TRAIANO (M. Ulpius Traianus)
Imperatore romano dalla fine dell'anno 97 all'agosto del 117. Marco Ulpio, Traiano era nato nell'anno 53 nel municipio di Italica nella provincia Baetica (moderna Santiponce presso Siviglia). Il padre di lui, recatosi a Roma sotto Nerone, percorse onoratamente la carriera dei pubblici uffici, giungendo primo della sua famiglia agli onori del consolato, ed essendo successivamente incaricato come pretorio del governo della sua provincia natale, del comando della legione X Fretense con la quale prese parte alla guerra giudaica, e più tardi come consolare dei governi di Siria e d'Asia. Il futuro imperatore, entrato nell'esercito col grado di tribuno, non vi fece la breve apparizione che per lo più solevan farvi i figli dei senatori, ma vi rimase per dieci anni, avendo agio di conoscere intimamente l'esercito e gran parte delle frontiere, e di dar prova di valore, di grande resistenza fisica, e di serie attitudini al comando. Percorse poi i gradi della carriera civile senatoria, e dopo la pretura era in Spagna probabilmente al comando di una legione con la quale con grande prontezza partecipò alla repressione della ribellione di Antonio Saturnino in Germania. Premiato col consolato ordinario nell'anno 91, era, quando Domiziano fu ucciso (18 settembre del 96), governatore della Germania Superiore.
Le direttive di governo di Domiziano tendenti a palese assolutismo ed esercitate con alterigia, con durezza e con sospetto avevano provocato un aspro dissidio col senato, e non pochi senatori avevano pagato con la vita atti di ostilità o di presunta ostilità verso l'imperatore. Il senato, che non era forse del tutto ignaro della preparazione dell'ultima congiura contro l'odiato tiranno, procedette immediatamente alla scelta di un successore, e lo prese tra i suoi membri più autorevoli, più provetti in età, più miti per temperamento e per attività svolte, sì da allontanare quanto più fosse possibile il ricordo del sanguinoso periodo passato. Nerva, il nuovo imperatore, era giurista e poeta e di una famiglia di giuristi, venuta in fama pertanto più negli studî che nelle armi o nell'azione di governo. I senatori che speravano con questa nomina ristabilita la dignità e l'autorità del loro consesso, salutarono l'avvento di Nerva come un segno di ricuperata libertà, ma non mancavano partigiani dei Flavî, gente interessata alla conservazione del precedente stato di cose, soprattutto i soldati e in special modo i pretoriani che non videro volentieri il cambiamento, mentre dalla parte avversa c'era chi voleva stravincere, chi anelava a vendette e a riparazioni. Le difficoltà in breve furono tante e così gravi specialmente per le pretese dei pretoriani di voler le condanne degli uccisori di Domiziano, che Nerva e il senato con lui sentirono di non poter dominare gli avvenimenti. Era necessario esser sostenuti da un uomo forte e integro, non mescolato agli odî e ai rancori della capitale, e che godesse prestigio presso l'elemento militare. La scelta cadde su Traiano che Nerva, in occasione dell'azione di grazia a Giove Capitolino per una vittoria riportata in Pannonia, proclamò di aver adottato quale figlio, dandogli il cognome e la dignità di Cesare e facendogli assegnare la potestà tribunicia. Tre mesi dopo il vecchio Nerva moriva, e automaticamente senza alcun contrasto Traiano assumeva l'impero. Non ritenne necessario venir subito a Roma; lo trattenne il problema della sistemazione della frontiera del Reno al quale egli attendeva con singolare alacrità. Punì in ogni modo i pretoriani, e probabilmente, per tenerli più in rispetto, costituì con elementi tratti dalle ali di cavalleria delle milizie ausiliarie, gli equites singulares Augusti, nuova guardia imperiale anch'essa accasermata in Roma. Al senato inviò dichiarazioni di voler continuare nella politica deferente e amichevole instaurata da Nerva, e soprattutto di non voler punire di morte alcun senatore, promessa che era stata più volte chiesta invano a Domiziano. Continuò poi le sue ispezioni, i suoi lavori di rafforzamento alla linea del Reno, le trattative diplomatiche con i capi germani di oltre confine, opere tutte che ebbero così definitivo successo da consentire notevoli diminuzioni nelle milizie schierate alla frontiera, pur restandone per circa un secolo sicura e tranquilla la situazione. Passò poi alle frontiere danubiane che pure ispezionò e studiò, preoccupandosi specialmente del problema dacico che aveva avuto con Domiziano soluzioni non del tutto onorevoli e rassicuranti per Roma.
Dato così ordine alle due più minacciose frontiere a nord d' Italia, l'imperatore venne a Roma con piccolo seguito e modesto viaggio, conforme all'indole sua semplice e schietta, entrando a piedi in città, solo per l'alta statura distinguendosi tra la folla dei cittadini accorsi a salutarlo. E questa modestia confermò col moderare gli onori offertigli, con la semplicità della sua corte, con la cordiale deferenza verso il senato. Per i primi anni dell'impero di lui siamo più ampiamente informati grazie al panegirico pronunciato nel 102 da Plinio in senato per ringraziare l'imperatore della propria elevazione al consolato. L'attività dell'imperatore fu rivolta ad alleviare alcune imposte (vigesima hereditatium) e a condonare alcuni arretrati, a facilitare la produzione e i commerci sì da ottenere ribasso di prezzi, a procurare denaro non con inasprimento di tasse, ma vendendo largamente quanto per acquisti, confische, doni, legati testamentarî si era venuto accumulando nel patrimonio imperiale. Per tale via egli non solo poteva esser largo verso i contribuenti, ma anche restituiva alla vita quello che la gelosa avidità di un solo mal poteva sottrarre alla negligenza e all'abbandono. La facilità e la sicurezza degli scambî e la previdenza delle tesaurizzazioni fu tale, che è da Plinio ricordato con giusta ammirazione il fatto dei soccorsi di cereali inviati in Egitto un anno che la mancata inondazione del Nilo procurò a quella ricca provincia, abituale fornitrice di Roma, gravissima carestia. Ma la provvidenza più complessa e della quale meglio delle altre possiamo renderci ragione, è quella degli alimenta, ossia della costituzione di una rendita destinata a fornire in Italia i mezzi di sussistenza a fanciulle e fanciulli poveri. Gli scopi che l'istituzione si proponeva erano due: porre qualche rimedio alla diminuzione della popolazione e far rifiorire col prestito agrario a mite interesse le condizioni dell'agricoltura e in special modo la piccola proprietà. Aveva già la nobile bontà di Nerva iniziato provvedimenti del genere che non sappiamo come fossero stati ordinati. Delle provvidenze di Tr. ci informano non solo Plinio e Cassio Dione, ma opere d'arte (plutei del Foro Romano e arco di Benevento), monete e due monumentali iscrizioni trovate a Veleia in provincia di Parma e a Macchia in provincia di Benevento. Da questi documenti apprendiamo che l'imperatore destinava delle somme della cassa imperiale, perché fossero date in prestito a mite interesse a proprietarî terrieri di città italiane. I mutuatarî dovevano far iscrivere nei registri delle città uno o più dei loro fondi come garanzia del prestito. Gl'interessi erano devoluti in favore di fanciulli e fanciulle povere della città. Naturalmente l'istituzione, benché destinata a tutta l'Italia, non poté fondarsi simultanea e contemporanea per tutto il paese, ma successivamente, come le circostanze lo permisero, e come lo consentiva lo svolgersi del lavoro di una speciale commissione incaricata di riferire sulle condizioni delle diverse città (numero di fanciulli bisognosi, valore dei fondi, mezzi dei proprietarî, ecc.). L'iscrizione di Veleia (Corpus Inscr. Lat., XI, 1147) fa memoria di due successive liberalità imperiali, una di settantaduemila sesterzî, l'altra di un milione e quarantaquattromila, con i cui redditi si dovrà provvedere al nutrimento di 298 fanciulli. Nell'altra iscrizione, meno completa, tali indicazioni sono andate perdute. I curatori delle grandi vie imperiali furono incaricati della vigilanza sull'istituzione nelle zone contigue alla rispettiva via, e aggiunsero così al loro titolo quello di praefecti alimentorum. L'esempio imperiale fece sì che analoghe istituzioni sorgessero per opera di privati in più luoghi d'Italia e delle provincie.
Alle medesime tendenze di larghezza e di liberalità si dovettero pure altre misure, meno lodevoli e meno sagge, quelle di distribuzioni straordinarie di doni (congiaria) alla plebe urbana e ai soldati.
Provveduto così al benessere interno dell'impero, più che mai necessario si rendeva assicurare la tranquilla continuazione dell'ordine stabilito e ovviare ai pericoli d'invasioni e di violazione delle frontiere. Il confine danubiano aveva più volte sentito la pressione del potente regno dei Daci, contro i quali era stata poco fortunata l'azione di Domiziano. Le pianeggianti provincie delle due Mesie mal si potevano difendere, quando in mano di energici e ambiziosi vicini era il sistema montuoso incombente della Transilvania. E da poco per opera di un abile e valoroso sovrano, Decebalo, cessate le scissioni tra le tribù daciche, si era ricomposta una vigorosa unità dacica che aveva inflitto gravi e invendicate sconfitte ai generali di Domiziano. Tr. nella sua mentalità e nella sua educazione soldatesca pensava che la miglior difesa fosse prender l'iniziativa delle operazioni offensive, tanto più che la Dacia, regione ricca per agricoltura e per prodotti minerarî, ben avrebbe compensato il rischio e la spesa di una guerra di conquista. Otto legioni nelle tre provincie di Pannonia, di Mesia Superiore, di Mesia Inferiore, vigilavano la linea del Danubio, eccellente linea, se in inverno il Danubio non avesse spesso gelato.
Tr. sin dai primi anni del suo impero aveva provveduto non solo al rafforzamento della linea, ma anche al compimento di una rete stradale che consentisse facili spostamenti e adunate di truppe in quei luoghi che fossero sembrati meglio adatti per un'avanzata. Già nell'anno 100 sulle pareti rocciose di uno dei tratti più angusti del corso del Danubio presso Ogradina, quando il grande fiume attraversa le aspre gole serbo-transilvane, poteva essere iscritta la sobria ma solenne iscrizione (Tabula Traiana) che ancora oggi ricorda l'apertura della via parallela al fiume attraverso l'impervia regione. I lavori di Tr. permettevano finalmente di poter marciare dal Mar Nero alle foci del Reno.
Non sappiamo quale avvenimento sia stato causa immediata dello scoppio delle ostilità. Basterà ricordare, che v'era stato un trattato di pace tra Domiziano e Decebalo, trattato piuttosto umiliante per Roma, e nulla è tanto propizio a far sorgere casi di guerra quanto un trattato di pace, quando una delle parti contraenti non lo trova tollerabile. La prima guerra dacica cominciò nella primavera del 101, come si può indurre da speciali supplicazioni riferite al 25 marzo di quell'anno negli atti dei fratelli Arvali (Corpus. Inscr. Lat., VI, 2074).
Il supremo comando fu assunto dall'imperatore, che si può calcolare abbia adunato un esercito di circa centomila uomini tra legionarî e milizie ausiliarie. La narrazione delle due guerre daciche è nell'epitome di Cassio Dione misera e confusa, e i superbi rilievi della colonna del Foro Traiano, per quanto ispirati a nobilissimo desiderio di verità e di cavalleresco omaggio ai vinti, non possono darci che molto di rado sicurezza d'interpretazione. Sembra che da due punti s'iniziò l'invasione della Dacia, passandosi il fiume a Lederata e a Drobeta (Turnu Severin) dove più tardi fu eretto il grandioso ponte stabile in muratura. Il nemico adottò il partito di ritirarsi da principio per attendere poi i Romani in luoghi aspri e difficili; una battaglia seria e sanguinosa si ebbe nelle gole di Tape, dove negli anni anteriori i Daci avevano sconfitto e ucciso Cornelio Fusco, generale di Domiziano. I rilievi della colonna ci mostrano i Daci valicare non senza perdite e difficoltà un grande fiume e assalire fortezze romane in paese pianeggiante. Sono con loro dei cavalieri Sarmati coperti di armature a squame essi e i loro cavalli. Evidentemente i Daci hanno tentato una diversione attaccando i presidî romani della Mesia inferiore sul Basso Danubio. Tr. raggiunge i luoghi dell'invasione, viaggiando per nave, e sconfigge e volge in fuga i Daci e i loro alleati Sarmati.
La guerra riprende poi sui monti probabilmente nella primavera del 102, si hanno ancora scontri sanguinosi, ai quali può corrispondere la prima delle tre salutazioni imperiali assunte in quell'anno, si ha la chiara raffigurazione di un'azione di avvolgimento che viene compiuta da cavalieri mauri (e in questo le scene della colonna trovano appoggio in una delle rare notizie dateci da Cassio Dione, delle prodezze cioè compiute nella guerra dacica dal principe mauro Lusio Quieto) e finalmente dopo scene di lavori e di ambascerie, due successive battaglie e poi la resa dei Daci dinnanzi a una città che deve essere Sarmizegetusa la capitale dacica, che sappiamo essere stata dai Romani occupata nella prima guerra.
Con questa occupazione terminava nel 102 la prima guerra dacica, e lo scultore della colonna segnava la separazione delle due guerre con una nobile figura di Vittoria intenta a scrivere sul proprio scudo. La pace lasciava in potere dei Romani parte del territorio dacico, e subito dopo la sua conclusione fu sul Danubio gettato il grandioso ponte di pietra di cui restano ancora alcune pile, e che doveva servire allo stabile collegamento delle terre romane delle due sponde. Ma i confini dovevano essere mal definiti, facili le cause di attrito, in nessun modo rassegnato lo spirito indomito del re Decebalo e del popolo suo, e viceversa salda e continua l'opera di penetrazione romana, della quale esprimeva chiaramente il volere l'opera grandiosa, e nel mondo antico tentata forse per la prima volta, dell'immenso ponte sul Danubio, lungo dieci volte e più quelli del Tevere. Questa volta fu forse la barbarica impulsività di Decebalo che diede inizio alla seconda guerra.
Lo svolgimento della seconda guerra è anche più arduo a ricostruirsi di quello della prima. La narrazione dell'epitome di Cassio Dione è più del solito povera e scucita. La campagna si inizia nel 105, e pare si svolga da principio a sud del Danubio, nella Mesia romana, dunque, che i Daci hanno invaso. Le prime scene belliche della seconda serie dei rilievi raffigurano i Daci che assalgono fortezze romane. E a questa prima fase della guerra deve riferirsi l'episodio narrato da Dione della cattura di un importante personaggio romano Longino, col quale Decebalo ha prima delle trattative, e che si lascia poi uccidere in prigionia pur di non pregiudicare la condotta della guerra. Le scene riprodotte in questa seconda parte della colonna si riferiscono più ad opere di pace che ad atti di guerra. L'imperatore riceve ambascerie, dispone lavori, visita città; evidentemente più egli si preoccupa dei vasti problemi dell'ordinamento dell'imminente conquista che non del cozzo delle armi, del cui buon esito è sicuro. Le scene militari si riferiscono specialmente a lunghi lavori d'investimento di una fortezza che finalmente cade. Decebalo però è uscito dalla contesa città, e in aspro paese montano continua la guerriglia o spera di prepararsi alla riscossa. Ma la metodica avanzata romana riduce all'impotenza il re che sul punto di essere raggiunto e preso dalla cavalleria romana si uccide.
Con la morte di Decebalo la guerra è finita, seguono catture di prigionieri, piccoli scontri con nuclei di fuggiaschi, e poi schiere di Romani in abito civile si avanzano, mentre si ritirano innanzi a loro, volgendo indietro dolorosamente il capo a rimirare ancora una volta la patria perduta, torme di Daci con le loro donne, con i bambini, con le loro greggi.
La definitiva vittoria apriva alla civiltà latina un nuovo vasto campo oltre Danubio, e l'azione svolta dal governo imperiale per metterlo in valore fu alacre ed energica quanto mai. Strade, nuove città, larga immigrazione di sudditi dell'impero, rapida e intensa organizzazione di lavoro nei distretti minerarî, lavori di fortificazione alle frontiere, non v'è cosa che non sia stata iniziata subito dopo la conquista. E questo afflusso di energie alla Dacia giovò anche a un più deciso incivilimento della Pannonia, delle due Mesie, della Tracia.
Le stesse tendenze espansionistiche la politica traianea seguì verso la frontiera orientale: nell'anno 100 fu posto definitivamente un termine all'ultimo dei principati giudaici di Palestina, nel 105 fu mossa guerra ai Nabatei, popolo di carovanieri, monopolizzatori del commercio per via terrestre tra la Persia, la Siria e l'Egitto. Il legato Cornelio Palma li vinse, e del loro paese fu costituita la provincia di Arabia che ebbe pure con somma rapidità strade, acquedotti, campi militari, vivo ancora Traiano. E questa energica politica orientale portò poi alla guerra Partica, che fu l'ultima impresa di Traiano troncatagli dalla morte.
Intanto le ricchissime prede riportate dalla Dacia consentirono non solo splendido trionfo, larghi donativi alla plebe urbana, e mostruosi spettacoli gladiatorî e venatorî, le cui cifre spettacolose sono state recentemente confermate da frammenti di annali trovati a Ostia, ma anche grandiosissimi lavori a Roma e in Italia. Roma, oltre un nuovo teatro e un odeion d'incerta collocazione, ebbe restauri al Circo Massimo e al tempio di Venere Genitrice (attestato quest'ultimo dai nuovi frammenti degli Annali ostiensi) ebbe un nuovo acquedotto che, raccogliendo acque del bacino presso il lago di Bracciano, provvedeva largamente specialmente ai bisogni della regione XIV urbana (Trastevere) ed ebbe poi le grandiose Terme chiamate dal nome dell'imperatore, di cui ancora avanzano resti grandiosi sul colle Oppio. Ma l'impresa edilizia più poderosa e più celebrata che Tr. abbia concepita e quasi in tutte le sue parti attuata fu quella del Foro che da lui prese nome, e che costituisce di lui il monumento ancora nelle parti essenziali più vivace e più eloquente. La necessità di ampliare e di dar respiro a quel centro della vita urbana che era l'antico Foro repubblicano, si manifestò incessante con l'aumentare delle fortune di Roma. Eliminata dapprincipio ogni attività mercantile, sostituite alle tabernae veteres e novae le basiliche, si crearono poi a contatto con l'antico altri fori che ne assumessero in parte le funzioni. Si ebbero così successivamente a levante e a nord dell'antico il Foro di Cesare col tempio di Venere Genitrice, quello di Augusto col tempio di Marte Ultore, il Foro della Pace eretto da Vespasiano e Tito dopo il trionfo giudaico, il Foro Transitorio o di Nerva che ricollegava quello di Augusto a quello della Pace. Sembrava non rimanesse più spazio per ulteriori ampliamenti, perché i due colli Quirinale e Capitolino erano assai più raccostati di ora, tanto che le comunicazioni tra la regione dei Fori e il Campo Marzio si svolgevano poco comodamente in una zona angusta e accidentata. Tr. procedette a poderosi tagli specialmente delle pendici del Quirinale, e sulle aree così guadagnate eresse il magnifico suo Foro. Il fatto dell'asportazione di parte del colle, attestato dagli scrittori e in forma non del tutto chiarissima dall'iscrizione posta alla base della Colonna Traiana, era stato posto in dubbio, ma i recenti scavi, ponendo in luce quei singolari Mercati Traianei adattati entro le viscere del colle, hanno dimostrato in modo indubitabile l'esecuzione del taglio. Dal Foro di Augusto si entrava in quello di Tr. attraverso un grande arco trionfale, seguiva poi la vasta piazza rettangolare cinta da portici e con due grandi esedre sui lati verso i colli. Sulla piazza affacciava in tutta la sua lunghezza maggiore la Basilica Ulpia, grande edificio a cinque navate e a due piani. Dietro la basilica procedendo ancora verso settentrione era un'altra area libera di modeste dimensioni, in mezzo alla quale sorse la colonna coclide, contornata da due edifici che contenevano la sezione greca e la latina della Biblioteca Ulpia. Più a nord il superbo complesso di monumenti era chiuso dal tempio eretto da Adriano ai divi suoi genitori adottivi Tr. e Plotina. L'impiego di magnifici marmi colorati e la superba decorazione architettonica, di cui alcuni avanzi sono rimasti, rendeva di portentoso effetto questo grande insieme.
La colonna reca con nuovo esempio rilevati sul fusto in una fascia a spirale gli avvenimenti delle due guerre daciche, costituendo con le sue duemila e cinquecento figure il più vasto rilievo storico che sia stato pensato. Altri grandi rilievi che pure ornavano il Foro furono portati a decorare l'arco di Costantino. I nuovi frammenti di Annali ostiensi assegnano agli anni 112 e 113 la dedicazione della Basilica Ulpia e della colonna coclide.
Dei molti altri lavori pubblici che il gusto munifico di Tr. si compiacque di compiere in Italia e nelle provincie, particolare importanza, perché rivelano una veduta politica ed economica, hanno quelli a favore delle comunicazioni marine. Il porto canale di Ostia era stato da Claudio sostituito con un porto artificiale, creato con sommo ardimento in aperta spiaggia e comunicante col fiume, ma l'ingente lavoro non soddisfece pienamente ai bisogni per gl'interrimenti che una corrente litoranea accumula a nord della foce e per insufficiente difesa contro i venti di tramontana non frequenti, ma, quando arrivano, molto impetuosi. Tr. volle rimediare alle deficienze del porto di Claudio, non come questi aveva fatto, spingendosi con moli e antemurali a chiudere spazio di mare, ma cavando entro terra un vasto bacino esagonale comunicante col porto esterno di Claudio e col fiume (cfr. Lanciani in Annali dell'Ist., 1868. p. 163; Lugli e Filibeck, Il porto di Roma imperiale e l'agro portuense, Roma 1935). Altri grandi lavori portuali si compirono a Centumcellae (Civitavecchia) descritti in una lettera di Plinio (Epist., VI, 31). a Terracina (G. Lugli, Forma Italiae, I), ad Ancona (Corp. Inscr. Lat., IX, 5894).
Vasta fu pure al tempo di Tr. l'opera costruttrice e riparatrice di strade in Italia e in tutte le provincie, a cominciare dall'Appia che ebbe copiosi restauri attestati da iscrizioni e nell'ultimo tratto Benevento-Brindisi correzioni e rifacimenti tali che le fecero assegnare il nuovo nome di Via Traiana (v.).
In capo alla nuova via fu eretto l'arco trionfale di Benevento, esempio forse supremo dell'altezza e della nobiltà dell'arte imperiale.
Sincero e schietto assertore delle tradizioni religiose romane e di quanto in esse era più confacente alle direttive dell'impero, Tr., pur non adottando principî di assoluta intolleranza, contrarî allo spirito latino, verso altre forme religiose, non ammise per esse quelle compiacenti indulgenze che qualche imperatore aveva alle volte avuto per alcune di esse. Egli rappresentò il rigido spirito di conservazione, l'ortodossia severa e pura, la vigilanza incessante che doveva attendersi da chi era investito delle funzioni di pontifex maximus. L'austera tolleranza dovette però dare luogo a più severe misure per due religioni in nessun modo accomodanti, quali la giudaica e la cristiana. I Giudei furono puniti e duramente puniti, non per colpe religiose, ma perché ribelli all'impero. L'irrequietezza e la cupa disperazione del popolo disperso dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme, i contrasti vivaci e continui con i pagani specialmente in Egitto, il risorgere di speranze messianiche più vivaci quanto maggiori erano le sventure di Israele, fecero sì che durante le guerre di Tr. contro i Parti, giunte forse notizie di disastri romani, una furiosa insurrezione giudaica scoppiò in Palestina, in Egitto, a Cipro, in Cirenaica. Ebbri di furore gli Ebrei compirono massacri ferocissimi di Romani e di Greci e distruzioni di strade, di templi, di monumenti. La repressione, nella quale furono adoperate truppe dell'esercito raccolto contro i Parti, e alla quale contribuirono le popolazioni pagane bramose di vendicarsi, prese il carattere atroce di sterminio, e insanguinò gravemente tre fiorenti provincie.
Meno clamorosa e cruenta, ma non meno inflessibile, la lotta contro i cristiani. Il cristianesimo aveva in circa un secolo di vita non solo raggiunto rapida diffusione, ma si era già costituito con certe e stabili forme di ordinamento, e aveva dato contezza di sé con una fioritura di scritti che non permettevano la confusione con altre credenze religiose. L'impero pertanto non poteva più ignorarlo, né considerarlo fenomeno trascurabile e passeggero, o limitarsi, come era avvenuto finora, a prendere contro di esso atteggiamenti ostili (anche barbaramente ostili) solo quando vi era stimolato da spinte estranee di malumore popolare, da sommosse, ecc. L'impero era giunto a tollerare anche il principio monoteistico e perciò la negazione del culto di Roma e d'Augusto, ma lo tollerava se appoggiato a una nazionalità, come il giudaismo. Il cristianesimo non è una nazione, è un impero che vuole estendersi a tutte le genti, e che ha la propaganda come un imperativo categorico, discendente dal fondamentale precetto di amare il prossimo e di procurarne perciò la salvezza. Nessuna intesa, nessuna tregua pertanto pareva per il momento possibile. Della condotta e dello spirito di Tr. verso i cristiani abbiamo prezioso documento nella famosa lettera di Plinio governatore di Bitinia e nella risposta della cancelleria imperiale. Il principio posto da Tr. è in fondo un principio di compromesso, non netto e reciso: i cristiani non debbono essere ricercati, se però siano accusati e si ostinino nel loro errore, siano puniti, evitando in ogni modo di prestare fede alle denunce anonime. Questo principio, che poté portare a far dei martiri sotto l'impero di Tr., durò più o meno inalterato fino alla chiara, decisa, universale deliberazione di ricercare e di punire presa da Decio.
Più che sessantenne, intraprese Tr. la più grande guerra del suo regno, quella contro i Parti. Causa occasionale, come altre volte, il trono d'Armenia. Al governo di quello stato tenuto in piedi proprio allo scopo di creare un intervallo neutro fra le due grandi forze contrastanti di Partia e di Roma, l'uno e l'altro grande impero procurava di tenere persona devota ai proprî interessi. Nel 111 il re parto Cosroe cacciò il re armeno Exedares cliente di Roma, e gli sostituì un proprio nipote. Tr. non lasciò passare l'occasione forse lungamente desiderata. Nel 114 Tr. ricevette tre nuove salutazioni imperiali, indizio di tre riportate vittorie. La sua marcia, infatti, verso l'Armenia ottenne subito il risultato, che il nuovo re si presentasse a Tr. e deponesse ai piedi di lui la corona. L'Armenia fu dichiarata provincia romana, e strette relazioni si stabilirono con le popolazioni del Caucaso, sicché il regno dei Parti veniva ad essere vigorosamente stretto ormai da ponente e da settentrione. Dall'Armenia, l'esercito romano scese poi verso sud e verso levante, riportando brillanti successi debolissimamente contrastati dal re parto.
Nell'inverno del 115, svernando Tr. ad Antiochia, un violentissimo terremoto quasi distrusse la città, e causò grandi perdite di cittadini e di soldati. Si ripresero però le operazioni, e nel 116 l'Assiria, la Babilonia, la capitale stessa del regno partico Ctesifonte caddero in potere dei Romani, e la flotta imperiale discese il Tigri fino al Golfo Persico. Ma le forze dei Parti non erano distrutte; nel 116, con uno di quegl'improvvisi rivolgimenti di fortune che sembrano caratteristici del Levante, un nembo di sciagure si abbatte sui Romani. Si ribellano i Giudei alle spalle dell'esercito operante; nell'immenso paese occupato con forze insufficienti i nemici tornano a mostrarsi con quelle loro improvvise apparizioni di molesti e quasi irraggiungibili arcieri a cavallo; città già occupate si ribellano, e occorre riprenderne le operazioni di assedio. Occorre ripiegare, si rinuncia al disegno di una conquista totale, a Ctesifonte Traiano corona re dei Parti un loro principe Parthamaspates. Le monete che avevano già assunto l'orgogliosa leggenda Parthia capta ne ricevono una più modesta Rex Parthis datus. Città già occupate (Dura Europos tra queste) sono rilasciate (Comptes Rendus de l'Acad. des Inscriptions, 1935, p. 285 segg.), un sovrano liberamente eletto dai Parti scacciava il re cliente di Roma. Occorreva quasi ricominciare. Alla preparazione necessaria attendeva in Siria l'infaticabile vecchio imperatore, quando, caduto malato, lasciava al parente Publio ElioAdriano il comando dell'esercito, e si metteva in viaggio per tornare a Roma. Per via in una piccola cittadina di Cilicia, a Selinunte, quasi improvvisamente la morte lo coglieva. La grande e nobile figura lasciò lunga memoria, i Cesari del Basso Impero eran salutati con l'acclamazione Felicior Augusto, melior Traiano. Una leggenda medievale seguita anche da Dante, narrava che le preghiere di Gregorio Magno avevano ottenuto la salvezza dell'anima di Tr. pur non battezzato.
Bibl.: Le antiche fonti letterarie sono molto scarse e insufficienti. Le più importanti il Panegirico e le Epistole di Plinio. Il racconto più continuato ma oltremodo misero nei riassunti del libro LXVIII della storia di Cassio Dione per opera di Xifilino e di Zonara. Abbondanti le fonti monumentali: epigrafi, papiri, monete, monumenti d'arte figurata.
Di lavori moderni, oltre alle storie generali dell'impero, sono da ricordare: C. De La Berge, Essai sur le règne de Trajan, Parigi 1877; Dierauer, Geschichte Traians, in Büdinger, Untersuchungen zur römischen Kaisergeschichte, Lipsia 1868; R. Paribeni, Optimus Princeps, Messina 1927; Cambridge Ancient History, XI (1936); V. Vaschide, Histoire de la conquête romaine de la Dacie, Parigi 1903; J. Carcopino, Les richesses des Daces et le redressement de l'Empire Romain sous Trajan, in Dacia, I (1924), p. 28 segg. (nuova ed. in Points de vue sur l'impérialisme romain, Parigi 1934, p. 73 segg.); V. Parvan, Getica, Bucarest 1926; C. Cichorius, Die Reliefs der Traianssäule, Berlino 1896-1900; E. Petersen, Traians dakische Kriege, Lipsia 1899-1903; K. Lehmann Hartleben, Die Traianssäule, Berlino 1926; Longden, Notes on the Parthian War of Traian, in Journal of Roman Studies, XXI (1931), pp. 1-36, 131-133; P. L. Strack, Untersuch. zur röm. Reichsprägung des II. Jahrhr., I, Traian, Stoccarda 1931; W. Heichelheim, Ein Beitrag zur röm. Geldegeschichte unter Traian, in Klio, XXV (1932), p. 124; A. Hennemann, Der aüssere und innere Stil in Traians Briefen, Giessen 1935.
Documenti ulteriormente venuti alla luce dopo le più recenti trattazioni monografiche: G. Calza, Notizie scavi, 1932, p. 188; 1935, p. 247 segg.; e in Bollettino dell'Associazione Internaz. di studi mediterranei, III (1932), p. 26; J. Guey, in Comptes Rendus de l'Acad. des Inscriptions, 1934, p. 72; M. Rostovtzeff, ibid., 1935, p. 285 segg.; Th. Wiegand, in Abhandlungen der preuss. Akad. der Wiss., V (1923), p. 39; W. Weber, ibid., p. 57; A. v. Premerstein, in Sitzungsber. der bayer. Akad. der Wiss. (phil.-hist. Klasse), 1934, p. 88; G. De Sanctis, in Rivista di filologia, n. s., XIII (1935), p. 129; H. Broneer, in American Journal of Archaeol., 1933, p. 567; A. Degrassi, I fasti Ostiensi e le guerre daciche di Tr., in Rendic. Pont. Accad. di Archeol., XII (1936).
La fortuna di Traiano.
La leggenda facilmente fiorì intorno a questo imperatore celebrato, oltre che per le virtù militari, per la giustizia, la bontà, la clemenza. Nei suoi elementi essenziali la leggenda era già formata nel sec. VIII o al più nel IX, e si legge nelle biografie di Gregorio Magno scritte da Paolo Diacono e Giovanni Diacono. Poi ebbe determinazioni, sviluppi e incrementi, tenendo conto dei quali, essa può riassumersi come segue.
L'imperatore Tr. moveva, alla testa del suo esercito, per andare a guerreggiare, quando una vecchia vedova, cui era stato ucciso il figlio, si ferma dinnanzi al suo cavallo implorando giustizia. L'imperatore risponde che attenda il suo ritorno, ma la donna insiste e fa tante ragionevoli obiezioni alle intenzioni dilatorie di Tr., che questi, finalmente persuaso, scende da cavallo e compie il dover suo condannando l'uccisore che, secondo una delle redazioni della leggenda, è il figlio dell'imperatore stesso.
Varie sono secondo le varietà delle redazioni, le forme della condanna, e si racconta pure che l'imperatore, accogliendo l'implorazione pietosamente materna della vedova in favore del condannato, avrebbe ceduto a lei il proprio figlio in sostituzione del morto. Questo atto di giustizia commosse il papa Gregorio Magno, il quale, afflitto dal pensiero che un tale uomo, perché pagano, dovesse eternamente essere dannato, pregando con le lagrime, ottenne da Dio (come gli fu rivelato in visione da un angelo) che l'anima di Tr. fosse salva; ma nello stesso tempo ricevette l'ammonimento di non intercedere mai più per un pagano. E intanto, a castigo del suo ardimento, dovette soffrire per tutta la vita dolorose malattie.
L'origine di questa leggenda è oscura. Delle due parti ond'essa si compone, la prima, cioè l'atto di giustizia, era già attribuita, secondo narra Dione Cassio, all'imperatore Adriano, e nel passaggio a Tr. trovò buon sostegno nell'interpretazione di un simbolico bassorilievo del Foro Traiano (secondo altri dell'Arcus Pietatis che era presso il Pantheon), in cui si vedeva l'imperatore a cavallo e dinnanzi inginocchiata una donna, raffigurante una provincia sottomessa implorante pietà. La seconda parte, cioè la salvezza di un pagano per le preghiere, ha riscontro in una leggenda orientale coeva o forse anteriore alla nostra.
La salvezza di Tr. per tutto il Medioevo fu accolta con favore da storici e teologi, i quali ultimi però, osservando il grave contrasto con i dogmi, tentarono di conciliare con essi la leggenda, come fece S. Tommaso, e fece Dante che spiegò la salvezza con quel che "il mondo Veder non può della divina grazia" e accolse l'opinione di coloro che ammettevano un ritorno di Tr. alla vita e la sua novella morte credente e battezzato (Parad., XX, 106-117). Ma più tardi la leggenda fu energicamente respinta, come attestano fra tanti il Baronio e il Bellarmino.
La leggenda è stata più volte narrata in latino e in volgare, e in volgare italiano, talvolta non senza efficacia e colorito poetico, come nella novella 69a del Novellino e nel Fiore dei filosofi; ma Dante toccò il sommo dell'arte in quelle mirabili terzine (Purg., X, 73-93), nelle quali col suo "visibile parlare" cambiò il racconto in una scena viva che il lettore vede per gli occhi di lui. Anche la pittura e la scultura raffigurarono o tutta la leggenda, o singolarmente l'atto di giustizia e la redenzione di Tr.; questa più spesso si trova nei monumenti antichi, quella in opere del Rinascimento, quando molto piacevano le rappresentazioni di soggetto storico. Tra la fine del sec. XV e il principio del XVI in cui fu di moda, nella Germania occidentale e nei Paesi Bassi, decorare le aule dei tribunali con esempî famosi di giustizia, uno di essi era quello di Tr. La venerazione per Tr. ebbe curiosi effetti nel promuovere la tutela della famosa colonna a Roma e dell'Arco Traianeo ad Ancona, gli statuti della quale anzi imponevano che ogni capitano di nave che approdasse in quella città, pagasse un piccolo contributo per la manutenzione del monumento. Passando all'Oriente europeo, dove l'opera militare di Tr. si spiegò largamente, poco vi si raccoglie di elementi leggendarî. Un cronista bizantino del sec. XII ci ha conservato una curiosa tradizione, secondo la quale la ragione per cui Gregorio Magno pregò per la salvezza di Tr., fu l'avere egli fatto costruire a Roma ponti. E non mancano infatti testimonianze sulla benemerenza che la pietà e carità cristiana attribuiva a coloro che promovevano siffatte costruzioni. L'opera militare di Tr. nella Penisola Balcanica ha lasciato ricordi nelle tradizioni popolari dei Romeni, Bulgari, Serbi e anche fra i Russi, dove talvolta è considerato come un dio.
Bibl.: G. Paris, La Légende de Trajan, in Bibliothèque de l'École des Hautes Études, XXXV (1878), pp. 261-303; A. Graf, Roma nella memoria e nell'immaginazione del Medioevo, II, Torino 1883, pp. 1-45; G. Paris, in Journal des savants, dicembre 1884, pp. 571-72; A. Haggerty Krappe, Un parallèle oriental de la Légende de l'Empereur Trajan et du pape Grégoire le Grand, in Le moyen âge, XXXVI (1926), pp. 84-92; M. Barbi, La leggenda di Traiano nei volgarizzamenti del Breviloquium de virtutibus di Fra Giovanni Gallese, Firenze 1895; G. Boni, Leggende, in Nuova Antologia, 1° novembre 1906; id., Un epilogo, ibid., 1° marzo 1907; A. Luzio, Un'opera sconosciuta e perduta del Mantegna, in La lettura, aprile 1907, pp. 302-306.