G. Moroncini, Sulla Cristiade di M. G. Vida, Trani 1896; V. Vivaldi, La Ger. lib. studiata nelle sue fonti, ivi 1901-1907; id., Prolegomeni ad uno studio completo delle fonti della Ger. lib., ivi 1904; E. De Maldé, Le fonti della Ger. lib., Parma 1910; H. Glaesener, Les sources médiév. du T., in Bull. bibl. et pédag. du Musée belge, XXXI (1927). - Sugli epigoni: A. Belloni, Gli epigoni della Ger. lib., Padova 1893. - Sulle polemiche: la bibl. della polemica, in A. Solerti, Appendice alle opere in prosa, cit.; Le considerazioni del Galilei, in Opere, nuova ediz., X, Firenze 1934 (cfr. N. Vaccalluzzo, Galileo letterato e poeta, Catania 1896); C. Guasti, La Crusca e il T., cit.; V. Vivaldi, La più grande polemica del '500, Catanzaro 1895; U. Cosmo, Le polemiche tassesche, la Crusca e Dante sullo scorcio del Cinque e il principio del Seicento, in Giorn. stor. d. lett. it., XLII (1903), p. 112 segg. - Sulla Conquistata: G. Mazzoni, Della Ger. conq., in Tra libri e carte, cit.; G. Falorsi, La Ger. conq., in Rass. naz., IX (1882); G. Di Niscia, La Ger. conq. e l'arte poetica di T. T., in Propugnatore, n. s., II, p. 451 segg.
Sulle idee filosofiche e retoriche: F. Falco, T. T. filosofo, Savigliano 1868; id., Dottrine filos. di T. T., Lucca 1895; G. Bianchini, Il pensiero filosof. di T. T., Verona-Padova 1897; J. E. Spingarn, La critica lett. del Rinasc., trad. ital., Bari 1905; G. Toffanin, La fine dell'umanesimo, Torino 1920; id., Il Cinquecento, Milano 1929; C. Guerrieri Crocetti, G. B. Giraldi, ecc., Milano-Genova 1932, passim, spec. p. 392 segg.; E. Zanette, Su Ansaldo Cebà, in Convivium, 1932.
Sulle opere minori: G. Mazzoni, Del Rinaldo di T. T., in Opere min. in versi del T., I; B. Cotronei, Il Rinaldo del T. e il Pastor fido del Guarini, in Giorn. stor. d. lett. ital., XI (1888), pp. 161-176; E. Proto, Sul Rinaldo di T. T., Napoli 1895; C. Guerrieri-Crocetti, Il Rinaldo di T. T., Firenze 1924; G. Mazzoni, Su le rime di T. T., in In biblioteca, Roma 1883; A. Solerti, Le liriche amorose di T. T., in Nuova Antologia, 16 luglio 1892; A. Sorrentino, Della lirica encomiastica di T. T., Salerno 1910; S. M. Vismara, La lirica italiana nel Rinascimento, Firenze 1910; A. Sainati, La lirica di T. T., Pisa 1912-15; F. Rizzi, L'anima del Cinquecento e la lirica volgare, Milano 1928; C. Calcaterra, Le meliche di T. T., in Arch. romanicum, XIII (1929); G. F. Gobbi, Il T. e la musica, in Rass. Naz., aprile 1930; A. Capasso, Il T. lirico, in Solaria, maggio-giugno 1932. - F. D'Ovidio, Due tragedie del Cinquecento: l'"Edipo" dell'Anguillara e il "Torrismondo" di T. T., in Saggi critici, Napoli 1879; G. Carducci, in Opere minori in versi, III; E. Bertana, La tragedia, Milano s. a.; U. Renda, Il Torrismondo di T. T. e la tecnica tragica del Cinquecento, Teramo 1916. - G. Mazzoni, Del Montoliveto e del Mondo Creato, in Opere minori in versi, II; G. Scopa, Sulle fonti del Mondo creato, in Atti Accad. napol., XX (1907); id., in Riv. abruzz., XXIII (1908); id., in Rass. crit. d. lett. it., XIV (1909). - C. Cipolla, Le fonti storiche della geneal. di Casa Gonzaga, in Opere minori in versi, I.
Sulla fortuna, ampie indicazioni bibl. in Tortoreto-Fucilla, op. cit. Per l'Italia: M. Alberti, Manoscritti inediti di T. T., ecc., Lucca-Napoli 1837 (cfr. A. Solerti, Dei manoscritti di T. T. falsificati dal conte M. A., in Giorn. stor. d. lett. ital., XIV, 1889, p. 102 segg.); L. Frati, T. T. in musica, in Riv. mus. ital., XXX (1923); U. Bosco, Il T., il Manzoni e i Romantici, in Cultura, 1924, pp. 145-152; id., Il "Tasso" del Goethe e il "poeta" romantico, ibid., pp. 517-21; id., Il T. come tema lett. nell'Ottocento ital., in Giorn. stor. d. lett. ital., XCI (1928), pp. 1-66; A. Mazzoleni, I poeti del T., in Bergomum, sett. 1931; id., L'Aleardi e il T., ibid., dic. 1931. - Per la Francia: M. Puglisi Pico, Il T. nella critica francese, Acireale 1896; J. Marsan, La pastorale dramatique en France, Parigi 1905; id., Formation de la pastorale franç., in Revue de la Renaiss., VII (1906); L. F. Benedetto, J.-J. Rousseau tassofilo, in Miscellanea Renier, Torino 1912; U. Grizzuti, Voltaire critique et imitateur du T., Milano-Roma 1930; R. C. Williams, French allusion to T., in Mod. Lang. Notes, febbr. 1932; H. Glaesener, Les points de départ. mérid. de l'"Obéron" de Wieland: Ariosto et T., in Revue de litt. comp., luglio-sett. 1934. - Per la Germania: O. Erns, Goethe und T., in Die Kultur, I (1903); H. Wagner, T. daheim in Deutschland, Berlino 1905; J. Geisel, T. und sein Gefolge, Berlino 1911. - Per l'Inghilterra: E. Köppel, Die englischen Tasso's Übersetzungen des XVI. Jahrhunderts, in Anglia, XI (1889), XII (1890); XIII (1891); W. P. Kerr, T., Londra 1925; R. W. King, Ital. influence on Engl. Scholarship und Liter. during the Romantic Revival, in Mod. Lang. Rev., XX (1925), XXI (1926); J. G. Scott, Les sonnets élizabéthains, Parigi 1929; S. Lee, Elizabethan and other Essays, Oxford 1929; H. Genoux, L'élément pastoral dans la poésie narrative et le drame en Angleterre de 1579 à 1640, Parigi 1929; A. Castelli, La Ger. lib. nell'Inghilterra di Spenser, Milano 1936. - Inoltre: A. Farinelli, Italia e Spagna, Torino 1929; M. Di Martino, Il T. in Svezia, in Rass. bibl. d. lett. it., IV (1896); R. Pollak, Gofred Tassa-Kochanowskiego, Poznań 1922; A. Cronia, L'influenza della Ger. Lib. sull'Osman di G. F. Gondola, Roma 1925.
Sull'iconografia: A. Solerti, Vita cit., III; C. Caversazzi; Icon. tassiana. La vera effigie di T. T., in Emporium, 1931; id., Ritr. in. di T. T., ibid., 1936; L. Locatelli, Ancora intorno al vero ritr. di T. T., in Bergomum, VIII (1934).