Tortura
"Una strana conseguenza
che necessariamente deriva dall'uso
della tortura è che l'innocente
è posto in peggiore condizione che il reo"
(Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene)
Un dramma diffuso e sconosciuto
di Daniele Scaglione
28 aprile
Destano sgomento in tutto il mondo le immagini trasmesse dall'emittente televisiva statunitense CBS che mostrano i maltrattamenti inflitti da soldati americani a prigionieri iracheni nelle carceri di Abu Ghraib, vicino a Baghdad. Subito dopo il Pentagono diffonde i risultati di un'inchiesta avviata nel dicembre 2003 nelle carceri gestite dall'esercito statunitense in Afghanistan e in Iraq, secondo i quali sono stati accertati 35 casi di abusi e sevizie, che hanno portato alla morte di 25 persone, e assicura che i responsabili sono stati deferiti alla Corte marziale.
Un fenomeno sottovalutato
Alle notizie delle sevizie nel carcere iracheno di Abu Ghraib, il mondo intero ha reagito con rabbia e sdegno. Ma il sentimento prevalente nei paesi occidentali è stato forse quello di incredulità. Come si poteva immaginare che un paese con forti tradizioni democratiche e di diritto come gli Stati Uniti d'America tollerasse l'uso della tortura da parte delle sue Forze armate? L'unica cosa straordinaria, nei fatti di Abu Ghraib, è in realtà la grande disponibilità di fotografie che documentano i crimini commessi.
Baha' al-Maliki, addetto alla reception in un albergo di Bassora, nel settembre del 2003 è stato percosso a morte dai soldati della Gran Bretagna: la mancanza di immagini non ha tuttavia consentito al suo caso di ottenere attenzione e interesse.
Ciò che più caratterizza il problema della tortura, oggi, è il modo con cui viene sottovalutato. D'altra parte, che con premeditazione si cerchi di far soffrire il più possibile una persona è un fatto talmente aberrante che si fatica a credere possa accadere spesso. Così, quando un caso di tortura diventa noto al grande pubblico, si diffonde l'opinione che si tratti di un tragico evento isolato, di una terribile eccezione. Invece le sevizie sono una consuetudine in ogni parte del mondo, tanto nei paesi industrializzati quanto in quelli in via di sviluppo, tanto negli Stati guidati da despoti quanto in quelli a regime democratico.
La scarsa conoscenza di questo dramma in gran parte dell'opinione pubblica è forse comprensibile.
Ma inaccettabile è la disattenzione manifestata su questo fenomeno dalle istituzioni, in particolare dai governi, che avrebbero il compito e il potere di contrastarlo e prevenirlo. Nello specifico caso dell'Iraq, Amnesty International aveva iniziato a diffondere denunce sulle violazioni dei diritti umani compiute dalle forze della coalizione già nel maggio del 2003, riportando anche numerosi e documentati casi di torture: denunce che gli esecutivi dei paesi impegnati con le loro truppe in territorio iracheno hanno ignorato salvo, un anno dopo, sostenere di non averne mai saputo nulla. Si tratta di un comportamento irresponsabile che spesso è tenuto anche quando le denunce provengono da enti istituzionali quali le Nazioni Unite o il Consiglio d'Europa.
Secondo l'art. 1 della Convenzione contro la tortura e ogni altro trattamento o punizione crudele, inumano o degradante, approvata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1984, "il termine 'tortura' designa ogni atto per mezzo del quale un dolore o delle sofferenze acute, sia fisiche sia mentali, vengano deliberatamente inflitte a una persona da agenti della pubblica amministrazione o su loro istigazione o comunque da altre persone che agiscono in posizione ufficiale […]. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze che conseguono unicamente da sanzioni legittime e sono inerenti a queste sanzioni od occasionate da esse".
Una definizione molto chiara che dovrebbe però essere perfezionata, poiché consente di accusare del reato di tortura solo esponenti di pubbliche amministrazioni o persone che agiscono in posizione ufficiale e non, per esempio, un cittadino comune o un esponente di un gruppo armato. Secondo quanto scritto, inoltre, non possono essere considerate torture quelle violenze inflitte tramite 'sanzioni legittime', nemmeno le amputazioni e le fustigazioni, se previste da un codice penale. Discorso analogo per la pena di morte, anche nei casi in cui viene inflitta con metodi che palesemente infliggono atroci e prolungate sofferenze alla vittima, come nel caso della lapidazione, dell'impiccagione, della sedia elettrica (senza peraltro credere che metodi più sbrigativi come la decapitazione, o meno spettacolari, come le iniezioni letali, garantiscano una morte senza sofferenza).
Metodi di tortura
Spesso la vittima viene picchiata con calci, pugni, bastoni, oppure semisoffocata con le mani o un sacchetto. La tortura però si infligge anche in modo più evoluto, tramite scosse elettriche o la somministrazione di farmaci e droghe.
Vi sono tante forme di sevizie elaborate in modo scientifico, a testimoniare la premeditazione con cui vengono compiute. Ancor più colpisce il trovare particolari torture riprodotte in modo pressoché identico per esempio in un paese sudamericano e in un paese mediorientale.
Ciò è dovuto all'esistenza di una sorta di 'internazionale dei torturatori', una specie di macabro 'scambio di buone pratiche'.
Le forme di tortura hanno spesso dei nomi in codice, talvolta crudelmente sarcastici, com'è il caso della 'passeggiata salutare', denunciata in Polonia, che consiste nel far correre la vittima in mezzo a due file di poliziotti che la bastonano; o il 'petit déjeuner', vale a dire il costringere la persona a ingerire i propri escrementi, come si è scoperto accadere in Congo. Legare qualcuno a una sagoma di legno per poi picchiarlo o scaricargli addosso la corrente elettrica viene definito in Siria 'tappeto volante', mentre percuotere il detenuto simultaneamente su entrambe le orecchie era una pratica frequentemente adottata nelle dittature cilene e argentine, chiamata 'telefono'. In Brasile, Cile, Perù, Tunisia si usa appendere il torturato a un palo, legandogli insieme mani e caviglie: a tale pratica viene dato il nome di 'altalena' o 'trespolo del pappagallo'.
Come testimoniato anche da alcune foto scattate ad Abu Ghraib, i torturatori spesso si scatenano in violenze di tipo sessuale. Il far mimare un rapporto orale tra i detenuti o il costringere i prigionieri a masturbarsi in pubblico sono azioni imposte allo scopo di umiliare e offendere. Altre sevizie sessuali sono invece inflitte per procurare grandi sofferenze: è il caso dello 'schiavo nero', tortura che consiste nell'inserire nell'ano della vittima un ferro rovente.
Sono però soprattutto le donne a subire questo tipo di soprusi. In Ruanda, durante il genocidio contro i tutsi e i cosiddetti hutu moderati compiuto tra l'aprile e il luglio 1994, si stima siano state violentate tra 250.000 e 500.000 donne: un crimine che era stato voluto e pianificato dall'allora governo in carica, in particolare da Pauline Nyramasahuko, ministro per la Questione femminile e la famiglia. Il ministro aveva costituito squadre di stupratori composte da malati di AIDS, che hanno contagiato il 70% circa delle loro vittime. Ma le violenze sessuali sono diffuse in modo capillare in tutti i paesi del mondo.
Lo stupro è una violenza devastante anche sul piano psicologico, altro fronte su cui si accaniscono i seviziatori. Sempre più si registrano l'inscenamento di una finta esecuzione o il costringere ad assistere alle sevizie inflitte a un familiare oppure a un amico. I torturatori intendono così provocare ansia, angoscia, senso di impotenza. È stato ipotizzato che anche le fotografie nel carcere di Abu Ghraib siano state scattate allo scopo di terrorizzare altri detenuti mostrando loro cosa gli sarebbe toccato se non avessero collaborato con le autorità statunitensi.
Spesso sono le condizioni di detenzione a costituire una forma di tortura. Si calcola che nelle prigioni russe muoiano dai 10.000 ai 20.000 reclusi l'anno a causa dei maltrattamenti e dei suicidi. Le celle sono sovraffollate, buie, sporche, prive di ventilazione, piene di insetti, malattie come la tubercolosi e la scabbia sono estremamente diffuse.
Ma se tra i maltrattamenti inflitti ai detenuti si può includere la mancanza di assistenza sanitaria, non sono invece pochi i medici disposti a collaborare con i torturatori. Molte vittime hanno raccontato che durante le sevizie qualcuno controllava il loro battito cardiaco sul polso o addirittura appoggiando sul petto uno stetoscopio. Si è scoperto che il 60% delle persone curate presso il Centro per la riabilitazione delle vittime della tortura di Copenaghen ha subito violenze in presenza di personale sanitario. Il compito di questi professionisti consiste nell'identificare i punti deboli su cui si possono concentrare gli aguzzini, tenere sotto controllo la vittima affinché non muoia, farla rinvenire quando sviene. Paradossalmente può anche accadere che il medico curi la persona martoriata allo scopo di rimetterla in sesto per le prossime sedute di sevizie, perché le torture vengono sempre inflitte in maniera ripetuta, magari a intervalli più o meno regolari, di modo che anche l'attesa tra una sessione e l'altra sia fonte di angoscia e terrore.
Perché si tortura
Secondo molti la tortura è un mezzo estremamente efficace per costringere qualcuno a fornire informazioni. Si tratta di un falso mito, assai pericoloso poiché porta alcuni a ritenere che, in condizioni straordinarie, torturare possa essere lecito. Dopo gli attentati dell'11 settembre 2001 c'è chi ha sostenuto l'opportunità di seviziare un presunto terrorista, se ciò potesse servire a fargli rivelare, per esempio, dove ha nascosto un ordigno in procinto di esplodere. Mark Bowden, scrittore e giornalista statunitense, ha introdotto una distinzione tra 'tortura' e 'coercizione', definendo la seconda un "metodo che consente di ottenere informazioni vitali senza infliggere danni permanenti", e che va considerato "moralmente accettabile". Ma il suo è un ragionamento astratto. È praticamente impossibile, innanzitutto, valutare a priori se una determinata sevizia produrrà danni permanenti o meno, soprattutto perché è difficile valutare il rischio di causare traumi psichici. In secondo luogo, che la tortura sia utile per estorcere verità è falso: le persone seviziate oppure minacciate di esserlo solitamente sono disposte a dire qualsiasi cosa, non importa se falsa o reale, utile a interrompere la loro sofferenza.
La tortura al più può costringere la vittima ad assumersi responsabilità di atti mai commessi, e in effetti non sono rari i casi di imputati condannati sulla base di confessioni estorte con la violenza. Ma forze di sicurezza talmente degenerate da seviziare detenuti in attesa di processo non avrebbero remore a fabbricare elementi di colpevolezza della vittima, quali false testimonianze o documenti artefatti. La tortura ha un unico scopo, quello di distruggere la personalità della vittima. Contrariamente a pratiche non meno aberranti, come possono essere le persecuzioni razziste, essa non viene usata per suddividere le persone in 'umani' e 'sub-umani', bensì per trasformare le persone in sub-umani.
Il torturato è in totale balia dei suoi carnefici, che potrebbero ucciderlo e farlo scomparire e invece scelgono di seviziarlo per giorni o per mesi. Una volta liberata, la vittima soffre traumi profondi, è depressa, non riesce a vivere normalmente. Chi pratica la tortura per conto di qualche autorità sa che riconsegnare agli avversari politici un leader coraggioso trasformato in un individuo che ha paura della propria ombra ha un effetto estremamente demoralizzante.
Ma la vittima può essere anche semplicemente un esponente del gruppo che si vuole terrorizzare o intimidire. Può essere una donna, un bambino, un anziano: l'importante è che le violenze che ha subito siano di monito per i suoi simili. Per questo motivo la tortura è molto utilizzata in contesti di conflitto contro il popolo nemico e come arma di persecuzione religiosa, etnica, sociale.
Il sistema-tortura
Quando sono circolate le prime immagini delle sevizie praticate nel carcere di Abu Ghraib, le autorità statunitensi hanno espresso il loro rincrescimento per quelli che consideravano 'casi isolati'. Ma il fenomeno è apparso ben presto così diffuso da far vacillare la tesi delle 'mele marce' sostenuta dal governo americano. Non ci si improvvisa torturatori. Sevizie e maltrattamenti praticati su ampia scala sono sempre il frutto di un sistema complessivo in cui gli esecutori materiali delle violenze sono la classica rotellina di un ingranaggio più complesso.
Negli anni Sessanta il sociologo Stanley Milgram ha dimostrato come anche le persone più miti e più acculturate possano trasformarsi in seviziatori. In un esperimento diventato famoso Milgram ha fatto credere ad alcuni volontari che avrebbero contribuito a verificare l'effetto della paura sulle capacità di ragionamento delle persone. Ha quindi chiesto loro di porre alcune domande a uno studente con la regola che, al primo errore, gli avrebbero somministrato una lieve scarica elettrica. Al secondo sbaglio la scossa sarebbe stata più intensa, fino ad arrivare, dopo un certo numero di errori, a tensioni decisamente elevate. Naturalmente il 'povero studente' era un attore che fingeva di provare dolore, mentre le vere cavie dell'esperimento erano coloro che lo interrogavano. Nella stragrande maggioranza dei casi questi ultimi sono arrivati a infliggere - o meglio a credere di infliggere - la scarica più intensa possibile, nonostante l'interrogato urlasse o addirittura fingesse di essere svenuto. Milgram spiegò che ogni partecipante all'esperimento all'aumentare delle proteste dello 'studente' voleva interrompere l'interrogazione. Ma a questo punto interveniva un secondo attore che, nel ruolo di un responsabile scientifico, esortava il volontario a proseguire "in nome della ricerca". Prima di ricominciare a formulare domande e somministrare punizioni, la 'cavia' diceva al finto scienziato che, di ciò che sarebbe potuto accadere al malcapitato, lui non se ne assumeva la responsabilità.
L'esperimento ha così messo in luce due elementi essenziali che rendono possibile l'esistenza dei torturatori. Il primo consiste nella convinzione che esista un imperativo - un valore da tutelare o un'emergenza da scongiurare - in nome del quale tutto è lecito. Nell'esperimento di Milgram era "la ricerca scientifica", nel Cile di Pinochet era "il pericolo comunista", nell'Unione Sovietica era "la difesa dello Stato comunista", nella Cambogia dei Khmer Rossi era "la salvaguardia della rivoluzione", in Arabia Saudita è "il rispetto dei precetti religiosi", nel carcere di Abu Ghraib - come nelle gabbie di Guantánamo - è "la lotta al terrorismo". Il secondo elemento è lo 'scarico di responsabilità'. Quando la tortura è diffusa e sistematica si può dare per certo che sia voluta o quantomeno tollerata 'in alto'. I carnefici lo sanno e agiscono convinti di rispettare i desideri dei propri capi, anche senza aver ricevuto un ordine scritto.
Grazie alla convinzione di contribuire insieme ad altri a portare avanti una nobile causa, i torturatori riescono a considerare la propria attività un lavoro come un altro. Nel film Garage Olimpo, Marco Bechis ha mostrato seviziatori argentini che timbravano il cartellino, come dipendenti qualsiasi. Hugo García, torturatore uruguayano, alla fine delle sedute di sevizie offriva alle vittime cibo e sigarette. Non era matto, semplicemente svolgeva il suo compito in modo professionale, senza alcun risentimento nei confronti di chi finiva sotto i suoi ferri: una volta assolto il suo compito poteva anche mostrarsi gentile e cortese.
Nelle immagini scattate ad Abu Ghraib i soldati statunitensi hanno il sorriso sereno di chi sta svolgendo il proprio incarico con entusiasmo, non il ghigno satanico che ci si aspetterebbe di scorgere sul volto di un sadico. D'altra parte quanto stavano facendo era stato approvato da loro superiori gerarchici, addirittura dal ministro della Difesa Donald Rumsfeld, secondo quanto afferma il giornalista del New Yorker Seymour Hersh, premio Pulitzer.
In effetti, durante un'audizione al Senato, nel maggio del 2004, Rumsfeld ha ammesso che gli avvocati del Pentagono avevano approvato per i prigionieri in Iraq tecniche di interrogatorio che comprendevano la 'gestione del sonno', la 'manipolazione delle diete', la costrizione ad assumere 'posizioni stressanti'. Metodi già autorizzati per i detenuti nella base cubana di Guantánamo e che secondo i legali del Ministero della Difesa non sarebbero in contrasto con le Convenzioni di Ginevra che regolano il trattamento dei detenuti in contesti di guerra. L'amministrazione statunitense ha cioè cercato di minimizzare la gravità dei fatti, tant'è che il 4 maggio 2004, durante una conferenza stampa, lo stesso Rumsfeld ha affermato che quanto commesso dai suoi soldati in Iraq rientrerebbe nella categoria degli abusi, e non in quella delle torture.
Poche settimane prima il generale statunitense Antonio Taguba aveva diffuso un rapporto, frutto di un'inchiesta sui luoghi di detenzione nel paese del Golfo, in cui denunciava invece "numerosi casi di sadici, arbitrari e clamorosi abusi criminali". Ma la distinzione formulata da Rumsfeld tra abusi e torture è comunque in contrasto con autorevoli pronunciamenti formulati in varie parti del mondo. Il comitato di esperti istituito ai sensi della Convenzione ONU contro la tortura, ratificata anche dagli USA, ha definito trattamenti quali il far assumere posizioni dolorose, l'incappucciamento e la privazione del sonno in contrasto con la Convenzione stessa. Nel 1999 l'Alta Corte israeliana, con una sentenza assunta all'unanimità, ha definito 'illegali' proprio pratiche come quelle che il Pentagono ha approvato per i detenuti a Guantánamo e in Iraq. Nel 2002 la stessa Corte Suprema statunitense, nel caso Hope contro Pelzer, relativo a una vicenda di maltrattamenti in un carcere dell'Alabama, ha definito il prolungato incappucciamento cui era stato sottoposto un detenuto una 'ovvia' violazione dell'Ottavo Emendamento della Costituzione.
L'Italia ha ratificato la Convenzione ONU contro la tortura nel gennaio del 1989. L'art. 4 di questo documento impone a ogni Stato che l'abbia sottoscritto di "far sì che tutti gli atti di tortura siano previsti come violazioni della legge penale" e quindi di introdurre nel proprio codice penale uno specifico reato di tortura, cosa che, in oltre quindici anni, il Parlamento italiano non è stato in grado di fare. Alle ripetute sollecitazioni provenienti da organismi internazionali affinché si provvedesse a colmare questa lacuna, i rappresentanti del nostro paese hanno fornito contorte giustificazioni, basate su un paio di argomentazioni. Secondo la prima, la sola ratifica sarebbe già sufficiente a far sì che si possa procedere contro i casi di tortura: ma davvero non è frequente che qualcuno venga accusato di un reato assente dal codice penale solo grazie a una legge che rinvia a una norma internazionale, tant'è che dal 1989 a oggi nel nostro paese non è stato avviato nessun procedimento per tortura. Il secondo tipo di argomentazione trova fondamento nell'ipotesi che l'obbligo sancito dall'art. 4 non sarebbe così stringente, poiché nel codice penale italiano sono già contemplati reati che potrebbero includere i casi di tortura così come sono definiti nell'art. 1 della Convenzione: un'argomentazione contraria allo spirito della Convenzione stessa, che auspica misure straordinarie per contrastare un fenomeno eccezionalmente grave com'è quello della tortura.
Neppure il venire alla luce, nel 1997, di presunte torture inflitte da militari italiani a cittadini somali, nell'ambito della cosiddetta missione Restore hope, è servito a dare impulso all'approvazione della legge. Nei primi mesi del 2004 sembrava finalmente fosse venuta l'occasione adatta, senonché il 22 aprile, con un emendamento presentato dalla Lega Nord, la Camera ha introdotto il concetto di 'reiterazione', secondo cui vi è tortura solo nel caso di ripetizione delle violenze o delle minacce contro la vittima. Al di là del giudizio negativo sull'emendamento - che porterebbe a una definizione della tortura non consistente con quella della Convenzione del 1984 né con nessun altro atto del diritto internazionale - il rischio è che questo 'incidente di percorso', com'è stato chiamato anche da esponenti della maggioranza di governo, interrompa per l'ennesima volta l'iter legislativo per l'introduzione di tale reato nel codice penale italiano.
La mappa della tortura
e il problema dell'impunità
Nel corso del 2003 Amnesty International ha registrato casi di tortura e maltrattamenti in 132 paesi, un dato in aumento rispetto al 2002 quando l'organizzazione aveva riscontrato questo tipo di soprusi in 106 nazioni. Nel quadriennio 1997-2000, complessivamente, i paesi denunciati per tali crimini sono stati 150. Anche se si tratta di statistiche imperfette, basate su ciò che Amnesty International è riuscita a scoprire e non su ciò che effettivamente accade in tutti i paesi del mondo, sembrerebbe che la diffusione della tortura non accenni a diminuire, anzi stia forse aumentando. Ciò si potrebbe spiegare con il fatto che, in nome della sicurezza, dall'11 settembre 2001 i diritti umani sono stati oggetto di sempre minore attenzione.
Le denunce formulate da Amnesty nel 2003 riguardano Stati africani, asiatici, mediorientali, ma anche paesi come Austria, Belgio, Canada, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo, Spagna, Stati Uniti, Svezia, Svizzera. D'altronde, che nelle nazioni a regime democratico la tortura sia del tutto assente è solo una delle false convinzioni diffuse tra l'opinione pubblica. Altrettanto mal riposte sono le presunzioni che i casi registrati siano isolati e vengano sempre severamente puniti. All'indomani della scoperta delle violenze nel carcere di Abu Ghraib, diversi commentatori hanno sostenuto che la democrazia americana saprà dimostrare il suo valore reagendo, facendo luce sino in fondo, punendo i responsabili. Si spera che abbiano ragione, ma sarebbe un esito con pochi precedenti, e non solo negli Stati Uniti. La regola è infatti che la tortura rimanga impunita, anche nei paesi con sistemi giudiziari ben consolidati. Le inchieste sulle presunte torture compiute da militari italiani in Somalia nel 1993 si sono concluse nell'aprile del 2000 con lievi condanne di due soldati, riconosciuti colpevoli unicamente di abuso di autorità. Epilogo simile vi è stato per i maltrattamenti compiuti da militari belgi nella stessa missione: solo un sergente ha subito alcune sanzioni.
L'impunità è spesso avallata dai comportamenti o dalle dichiarazioni di esponenti delle istituzioni. Sempre in Italia autorevoli esponenti di governo hanno più volte stigmatizzato l'operato degli inquirenti che indagano sui presunti maltrattamenti compiuti dalle forze dell'ordine a Genova nel luglio del 2001, in occasione della riunione del G8. Rappresentanti dell'esecutivo hanno anche criticato il fatto che tra i rinviati a giudizio vi fossero più agenti di sicurezza che non dimostranti, come a voler far intendere che la magistratura sia prevenuta nei confronti delle forze dell'ordine e sminuire, di conseguenza, la gravità dei fatti commessi in quei giorni a Genova da alcuni poliziotti e carabinieri. Ma nessuna circostanza può attenuare e meno che mai giustificare le presunte violenze commesse in quei giorni a Genova da alcuni poliziotti e carabinieri.
In generale, le rare volte che le punizioni arrivano si tratta più che altro di provvedimenti amministrativi o, nei casi estremi, dell'espulsione dei colpevoli dalle forze dell'ordine. Le prime condanne di responsabili di torture nel carcere di Abu Ghraib risultano piuttosto lievi, se paragonate alle punizioni che vengono inflitte per esempio per illeciti economici negli stessi Stati Uniti. Ma combattere l'impunità non significa ottenere per i torturatori punizioni estremamente dure o esemplari. Piuttosto si tratta di far luce sulle responsabilità di tutti coloro che sono stati coinvolti nel reato: di chi le torture le ha eseguite, ma anche di chi le ha tollerate o addirittura ordinate. Sarebbe necessario, in altre parole, che in sede di indagine si potesse risalire la scala gerarchica e scardinare quel sistema che consente la pratica della tortura. E forse è anche per questo motivo che, tanto nei paesi in via di sviluppo quanto in quelli più avanzati, i processi istruiti per reati di tortura sono molto rari e, una volta avviati, non riescono a fare molta strada.
Armare i torturatori
Esiste un mercato estremamente florido di attrezzature in dotazione alle forze di sicurezza classificate come 'strumenti per la sicurezza', con effetti 'non letali', ma che in realtà sono ampiamente utilizzati per torture sistematiche. Si tratta di manette, bastoni, apparecchi per elettroshock. Nel 2001 un giornale brasiliano pubblicò un'inchiesta sull'uso di 'bastoni elettrici' in cui veniva riportato anche il parere di un ufficiale di polizia: "il suo pregio principale consiste nel fatto che non lascia segni… è molto efficiente e ci soddisfa molto". Il paese con il maggior numero di aziende che producono bastoni per elettroshock è Taiwan, seguito da Cina, Corea del Sud e Stati Uniti. I cinesi sino a qualche anno fa importavano questi strumenti soprattutto dalla Gran Bretagna - che glieli vendeva ufficialmente come 'pungoli per bestiame' - poi hanno iniziato a produrseli in proprio. Palden Gyatso, un monaco tibetano detenuto per oltre trent'anni dall'esercito cinese, quando è riuscito a fuggire ha avuto la prontezza di spirito di corrompere una guardia e farsi lasciare gli strumenti con cui è stato torturato, incluso un bastone elettrico che gli è stato più volte infilato in bocca. Oggi Gyatso è senza denti e riesce a percepire solo sapori particolarmente forti.
Nei 25 Stati presenti nell'Unione Europea Amnesty International ha rilevato 572 imprese che producono o gestiscono la vendita di apparecchi per elettroshock, 311 delle quali in Germania e 81 nella Repubblica Ceca. Dati ufficiali sull'esportazione di questi strumenti vengono pubblicati molto raramente. Il governo degli Stati Uniti ha in tempi recenti favorito una maggiore trasparenza su questo tipo di commercio, grazie alla quale si è scoperto che nel 2002 bastoni elettrici americani sono stati venduti a 12 paesi in cui la tortura è diffusa e persistente e la situazione dei diritti umani è criticata dallo stesso Dipartimento di Stato USA: Arabia Saudita, Bangladesh, Brasile, Ecuador, Ghana, Honduras, India, Giordania, Libano, Messico, Sudafrica e Venezuela.
Curare le vittime
Racconta un cardiologo di Roma che qualche anno fa, mentre stava eseguendo un normale elettrocardiogramma, ha visto il suo paziente alzarsi di scatto e strapparsi i fili e gli elettrodi dal corpo. Qualche giorno dopo fu testimone di una scena analoga. Le persone in questione erano due curdi ed entrambi erano stati torturati con la corrente elettrica dalle forze di sicurezza turche: il solo fatto di avere addosso fili collegati a un apparecchio elettronico era per loro intollerabile. La tortura lascia sulle vittime dei segni profondi, nel fisico e nella psiche. L'associazione romana Medici contro la tortura nel triennio 1999-2001 ha assistito circa 470 persone che hanno subito sevizie nei loro paesi. Su molte di esse ha riscontrato invalidità fisiche causate da percosse che impediscono loro di camminare regolarmente, di usare in modo corretto un arto, ma ha anche rilevato disagi come cefalea cronica e insonnia. Spesso i medici hanno avuto a che fare con personalità disturbate, dagli atteggiamenti scostanti e aggressivi.
La tortura - spiegano i dottori specializzati in questo settore - è una forma di violenza 'incomunicabile', che il subconscio fatica a elaborare razionalmente, e non è pertanto confrontabile con alcuna esperienza traumatica. Chi l'ha subita fatica a parlarne e ciò rende i procedimenti di cura particolarmente complessi e delicati. Il primo compito del medico è dunque quello di riuscire a diminuire la distanza che lo separa dal suo paziente-vittima, e ciò può avvenire solo grazie a un lungo e lento lavoro a cavallo tra l'intervento sul fisico e l'assistenza psicologica, ma soprattutto tramite una grande attenzione, sensibilità, pazienza, perseveranza.
Gina Gatti, torturata nel 1976 in Cile sotto la dittatura di Pinochet, racconta che, tornata nella casa della sua famiglia dopo mesi di detenzione e sevizie, si sentiva invasa da una paura indifferenziata verso tutto e tutti, usciva poco, era diventata una persona molto diversa da quella che era prima della tortura.
Il suo recupero fu un faticoso cammino, portato avanti anche con l'aiuto di un'analista, in cui faceva due passi avanti e dieci indietro, salvo constatare, con il passare del tempo, che i due passi in avanti si consolidavano. Gina ricorda che durante una seduta di tortura le fu infilato in bocca uno straccio sporco affinché smettesse di urlare, un ulteriore sopruso a cui associa un forte valore simbolico: in quel momento i suoi carnefici le misero un tappo che le impedì di parlare per molto tempo, anche dopo che fu liberata. Quel tappo riuscì a toglierselo solo dopo vent'anni, parlando di fronte a un gruppo di ragazzi di Catania. Gina Gatti è ora un'eccezionale testimonial di Amnesty International e ha contribuito in particolare nella campagna Non sopportiamo la tortura che l'organizzazione per i diritti umani ha lanciato nel 2000.
Per sconfiggere la tortura
Molte vittime di tortura hanno dichiarato che al pari del dolore pativano il sentirsi in balia dei propri carnefici, senza possibilità di contatto con parenti, amici, avvocati. La detenzione in incommunicado, vale a dire quel tipo di isolamento che impedisce ogni contatto con l'esterno, è da condannare sempre e comunque. I luoghi di detenzione devono sempre essere trasparenti e aperti a varie forme di controllo. In tal senso va sostenuto l'operato di un organismo come il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene e trattamenti disumani e degradanti. Si tratta di un gruppo di esperti istituito nel 1987 con il potere di compiere ispezioni, anche a sorpresa, in tutti i luoghi di detenzione dei paesi che hanno ratificato la Convenzione contro la tortura approvata dal Consiglio d'Europa nello stesso anno. Il lavoro di questi ispettori si è rivelato estremamente importante, con risultati concreti in tanti paesi, inclusa la Turchia dove la tortura è una piaga molto estesa. Ma la loro azione va resa nota al pubblico, e in ciò è coinvolta una grande responsabilità dei mezzi di informazione.
In secondo luogo occorre contrastare l'impunità che viene sistematicamente garantita ai torturatori, si tratti degli esecutori così come dei loro responsabili gerarchici. Il ruolo principale, in questo caso, lo giocano le istituzioni, in primo luogo parlamenti e governi, i quali devono onorare gli impegni assunti ratificando atti internazionali che impongono un'azione decisa per punire i responsabili di torture. Ma perché ciò accada i cittadini devono fare pressione sui propri rappresentanti affinché rispettino i patti che sono stati sottoscritti.
Infine è necessario operare in chiave preventiva. Come dimostrato dall'esperimento di Milgram, tutti siamo potenziali torturatori. Illuderci che la nostra cultura e la nostra fede nei principi dei diritti umani ci impediscano di essere complici - seppure in maniera indiretta - del crimine di tortura sarebbe un grave errore. Il momento storico che stiamo vivendo deve indurci a una grande attenzione. In risposta agli attentati dell'11 settembre 2001 si sta diffondendo l'idea che certe limitazioni delle libertà fondamentali siano tollerabili, addirittura indispensabili quando si tratta di garantire la sicurezza. Non è così: la tortura e i maltrattamenti verificatisi ad Abu Ghraib e Guantánamo sono l'ulteriore riprova di come le violazioni dei diritti umani generino sempre ulteriore violenza e insicurezza. Bisogna porre un freno a questa deriva, con l'azione di denuncia ma anche con iniziative destinate a incidere più in profondità, come l'educazione ai diritti umani, da rivolgere innanzitutto alle scuole e più in generale a tutti i giovani.
Tortura e normativa internazionale
La pratica della tortura giudiziaria è stata considerata legale sino alla seconda metà circa del 18° secolo, nonostante le molte contestazioni a proposito della sua legittimità morale e della sua validità funzionale. La sua condanna formale è stata recepita nel diritto internazionale alla metà del 20° secolo.
L'art. 5 della Dichiarazione universale dei diritti umani, approvata dalle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, dichiara che "nessuno sarà sottoposto a tortura, pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti". Da allora sono stati elaborati, da parte sia dell'ONU sia di altri organismi governativi internazionali, numerosi importanti documenti in cui si proibisce la pratica della tortura, considerata grave violazione dei diritti all'integrità fisica e alla dignità di ogni essere umano, a prescindere dalla sua condizione e dai reati di cui può essersi macchiato. Si possono ricordare il Patto internazionale sui diritti civili e politici (ONU, 1966), la Carta africana dei diritti umani dei popoli (Organizzazione per l'unità africana, 1981), la Convenzione interamericana per la prevenzione e la punizione della tortura (Organizzazione degli Stati americani, 1985), la Convenzione europea per la prevenzione della tortura e dei trattamenti o punizioni inumani o degradanti (Consiglio d'Europa, 1987). Gli atti del diritto internazionale sanciscono l'inammissibilità della tortura anche nei casi estremi: le Convenzioni di Ginevra del 1949, che costituiscono la base del diritto umanitario in condizioni di guerra e conflitti armati, proibiscono categoricamente il maltrattamento di prigionieri militari e civili.
Ma è soprattutto la Convenzione contro la tortura e ogni altro trattamento o punizione crudele, inumano o degradante, approvata nel 1984 dalle Nazioni Unite, a vietare in termini assoluti lo strumento della tortura a tutti gli Stati membri, i quali vengono espressamente esortati a intraprendere qualsiasi azione di tipo legislativo, amministrativo, giudiziale o altro che possa essere diretta allo scopo di prevenirne l'uso in tutti i territori sotto la loro giurisdizione. Nessuna circostanza, quale essa sia, che si tratti di stato o di minaccia di guerra, di instabilità politica interna o di qualsiasi altra situazione eccezionale, può essere invocata per giustificare la tortura, né si può addurre a giustificazione del ricorso a essa l'ordine ricevuto da un superiore, sia che agisca individualmente sia nell'esercizio della sua funzione.
Storia della tortura giudiziaria
Il termine tortura (dal latino tardo tortura, derivato di torquere) dal significato generico di "torcimento" è passato a indicare l'azione di torcere le membra e poi qualsiasi forma di coercizione fisica applicata a un imputato, più di rado a un testimone o ad altro soggetto processuale, allo scopo di estorcergli una confessione o altra dichiarazione altrimenti non ottenibile.
È difficile rintracciare l'origine storica di tale pratica, la cui radice ultima può considerarsi etico-pedagogica: il tormentare per conoscere la verità implica un rapporto tra la verità intesa come bene e la menzogna ritenuta di per sé un male. Tale tensione etica rendeva plausibile, nel diritto greco e romano che la codificarono, l'interpretazione della tortura come atto praticato anche pro reo: si partiva cioè dal principio che, in mancanza di chiare prove, la forza d'animo dimostrata dall'imputato nel sostenere la sofferenza pur di far trionfare la verità fosse, essa stessa, una prova. I più la consideravano tuttavia uno strumento poco attendibile. Aristotele, nella Retorica, osservava che alcuni sono capaci di resistere ai tormenti più atroci senza aprire bocca, mentre altri confessano qualsiasi cosa, vera e non vera, pur di non subire torture.
I romani per lungo tempo considerarono la tortura estranea alla loro mentalità. Dato il suo carattere non solo doloroso ma anche umiliante, la pratica poteva essere applicata solo a soggetti non liberi. Gli schiavi venivano tormentati al posto dei loro padroni, che in qualità di cittadini romani non potevano essere sottoposti alla quaestio. Naturalmente non destava grandi emozioni che uno schiavo venisse torturato, ma ci si chiedeva piuttosto in quali circostanze questo diritto potesse essere applicato. Per esempio, Augusto ordinò che i processi non dovessero mai cominciare dalla tortura e che questa dovesse essere accompagnata da altre prove (argumenta).
All'epoca del principato, inizialmente soprattutto per i più gravi reati di carattere politico, l'uso della tortura iniziò a essere esteso ai cittadini liberi, seppure fra incertezze e contrasti. Risale forse a Marco Aurelio l'istituzione del privilegio in favore degli eminentissimi e dei perfectissimi, dichiarati esenti dalla tortura, privilegio che fu poi riservato anche ai decurioni, alla classe senatoria nonché ai milites, ai veterani e ai loro figli. L'uso della tortura fu applicato con particolare accanimento ai rei di lesa maestà, agli operatori di magie ritenuti humani generis inimici e ai rei di falso, per i quali anzi cadeva ogni privilegium dignitatis. Con il passare del tempo l'uso della tortura venne esteso anche ai testimoni vacillanti o, comunque, sospettati di reticenza, sebbene in misura più ristretta a eccezione, sempre, dei processi di lesa maestà. La legislazione imperiale conobbe in realtà fasi differenti riguardo alla pratica della tortura, che comunque non andò mai esente da forti perplessità. Il giurista Ulpiano ne dava un giudizio molto critico sottolineando, come aveva già fatto Aristotele, che "molti difatti riescono a sopportare i tormenti grazie alla loro forza d'animo o alla loro robustezza fisiologica, in tal modo che non c'è verso d'estorcere loro la verità; altri, al contrario, temono la sofferenza al punto tale da esser pronti anche a mentire pur d'evitarla".
Durante l'Alto Medioevo, la tortura fu in genere sostituita dall'ordalia, che con essa aveva in comune la concezione del rapporto tra coscienza soggettiva d'innocenza (o di colpevolezza) e capacità di sopportare prove e sofferenze. Iniziò a essere nuovamente praticata a partire dalla fine del 12° secolo o dai primi del 13°, quando l'Europa occidentale, attraverso la diffusione universitaria del corpus iuris giustinianeo, tornò al diritto romano. Ammesso fin dai primi del Duecento in numerosi esempi di procedura giuridica laica, l'interrogatorio sotto tortura è menzionato con certezza e chiarezza per la prima volta nel veronese Liber iuris civilis (1228). Esso fu legittimato per quel che concerneva i processi inquisitoriali nella bolla Ad exstirpanda (15 maggio 1252) del famoso canonista Sinibaldo de' Fieschi, papa con il nome d'Innocenzo IV. Sette anni dopo, Alessandro IV ratificò la decisione del suo predecessore, poi rafforzata altresì da Clemente IV. Papa Alessandro autorizzò anche i religiosi a concedersi reciprocamente l'assoluzione in quei casi in cui il contatto con la tortura comportasse una qualche infrazione dei divieti canonici relativi al principio secondo il quale Ecclesia abhorret a sanguine.
Nel corso del Trecento la tortura fu estesa ad altre, differenti procedure: i giuristi, quali Accursio, Baldo, Bartolo, fornirono tutti, sia pure con accenti diversi, il loro apporto favorevole al radicamento e alla generalizzazione della pratica, che nondimeno fu rigorosamente regolamentata. In particolare, si dovevano evitare sia la mutilazione permanente sia la morte.
Quanto al rilievo mosso ai tribunali inquisitoriali di aver usato sistematicamente la tortura, si può osservare che in ciò essi non facevano altro che seguire la pratica giuridica dell'epoca e avvalersi di infrastrutture poste a loro disposizione dai tribunali laici. Vi sono numerose testimonianze di una forte resistenza da parte degli inquisitori a servirsi dell'extrema ratio, la tortura, cui si ricorreva di solito solo dopo aver provato altre vie, quali, anzitutto, la prigione 'stretta' che prevedeva digiuno e privazione del sonno. A Tolosa, tra il 1309 e il 1323 furono emanate 636 sentenze inquisitoriali, ma la tortura venne utilizzata in una sola occasione; a Valencia, su 2354 processi celebrati tra il 1478 e il 1530, vi si fece ricorso soltanto in 12 casi.
In età tardomedievale e rinascimentale abbondano i trattati sulla tortura, come l'anonimo (forse bolognese) De tormentis e il De indiciis et tortura di Francesco Dal Bruno, che si preoccupano di legittimare ma anche di disciplinare la pratica. Già nei giuristi medievali si avvertono molto vivi la preoccupazione per gli abusi e il dubbio sull'efficacia della tortura in rapporto alla fragilità umana e alla paura del dolore. L'intento "d'imporre qualche moderazione ai giudici che incrudeliscono senza misura" è esplicitamente dichiarato da un trattatista del 13° secolo, Guido da Suzzara, citato da Alessandro Manzoni. Nel secolo successivo, il commentatore noto come 'Baldo' applicò a questo argomento le parole di un rescritto di Costantino contro il padrone che uccide il servo: Baldo chiedeva la decapitazione del giudice nel caso il colpevole morisse durante le torture.
La Constitutio criminalis carolina, emanata dall'imperatore Carlo V nel 1532, costituì un punto fermo nella storia dell'adozione della tortura nell'Europa moderna: nel momento stesso in cui ne confermava legittimità e validità, il legislatore imperiale sottolineava la necessità dell'osservanza scrupolosa di precise regole procedurali, pena l'ottenimento di un risultato opposto rispetto a quello voluto. La tortura era esercitata in materia civile a fini probatori, ma soprattutto mirava a rendere più certe le sentenze nei processi criminali, durante i quali a essa potevano essere sottoposti sia gli imputati sia i testimoni poco attendibili o reticenti: il suo uso era tuttavia subordinato alla certezza che altri mezzi probatori fossero inapplicabili o inefficaci o insufficienti. Tanto nei processi civili quanto in quelli inquisitoriali, la tortura era raccomandata nei casi in cui l'imputato si ostinasse a negare la sua colpa ma non fosse in grado di dimostrare con prove o argomentazioni la sua innocenza; o quando, pur avendo egli ammesso la colpa, vi fossero concreti e fondati motivi per ritenere che la sua confessione non fosse completa. Naturalmente erano previste categorie di persone nei confronti delle quali la tortura era inapplicabile: o per la qualità del loro stato, che rendeva inutile la tortura dal momento che la loro parola doveva essere considerata un pegno di publica fides (i nobili, i militari, gli insigniti di dignità cavalleresche), o per la loro qualità di soggetti a un foro speciale (i chierici), o per la debolezza della loro condizione fisiologica e psicologica (i bambini, i vecchi, le gravide, le puerpere); ma la procedura inquisitoriale poteva introdurre al riguardo qualche deroga. Chi allegasse attestati di malattie o difetti che gli impedivano di sopportare la tortura aveva il diritto di essere visitato da un medico.
La tortura poteva essere applicata solo sulla base di una preliminare sentenza, rispetto alla quale l'imputato poteva appellarsi: se e quando possibile, si tendeva a far sì che la sola paura della sofferenza bastasse a far confessare la verità. L'esecuzione della sentenza era infatti preceduta dalla territio verbalis, vale a dire dall'ammonizione del giudice, e quindi dalla territio realis: l'imputato era condotto nella stanza dei tormenti perché avesse un'idea della sorte che gli spettava. Riusciti vani questi due tentativi, la tortura veniva applicata per gradi secondo precise prescrizioni della sentenza, alla presenza di un giudice, del cancelliere e di un medico. All'applicazione della tortura, che doveva essere eseguita secondo i limiti, nei modi e nei tempi sanciti nella sentenza, dovevano assistere i giudici inquisitoriali (quindi il vescovo ordinario del luogo nel quale l'imputato era stato arrestato e l'inquisitore) o i loro vicari ufficiali. La tortura poteva essere ripetuta, ma solo dopo un attento esame dei singoli casi, seguito da matura riflessione.
Sistemi e mezzi di tortura variavano in relazione alle consuetudini locali: nel corso dei secoli 17° e 18° si tese a disciplinare anche quelli secondo le varie normative statali. I più comuni erano i 'tratti di corda' (l'inquisito, con le mani legate dietro la schiena, veniva sollevato più volte in aria per mezzo d'un sistema di carrucole e quindi lasciato cadere), il 'cavalletto' (un ordigno sul quale si stiravano le membra del torturato), il 'fuoco' (si ungevano i piedi del torturato per avvicinarli poi a una fonte di calore), la 'stanghetta' (un sistema di contenzione che comprimeva polsi e caviglie), le 'cannette' (si stringevano con appositi strumenti le dita giunte del tormentato), la 'veglia' (s'impediva al torturato, legato a un sedile, di addormentarsi per un periodo che poteva arrivare a quasi due giorni), la 'bacchetta' (uno staffile che si poteva usare anche nei confronti dei minorenni, non però prima del nono anno d'età). Il testimone che avesse resistito al dolore senza ritrattare era considerato veridico; l'imputato che vi avesse resistito senza confessare era dichiarato innocente. I notai erano chiamati a registrare con precisione carattere e durata dei singoli tipi di tortura; dopo la quale, si chiedeva all'imputato confesso di confermare la sua confessione, nel qual caso si parlava di confessione spontanea.
Motivi morali, ragioni pratiche ed esigenze di buon gusto convergevano in una contestazione serrata dell'assurdità del meccanismo fondato sulla tortura, come si vede nella commedia I litiganti di Jean Racine (1668). Contro la tortura si schierò Ludovico Antonio Muratori nello scritto Della pubblica felicità (1749): ormai la 'civiltà dei Lumi' condannava una pratica che appariva funzionale a un potere tirannico e opposta alla dignità dell'uomo. Così, attraverso la penna di Denis Diderot, si esprimeva l'Encyclopédie che stabiliva un nesso forte e diretto tra tirannia, disprezzo delle leggi e crudeltà.
Sotto l'impulso delle opinioni degli intellettuali, alcuni sovrani illuminati abolirono l'uso della tortura, nonostante gli allarmi delle magistrature: per esempio il giudice Gabriele Verri di Milano (padre di Pietro, futuro abolizionista) inviò il 19 aprile 1776 una consulta negativa a Maria Teresa d'Austria, che era tra i regnanti favorevoli all'abolizione. Il primo a eliminare la tortura dal novero delle pratiche giudiziarie fu Federico II re di Prussia tra il 1740 e il 1754. Alle sue scelte si adeguarono abbastanza rapidamente tutti gli Stati europei; l'ultima ad allinearsi fu la Francia di Luigi XVI.
In Italia un contributo decisivo all'abolizione provenne dal trattato Dei delitti e delle pene del filosofo giurista Cesare Beccaria, scritto fra il 1763 e il 1764 e pubblicato in quell'anno a Livorno. Nell'ambito di un più ampio discorso filosofico e giuridico, la tortura veniva condannata da Beccaria come residuo di barbarie del tutto inadeguata a contribuire alla ricerca della verità. Gli argomenti addotti dall'autore sono simili a quelli che ancora oggi vengono ripetuti contro la prosecuzione di pene capitali e di torture: se il compito della giustizia è di punire chi commette ingiustizia, la tortura fa l'esatto opposto perché colpisce tanto i criminali quanto gli innocenti, cercando di costringere questi ultimi ad ammettere atti da loro non compiuti; la tortura è inoltre ingiustificata perché si applica ancor prima della condanna; l'innocente assolto dopo la tortura ha comunque subito un'ingiustizia. Lo scritto di Beccaria ebbe uno straordinario successo: fu commentato da Diderot e da Voltaire, conosciuto e ammirato da Paul Henri Dietrich d'Holbach e più tardi da Georg Wilhelm Friedrich Hegel, preso a modello nel saggio Osservazioni sulla tortura (composto nel 1777 e pubblicato postumo nel 1804) di Pietro Verri e richiamato da Alessandro Manzoni nella Storia della colonna infame (1842). Alla base delle Osservazioni di Verri sono i verbali di un processo seicentesco contro il barbiere Gian Giacomo Mora e l'ufficiale sanitario Guglielmo Piazza, condannati dopo aver ammesso, sotto tortura, di aver propagato la peste mediante unzioni venefiche per le strade di Milano. La tesi centrale del saggio è che il ricorso ai tormenti sia fisici sia morali non solo è ingiusto e disumano, ma anche inutile. La lettura degli atti processuali, infatti, porta alla luce l'incredibile vortice di accuse reciproche, pentimenti e delazioni, anche oltre la più sfrenata immaginazione, al solo scopo di allontanare il terrore del supplizio e nella speranza di salvare sé stessi accusando altri. La stessa vicenda giudiziaria è ripresa, con i medesimi intenti ma con mezzi diversi, da Manzoni, che si concentra su una serie di riferimenti storici, citando fonti romane o medievali sia favorevoli sia contrarie alla tortura.
Dopo l'abolizione definitiva in età napoleonica, a parte qualche timida ripresa durante la Restaurazione, la pratica della tortura giudiziaria venne del tutto abbandonata nei paesi europei a partire dal 19° secolo.
Riferimenti bibliografici
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M. Bowden, The dark art of interrogation, "The Atlantic Monthly", ottobre 2003 (trad. it. Con la forza e con il terrore, "Internazionale", nr. 512, 15 ottobre 2003).
B. Solet, Tortura. Testimoni contro il silenzio, Torino, Ega, 1999.