Totalitarismo. Un problema storiografico
Il tema, le idee e la prassi relativi al totalitarismo riguardano un preciso periodo storico, quello che va dalla fine della Prima guerra mondiale (1914-18) alla caduta del muro di Berlino (1989) e all’immediatamente successivo crollo dei regimi comunisti nell’Europa orientale. Si tratta, in sostanza, di quello che lo storico inglese E.J.E. Hobsbawm ha, con formula fortunata, definito il «secolo breve». Per totalitarismo si è inteso, in quel periodo storico, un regime politico autoritario e di tipo fortemente pervasivo, tendente cioè a investire con i suoi principi e dettami la vita economica, sociale e culturale di un Paese quasi in ogni suo aspetto (donde il richiamo alla totalità), e caratterizzato quindi da una connotazione ideologica della politica addirittura concorrente con la forza delle convinzioni religiose. Prassi e teorie del totalitarismo si accompagnano al diffondersi della percezione della società moderna, industrializzata e ad alto rapporto di comunicazione interna, come «società di massa», nella quale modi di vivere e di ragionare tendono alla standardizzazione.
Il richiamo alla totalità, nel senso sopra indicato di pervasività ideologica della politica, ebbe inizio in Italia negli anni Venti del sec. 20° per iniziativa di Mussolini, nel quadro del progressivo consolidamento del regime fascista imposto dal «duce» dopo il colpo di Stato della marcia su Roma (ottobre 1922). La formula fu successivamente ripresa come positiva, in senso dottrinario, dagli ideologi del fascismo come il filosofo Giovanni Gentile, e, in senso negativo, in quanto opposta al pluralismo delle scelte politiche, sociali e culturali, da parte di liberali e democratici antifascisti, come i collaboratori della rivista di P. Gobetti, «Rivoluzione Liberale». Successivamente, col diffondersi di simili sistemi politici in altri Paesi, il termine «totalitarismo» si venne affermando nella scienza politica.
Il fascismo italiano articolò per primo, in Europa e nel mondo, uno Stato definibile come «totalitario», contrassegnato da un partito unico, da un forte intervento pubblico in economia, da un’estesa legislazione sociale, da un intervento diffuso nei principi educativi della scuola nonché da crescenti forme di mobilitazione sociale: raduni periodici,; parate e adunate paramilitari, generalmente orientate o contro uno spirito lassista o contro un nemico da combattere. La mobilitazione sociale tendeva a coinvolgere la gioventù sin dalla più tenera età e faceva largo uso di divise, bandiere, parole d’ordine e icone. Il clima di questi raduni era scandito inoltre da forme militaresche di sonorità e da discorsi retorici e altisonanti, potenziati dagli altoparlanti la cui amplificazione appunto allora, a partire dagli anni Venti, prendeva tecnologicamente ad affermarsi. Contemporaneamente il pressoché parallelo fenomeno della diffusione del documentario cinematografico permetteva di riprodurre e diffondere nelle sale di tutto il territorio del Paese i discorsi del «capo» e dei suoi gerarchi e le grandi manifestazioni che a questi facevano da cornice. Questa martellante presenza propagandistica venne ulteriormente potenziata dall’introduzione e diffusione delle trasmissioni radiofoniche, che agivano sia nel privato sia in spazi pubblici appositamente inondati.
Se l’Italia ha una precedenza storica nell’affermazione della formula «totalitarismo» e delle sue espressioni, non è in questo Paese tuttavia che il fenomeno trovò le sue manifestazioni più intense o estreme. Da un lato si deve ricordare che nel 1917 si era verificata, nella Russia zarista, una rivoluzione con forte orientamento ideologico: il progetto di questa, però, non si presentava come autoritario, se non transitoriamente, e si dichiarava piuttosto come un regime articolato in «consigli» di base (soviet) che avrebbero dovuto governare, democraticamente, la società a tutti i livelli, a partire dalle strutture economiche elementari e dai più semplici aggregati territoriali. Il regime russo si autodefiniva «dittatura del proletariato», ma questa era un’espressione d’intento solo metaforico, volta a indicare la preminenza liberatoria della classe sociale che, da classe più numerosa, diveniva, attraverso la rivoluzione, classe sociale unica e universale. Quasi immediatamente, però, questa formula si rivelò l’ingannevole maschera di una dittatura personale sul proletariato stesso e di un regime burocratico, militaresco e terroristico di élite. Con l’affermarsi di questa realtà diversa dalle intenzioni originarie, si vennero così manifestando, nel regime creato dalla Rivoluzione russa, caratteristiche proprie di un regime totalitario.
L’esempio del totalitarismo propriamente fascista fu seguito con varia intensità e misura, nel ventennio fra le due guerre mondiali, in diversi Stati europei.
Il Paese, però, dove le idee e la prassi del fascismo italiano trovarono più esplicita adesione, in forme addirittura potenziate e perfezionate, fu la Germania. In questo Paese si formò, negli anni successivi alla Prima guerra mondiale, e nel clima della sconfitta e della grave crisi economico-sociale da questa provocata, un movimento politico nel quale si fondevano idee di rivincita militare e proponimenti di militarizzazione integrale della società. Fu un caporale austriaco di nome A. Hitler a fondare questo movimento e a chiamarlo «nazionalsocialismo» (definito in seguito, più brevemente, «nazismo»). Il nazismo giunse al potere in Germania solo nel 1933, dopo una pluriennale campagna antiliberale e antidemocratica e con un preciso programma esplicitamente militarista e bellicista. Carattere peculiare della mobilitazione sociale promossa dal nazismo è appunto una forte accentuazione delle finalità dichiaratamente guerrafondaie: la totalità ideologica che il nazismo tende a imporre è territorialmente espansiva, ha una marcata connotazione razziale (esaltazione della razza ariana e persecuzione degli ebrei) e si esprime in una drammatica pratica persecutoria, attraverso l’istituzione di campi di concentramento e di sterminio, nei quali vengono rinchiusi ed eliminati sistematicamente ebrei ed avversari del regime. La Seconda guerra mondiale (1939-45) fu l’effetto esplosivo e catastrofico del nazismo: l’intera Europa fu invasa dall’esercito tedesco e assoggettata all’oppressione nazista e ai suoi metodi. La sconfitta tedesca nella quale quella guerra si concluse venne assunta dai vincitori alleati democratici non solo e non tanto come semplice vittoria militare, ma come espressione e simbolo di una liberazione ideologica del mondo contemporaneo dalla minaccia del totalitarismo. Di contro venivano esaltati, come valori universalistici, la libertà, la legalità e i sistemi politici democratico-parlamentari.
La fine della Seconda guerra mondiale segna però la conclusione soltanto del primo periodo della storia del totalitarismo nel «secolo breve». Tra i Paesi vincitori della Seconda guerra mondiale c’era infatti anche la Russia sovietica, non definibile certamente, come si è visto, un sistema politico democratico-parlamentare. La Russia, invasa dall’esercito nazista nel 1943, era infatti riuscita a respingere l’invasore, finendo addirittura con l’occupare militarmente tutti i Paesi dell’Europa orientale e una parte della stessa Germania: territori questi nei quali aveva successivamente imposto, a sua volta, regimi ispirati al proprio modello politico. Per poco meno di mezzo secolo dunque (fino alla caduta del muro di Berlino), una gran parte dell’Europa venne a trovarsi così sotto regimi politici di tipo autoritario, caratterizzati da una rigida connotazione ideologica. Contemporaneamente anche fuori d’Europa si faceva sentire l’influenza del successo militare e politico russo-sovietico: in particolare in Asia (Cina, Vietnam), in contesti geografici, sociali e culturali piuttosto diversi, movimenti rivoluzionari edificarono società ispirate al modello comunista russo.
Il mondo si divise così sostanzialmente in due blocchi: quello occidentale e democratico, guidato dagli Stati Uniti d’America, e quello al cui centro era la Russia sovietica, cui spesso guardavano con simpatia i Paesi di vari continenti, che uscivano dal colonialismo e cercavano vie autonome di sviluppo. Il clima politico dei rapporti tra i due blocchi era di ostilità e di riarmo, ma la tensione fra le parti era tenuta sotto controllo dal timore di una terribile guerra atomica: ecco perché lo si definì «Guerra fredda».
È proprio in questo periodo che si ebbe, nel mondo della cultura occidentale, la maggiore diffusione di riflessioni e studi sulla forma politica definita totalitarismo. Ed è soprattutto in questo periodo che si affermò la tendenza, pour cause, a sottolineare una stretta affinità tra i regimi comunisti e i regimi fascisti e nazisti (ovviamente negata, per contro, dalla cultura favorevole al comunismo sovietico). La differenza maggiore e che non può essere negata tra i due tipi di regime sta nella persistenza o all’opposto nella soppressione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Ma questa differenza fra nazifascismo e comunismo viene considerata da parte degli studiosi democratici del fenomeno soltanto una distinzione di forme all’interno di strutture definibili comunque come totalitarie, poiché si tende a far prevalere nel giudizio la valutazione dei tratti politici del fenomeno, e cioè il fortissimo autoritarismo dei regimi stessi, la pervasività ideologica del sistema, la limitazione dei diritti personali, il terrorismo di Stato nonché, similarità tra le più impressionanti, quello che venne chiamato l’«universo concentrazionario»: l’istituzione dei campi di concentramento e sterminio destinati ai nemici del regime (gulag nell’Unione Sovietica).
Il crollo dei regimi comunisti dell’Europa orientale si verifica alla fine degli anni Ottanta del Novecento a causa di un’insoddisfacente efficienza comparativa nelle economie statalizzate, oltre che per una crescente insofferenza per il totalitarismo negli ambienti culturali, religiosi e sindacali. Dopo il crollo dei regimi comunisti in Russia e nell’Europa orientale, l’unico regime importante di questo tipo che sopravvive nel mondo è quello cinese, il quale introduce però, pur conservando rigide forme di autoritarismo politico, un’amplissima apertura alla proprietà capitalistica dei mezzi di produzione che consente un’elastica e vigorosa crescita economica. Per tale peculiarità risulta quindi problematico attribuire al sistema cinese la definizione di totalitarismo.
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