Trapianto
Accenni al trapianto di organi o di tessuti si ritrovano nella mitologia, nelle leggende dei primissimi secoli dopo Cristo (trapianto di un arto a opera dei santi Cosma e Damiano) e in repertori diversi (innesti di cute menzionati in manoscritti indiani del V sec. d.C.). Nel 1597 Gaspare Tagliacozzo realizzò per primo un autoinnesto di cute e da allora questa metodica si diffuse ampiamente. Nel XVIII sec. J. Hunter coniò il termine 'trapianto'. Nel 1881 W. Macewen realizzò con successo un allotrapianto d'osso. All'odierno impiego del trapianto come alternativa terapeutica efficace in molteplici situazioni altrimenti incompatibili con la sopravvivenza si è giunti progressivamente, grazie all'affinamento delle conoscenze e delle tecniche chirurgiche (suture arteriose: J.B. Murphy, A. Carrel, C.C. Guthrie) e ai numerosi tentativi effettuati sull'animale (il primo a opera di E. Ullman, nel 1902) e sull'uomo. Per quanto riguarda quest'ultimo, nel primo allotrapianto di rene da cadavere (a opera di Y.Y. Voronoij, nel 1933) il ricevente sopravvisse tre giorni; nel 1950 R. Lawler eseguì lo stesso tipo di intervento e la sopravvivenza fu di sette giorni; nel 1951 vennero eseguiti in Francia otto trapianti di rene prelevato da consanguinei viventi; nel 1954 J.E. Murray e collaboratori eseguirono il primo trapianto di rene fra gemelli monocoriali con sopravvivenza di otto anni. Negli anni Cinquanta, Murray mise inoltre a punto la manipolazione del sistema immunitario dei trapiantati renali non consanguinei con il donatore mediante l'irradiazione linfatica totale seguita dal trapianto di midollo. Nel 1963 T.E. Starlz eseguì il primo trapianto di fegato. A coronamento di studi e tentativi effettuati da numerosi ricercatori sin dal 1905, nel 1967 Ch.N. Barnard realizzò il primo trapianto di cuore.
Parallelamente allo sviluppo delle metodiche chirurgiche, si è assistito all'evoluzione di concetti e tecniche essenziali per il successo del trapianto: il rigetto, la sua natura immunologica e i presidi dei quali si può disporre per combatterlo. K. Landsteiner, che nel 1900 scoprì il sistema AB0 dei gruppi sanguigni, dimostrò l'importanza della compatibilità fra donatore e ricevente, fornendo così un importante stimolo alle ricerche successive. Egli illustrò inoltre, nel 1913, l'ipotesi che oltre agli antigeni eritrocitari esistessero antigeni tessutali rilevanti ai fini della compatibilità. Nel 1936 P. Gorer dimostrò nel topo l'esistenza di un gruppo di antigeni, codificati da geni localizzati in un'area cromosomica specifica (il complesso maggiore di istocompatibilità), la cui compatibilità fra donatore e ricevente è fondamentale per l'attecchimento del trapianto di cute. Nel 1944 P.B. Medawar dimostrò sperimentalmente la natura immunologica del rigetto, per i caratteri di specificità e memoria che lo caratterizzano. Nel 1965 il complesso maggiore di istocompatibilità fu descritto anche nell'uomo, da parte di J. Dausset e J.J. van Rood. Nel 1978 J. Borel e R.Y. Calne introdussero nella terapia del trapianto la ciclosporina, che è un farmaco con attività immunosoppressiva che ha aumentato la sopravvivenza dei pazienti trapiantati. Nel complesso, nell'arco degli ultimi quarant'anni del XX sec., i trapianti hanno presentato una progressiva evoluzione, da trattamento sperimentale a terapia d'elezione in presenza di insufficienza cronica terminale di uno o più organi, pur rimanendo ancora in fase di applicazione clinica limitata per quanto riguarda la chirurgia sostitutiva del pancreas e dell'intestino tenue.
Le differenze individuali che sono alla base del fenomeno del rigetto dell'organo trapiantato derivano dal complesso maggiore di istocompatibilità (MHC, Major histocompatibility complex), il quale è costituito da una serie di geni, localizzati in corrispondenza del braccio corto del cromosoma 6, che codificano la sintesi di alcune glicoproteine di membrana. Queste ultime si dividono in due sottogruppi: il primo corrisponde agli antigeni di classe I, denominati HLA (Human leukocyte antigen) A, B e C, che sono presenti su tutte le cellule mononucleate e sono costituiti da una catena pesante di 45 kDa legata in modo covalente alla β-2-microglobulina; il secondo è rappresentato dagli antigeni di classe II, che sono eterodimeri costituiti da una catena α (il cui peso molecolare è compreso tra 29 e 34 kDa) e da una subunità β (25÷28 kDa). Questi ultimi prendono il nome di HLA-DR, DQ e DP, e sono presenti solo sulla superficie di macrofagi, linfociti B e T attivati, cellule endoteliali e, in alcuni casi, cellule epiteliali. Entrambe le classi di antigeni partecipano all'attivazione immunologica cui sono dovuti i fenomeni di rigetto, e costituiscono rispettivamente il bersaglio delle cellule citotossiche (HLA-A, B e C) e dei linfociti T helper (HLA-DR, DQ e DP). Esistono inoltre gli antigeni del cosiddetto sistema minore di compatibilità, i quali sono alla base delle manifestazioni di rigetto che si possono verificare, per esempio, anche nel trapianto di rene da vivente tra fratelli HLA identici.
La reazione immunologica di rigetto viene scatenata dagli antigeni specifici di istocompatibilità del donatore che, attraverso una serie di eventi molto complessi, vengono riconosciuti come estranei dal ricevente, il cui sistema immunitario può reagire fino a distruggere l'organo trapiantato. Ogni individuo è caratterizzato da due complessi di geni che codificano gli antigeni HLA, denominati 'aplotipi' ed ereditati uno dal padre e uno dalla madre. Quindi ogni genitore condividerà un aplotipo con suo figlio o sua figlia, mentre questi ultimi avranno una probabilità del 50% di avere un aplotipo in comune, e del 25% di condividerli entrambi (o nessuno). Il riconoscimento degli antigeni del donatore da parte dei linfociti T del ricevente viene definito allorecognition o alloresponse. Si parla di direct allorecognition quando i recettori dei linfociti T riconoscono molecole MHC del donatore ancora intatte, con generazione di linfociti T citotossici CD8+ e manifestazioni di rigetto acuto. Nella indirect allorecognition, alla base del potenziamento sia del rigetto acuto sia del rigetto cronico, i recettori di linfociti CD4+ helper riconoscono allopeptidi MHC del donatore dopo che questi sono stati processati e 'presentati' dalle cosiddette 'cellule presentanti l'antigene' (APC, Antigen presenting cells).
Il rigetto viene classificato in: (a) rigetto iperacuto, che avviene immediatamente o entro pochi minuti dalla rivascolarizzazione dell'organo trapiantato; l'esame istopatologico rivela una diffusa ; il substrato immunologico è rappresentato da anticorpi preformati che agiscono in maniera rapida provocando un danno irreversibile; (b) rigetto acuto precoce o accelerato, che si verifica nel caso in cui sussista una del ricevente, per cui l'organo trapiantato può inizialmente funzionare in modo ottimale ma presenta rapidamente un deterioramento della funzionalità; (c) rigetto acuto cellulare, che è la forma di rigetto più tipica e frequente, e che è controllabile nella maggior parte dei casi mediante terapia immunosoppressiva; l'aspetto istologico di questo tipo di reazione è inizialmente rappresentato da un'infiltrazione perivascolare di cellule linfoblastiche, mentre negli stadi più avanzati si osserva anche infiltrazione interstiziale, edema, necrosi e passaggio perivascolare di cellule; alla base del rigetto acuto si distinguono varie fasi: una prima fase di riconoscimento ed elaborazione degli antigeni estranei da parte dei linfociti T del ricevente; una seconda fase di attivazione, in cui diverse sottopopolazioni cellulari, prevalentemente appartenenti ai linfociti T, attivano i linfociti B, stimolando la produzione di anticorpi e di mediatori e la proliferazione di cellule killer, e in cui anche i macrofagi vengono attivati; una terza fase di distruzione, in cui le cellule T in fase attiva attaccano, attraverso i loro prodotti, il tessuto trapiantato; (d) rigetto cronico, che in genere inizia nel corso del primo anno dopo il trapianto come espressione di un evento immunologico subclinico o non completamente risolto, e che è secondario alla lenta produzione di anticorpi umorali che agiscono sulle pareti dei vasi provocando fenomeni di iperplasia con progressiva ostruzione del lume vasale.
Mentre una perfetta compatibilità HLA sembra associata a un miglior risultato del trapianto di rene, al riguardo non sono state ancora raggiunte conclusioni definitive per quanto concerne altri organi, quali il fegato e il cuore. Infatti la necessità di limitare al massimo i tempi di ischemia, insieme al minor numero di pazienti in lista d'attesa, non dà la possibilità, nel caso del trapianto di fegato o di quello di organi toracici, di effettuare l'intervento in base alla tipizzazione tessutale donatore-ricevente. In tutti i casi è invece indispensabile la negatività del cross-match diretto, cioè l'assenza di reattività tra il siero del ricevente e i linfociti del donatore. La presenza di anticorpi preformati comporta infatti l'insorgenza del rigetto iperacuto, con conseguente danneggiamento irreversibile dell'organo trapiantato non appena viene rivascolarizzato.
Solamente alcuni farmaci si sono dimostrati fino a oggi efficaci per la prevenzione e il trattamento del rigetto nel trapianto di organi. Tra questi l'azatioprina, un derivato della 6-mercaptopurina che all'interno dell'organismo viene metabolizzato formando il corrispondente ribonucleotide. Quest'ultimo presenta una notevole somiglianza strutturale con l'inosina monofosfato, e blocca l'attività enzimatica che comporta la sintesi di adenosina e guanosina monofosfato e quindi di acidi nucleici. L'azatioprina agisce in maniera più efficace quando è maggiore la sintesi di acidi nucleici, inibendo la differenziazione e la proliferazione dei linfociti T e B attivati. I suoi effetti collaterali più importanti sono rappresentati da una leucopenia marcata, con conseguente aumento di rischi di infezioni, e dalla epatotossicità.
La deplezione linfocitaria può essere indotta mediante la somministrazione di steroidi surrenalici, che agiscono inducendo la migrazione dei linfociti T circolanti dal sangue ai tessuti linfatici, determinando inoltre una più modesta ridistribuzione dei linfociti B e una riduzione della funzionalità dei macrofagi e della sintesi di linfochine. Notevoli sono tuttavia gli effetti collaterali, quali ipertensione, alterazioni del metabolismo lipidico e glucidico, osteoporosi e insorgenza di cataratta, che hanno condizionato fino a un recente passato la qualità di vita e la sopravvivenza a lungo termine del paziente trapiantato.
Anche le radiazioni ionizzanti, soprattutto sotto forma di irradiazione linfatica totale, possono ridurre le popolazioni linfocitarie. A questo scopo viene tuttavia utilizzata più frequentemente la somministrazione di globuline antilinfocitarie (ALG, Antilymphocytic globulin), che sono efficaci sia per la profilassi sia per la terapia del rigetto. Inoltre, buoni risultati sono stati ottenuti clinicamente grazie a un anticorpo monoclonale, OKT3, che deprime l'attività dei linfociti T maturi legandosi al loro recettore CD3. Sono attualmente in corso di studio nuove classi di anticorpi monoclonali (anti-CD4, -CD8 e altri).
I farmaci che sono stati descritti, impiegati in diverse associazioni tra di loro, hanno rappresentato sino alla fine degli anni Settanta del XX sec. gli elementi fondamentali della terapia immunosoppressiva, denominata 'terapia convenzionale'. La scoperta della ciclosporina, capostipite di una nuova generazione di sostanze − che agiscono in misura maggiore sui linfociti T, prevenendone l'attivazione da parte dell'IL-2 () oppure, se il fenomeno si è già verificato, bloccandoli e impedendo loro di sintetizzare e secernere IL-2 − ha significativamente migliorato i risultati del trapianto di rene, pancreas, fegato e cuore, e ha reso applicabile clinicamente quello di polmone e quello di intestino. Ha inoltre permesso di aumentare la percentuale di successo dei ritrapianti, e di effettuare il trapianto di fegato per insufficienza epatica fulminante anche in caso di incompatibilità di gruppo AB0 tra donatore e ricevente. Anche la ciclosporina, come l'FK506 e le altre molecole ad azione immunosoppressiva, non è tuttavia priva di effetti collaterali, quali epatotossicità, ipertensione arteriosa, neurotossicità e nefrotossicità, anche se la maggior parte di essi sono dipendenti dal dosaggio.
Il perfezionamento dei protocolli immunosoppressivi ha ridotto l'incidenza del rigetto e nello stesso tempo delle complicanze infettive dopo trapianto d'organo. Non è stato tuttavia ancora risolto il problema delle infezioni opportunistiche, cioè di quelle che sono causate da microrganismi, quali Protozoi (Pneumocystis carinii), miceti (soprattutto Candida albicans e Aspergillus fumigatus) e virus (in particolar modo Cytomegalovirus), che normalmente non sono patogeni ma lo divengono nei soggetti con diminuite difese immunitarie. Gli episodi di rigetto sono diagnosticati in base al quadro clinico, ai parametri di funzionalità dell'organo trapiantato, agli esami strumentali, ma soprattutto all'utilizzazione routinaria del controllo citologico mediante , facendo ricorso nei casi dubbi all'. Il trattamento del rigetto comporta uno o più cicli di terapia steroidea endovenosa ad alti dosaggi, e l'utilizzo di ALG od OKT3 nei casi resistenti.
Il prelievo degli organi solidi viene generalmente effettuato in donatori cadaveri il cui cuore è ancora battente, cioè che si trovano in condizioni di 'morte cerebrale' definitive e irreversibili. L'accertamento di questa condizione è stato sancito per la prima volta in Italia dalla legge n. 644 del 2 dicembre 1975 e dal successivo regolamento n. 409 del 16 giugno 1977, che richiedevano un periodo di osservazione di dodici ore da parte di una commissione medica; il dibattito scaturito nel corso degli anni ha comportato la discussione e la successiva approvazione della legge n. 578 del 29 dicembre 1993. Nei soggetti affetti da lesioni encefaliche sottoposti a misure rianimatorie la morte ha luogo "quando si verifica la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo", accertata "da un collegio medico nominato dalla direzione sanitaria, composto da un medico legale o, in mancanza, da un medico di direzione sanitaria o da un anatomopatologo, da un medico specialista in anestesia e rianimazione e da un medico neurofisiopatologo oppure, in mancanza, da un neurologo o da un neurochirurgo esperti in elettroencefalografia. I componenti del collegio medico sono dipendenti di strutture sanitarie pubbliche". Il legislatore introduce notevoli innovazioni, quali (art. 3) l'obbligo da parte del "medico della struttura sanitaria" di segnalare immediatamente tutti i casi di presunta morte nei soggetti affetti da lesioni encefaliche e sottoposti a misure rianimatorie "alla direzione sanitaria, che è tenuta a convocare prontamente il collegio medico". Il decreto del Ministero della Sanità n. 582 del 22 agosto 1994 richiede (art. 3), per l'accertamento di morte nei soggetti affetti da lesioni encefaliche e sottoposti a misure rianimatorie, "la contemporanea presenza delle seguenti condizioni: a) stato di incoscienza; b) assenza di riflesso corneale, di riflesso fotomotore, di riflesso oculocefalico e oculovestibolare, di reazioni a stimoli dolorifici portati nel territorio d'innervazione del trigemino, di riflesso carenale e respirazione spontanea dopo sospensione della ventilazione artificiale fino al raggiungimento di ipercapnia accertata da 60 mmHg con pH ematico minore di 7,40; c) silenzio elettrico cerebrale; d) assenza di flusso cerebrale preventivamente documentata". È necessario che queste condizioni siano simultaneamente presenti "per almeno tre volte, all'inizio, alla metà e alla fine del periodo di osservazione" che, in base all'art. 4, non deve essere inferiore a 6 ore per gli adulti e per i bambini di più di 5 anni, a 12 ore per i bambini di età compresa tra 1 e 5 anni, e a 24 ore per i bambini di età inferiore a 1 anno.
Prima dell'inizio dell'osservazione è compito del medico di turno in rianimazione escludere la presenza di patologie trasmissibili al ricevente, facendo eseguire uno screening batteriologico, virologico e micologico completo. Non possono essere considerati donatori pazienti in morte cerebrale affetti da neoplasie (con la sola eccezione dei tumori cerebrali a esclusiva localizzazione intracranica), o sieropositivi per il virus dell'immunodeficienza acquisita oppure per quello dell'epatite C; organi di donatori clinicamente guariti da una pregressa epatite B, in assenza di replicazione virale, possono invece essere utilizzati, assegnandoli possibilmente a soggetti positivi per l'antigene Australia (HBsAg, Hepatitis B surface antigen). L'idoneità al prelievo di rene, pancreas, fegato, cuore, polmoni, ecc. viene posta dai responsabili delle varie squadre chirurgiche sulla base degli accertamenti ematochimici, emogasanalitici e strumentali (radiografia del torace, ecocardiogramma, ecografia addominale); spesso la decisione finale viene presa dopo l'ispezione chirurgica e l'eventuale perfusione degli organi da trapiantare.
Riguardo al consenso all'espianto degli organi, in alcune nazioni europee, per esempio la Francia, la legge ha introdotto il principio del 'consenso presunto' o 'silenzio-assenso', in base al quale si effettuano le operazioni di prelievo, una volta accertata la condizione di morte cerebrale, in tutti i pazienti deceduti in ospedale i quali non abbiano mai espresso in vita volontà contraria alla donazione. In Italia, invece, ove non vi sia l'esplicita autorizzazione da parte del donatore, al prelievo possono opporsi i familiari.
È chiamato 'prelievo multiorgano' il prelievo contemporaneo di più organi toracici e addominali dallo stesso donatore cadavere. Il prelievo di organi toracici prevede l'apertura della cavità toracica mediante una sternotomia mediana, l'incisione del sacco pericardico, l'isolamento delle strutture cardiache e dell'arteria polmonare seguita dalla perfusione attraverso il bulbo aortico con soluzione cardioplegica (che arresta il cuore) e attraverso l'arteria polmonare con soluzioni cristalloidi o colloidi; si procede infine all'estrazione separata del cuore e dei due polmoni. Il prelievo di organi addominali è stato realizzato secondo due modalità, la prima caratterizzata dalla dissezione anatomica a cuore battente delle strutture vascolari dei differenti organi e dalla loro successiva perfusione in situ (tecnica standard), e la seconda, denominata fast perfusion, che prevede l'immediata perfusione degli organi una volta aperte la cavità toracica e addominale e la loro successiva asportazione, preceduta da una dissezione, anche se limitata, dei distretti vascolari di competenza, successivamente completata mediante chirurgia di banco. La tecnica standard, applicata quando le condizioni emodinamiche del donatore sono stabili, permette una più agevole identificazione di eventuali anomalie anatomiche, mentre la fast perfusion, indicata in presenza di un donatore cadavere nel quale si verifichi un'improvvisa grave ipotensione all'inizio o durante un prelievo eseguito con tecnica standard, pur presentando il vantaggio di ridurre i tempi dell'intervento, comporta il rischio di lesioni di strutture vascolari, particolarmente in presenza di anomalie anatomiche.
L'induzione dell'ipotermia, che costituisce il cardine della conservazione degli organi solidi e della loro successiva ripresa funzionale dopo trapianto, è ottenuta mediante la rapida perfusione in vivo con particolari soluzioni cristalloidi o colloidi, che può essere eventualmente associata all'infusione di farmaci vasodilatatori allo scopo di prevenire l'insorgenza di fenomeni di vasospasmo. Tuttavia, l'ipotermia comporta anche una serie di effetti indesiderati, inducendo in particolare un edema cellulare, conseguente all'inibizione della pompa ionica di membrana che normalmente, consumando adenosintrifosfato (ATP), mantiene una concentrazione intracellulare bassa di sodio e una elevata di potassio. Per questo motivo, tutte le soluzioni per la perfusione ipotermica contengono sostanze che, innalzandone fino a 400÷440 mOsm/l l'osmolarità, contribuiscono a ridurre l'insorgenza di tale edema; si tratta in genere di anioni (fosfato, solfato, glicerofosfato, gluconato, lattobionato e citrato) o di zuccheri (glucosio, mannitolo, sucrosio e raffinosio).
I tipi di soluzioni più frequentemente impiegati per uso clinico sono la soluzione di Collins (cristalloide) e la soluzione UW dell'Università di Wisconsin (colloide). La prima viene utilizzata su larga scala da molti anni, anche se la sua formulazione ha subito notevoli cambiamenti a partire dal 1969 (Collins C1-C4); attualmente viene definita Eurocollins, e si differenzia dalle versioni precedenti per l'assenza di magnesio. È caratterizzata da una notevole osmolarità (ca. 375 mOsm/l), ottenuta grazie all'aggiunta di glucosio, e da una concentrazione elettrolitica di tipo intracellulare, cioè elevata in potassio e bassa in sodio. La soluzione UW è stata messa a punto negli anni Ottanta del XX sec. da F. Belzer e dai suoi collaboratori. Nella sua composizione rientrano il gluconato, anione impermeabilizzante deputato alla prevenzione del rigonfiamento cellulare, il glutatione, che dovrebbe impedire il danno da e da radicali liberi dell'ossigeno, e infine sia adenina sia ribosio, quali precursori dell'ATP. Viene preferita alla Eurocollins, nella maggior parte dei centri, per fegato e pancreas, poiché consente tempi di conservazione sino a 10-12 ore per il pancreas, a 18 ore per il fegato, e a 24 ore per il rene; è stata impiegata anche per la preservazione in ipotermia di intestino tenue, cuore e polmoni. Inoltre, per la perfusione e la conservazione in ipotermia di fegato, rene e pancreas è stata messa a punto la soluzione Celsior che, inizialmente proposta per il prelievo di cuore, si è dimostrata efficace nel prevenire il sovraccarico di calcio; essa ha una notevole attività antiossidante e di , garantita da glutatione, istidina e mannitolo, ed è caratterizzata da una viscosità notevolmente ridotta che facilita l'omogenea perfusione degli organi addominali.
Il trapianto di rene è stato effettuato per la prima volta tra gemelli monocoriali a Boston nel 1954 da Joseph E. Murray, mediante una tecnica chirurgica messa a punto dal chirurgo parigino René Kuss e utilizzata successivamente in tutto il mondo, a partire da donatori viventi e cadaveri, in una serie crescente di casi. L'unico fattore in grado di precludere il trapianto di rene è la presenza di neoplasie maligne o di infezioni sistemiche in atto. Controindicazioni relative sono l'età del ricevente superiore a 60-65 anni e alcune patologie renali che possono recidivare con una frequenza variabile dopo il trapianto, quali la diabetica, la glomerulonefrite membranoproliferativa di tipo I e II, la glomerulosclerosi focale e segmentaria, la nefropatia da immunoglobulina A (IgA), la sindrome uremico-emolitica e la porpora di Schönlein-Henoch.
Il trapianto è la terapia d'elezione per i pazienti affetti da uremia terminale di qualsiasi eziopatogenesi, e dovrebbe essere effettuato il più precocemente possibile per prevenire lo stress psicologico e i numerosi effetti collaterali della , cui si aggiungono in età pediatrica o neonatale alcune difficoltà tecniche e il marcato ritardo dell'accrescimento. Si comprende quindi il ruolo del trapianto renale da donatori viventi, consanguinei e non, quale procedura terapeutica complementare al trapianto da donatori cadaveri, il cui numero è ancora insufficiente rispetto al fabbisogno. I risultati del trapianto da donatore vivente sono peraltro superiori, in quanto l'assenza della fase anossica previene la (che agisce come elemento aspecifico nel favorire l'innesco della reazione di rigetto), permettendo inoltre l'immediata somministrazione di ciclosporina, potenziamente nefrotossica, con conseguente diminuzione degli episodi di rigetto. Il rischio per il donatore vivente è molto limitato per quanto riguarda la morbilità sia perioperatoria sia a distanza di tempo, mentre il rischio di mortalità è pressoché nullo.
Nel prelievo di rene da donatore vivente viene adottata un'incisione lombotomica sulla XI costa, che può essere resecata, prolungata anteriormente in basso parallelamente al muscolo retto addominale. Si procede quindi all'incisione della capsula adiposa, con lussazione completa del rene, e all'isolamento dell'uretere dal polo inferiore del rene sino all'incrocio con i vasi iliaci omolaterali. Viene successivamente preparata la vena cava inferiore con lo sbocco della vena renale in caso di prelievo del rene destro; quando l'intervento ha luogo a sinistra, si effettua la legatura e sezione della vena surrenale inferiore, della vena spermatica e, se presente, dell'arcata venosa azygos-lombare. Si isola quindi l'arteria renale nella sua porzione retrocavale a destra e all'origine dell'aorta a sinistra, previa sezione tra legature dell'arteria surrenalica inferiore. L'uretere viene sezionato a livello dei vasi iliaci e il moncone distale viene legato. L'arteria renale viene 'clampata' e sezionata; altrettanto si fa per la vena renale, a destra asportata con un patch di vena cava e a sinistra sezionata a livello del margine aortico. La breccia cavale o il moncone distale della vena renale del donatore vengono suturati in continua con monofilamento 5-0, mentre il moncone prossimale dell'arteria renale si lega con un punto transfisso.
Per quanto concerne la tecnica di trapianto sia da donatore vivente sia da cadavere, la via d'accesso è rappresentata da un'incisione cutanea parainguinale a livello della fossa iliaca. Lo scollamento retroperitoneale consente di esporre e preparare i vasi iliaci; in questa fase occorre legare accuratamente i vasi linfatici per prevenire l'insorgenza del linfocele. Se l'organo da trapiantare presenta un'arteria renale singola, quest'ultima viene anastomizzata terminoterminalmente all'arteria ipogastrica qualora si esegua un trapianto di rene da vivente. Se invece l'organo è stato prelevato da un donatore cadavere, ed è stato quindi possibile asportare un patch di aorta, l'anastomosi viene effettuata terminolateralmente con l'arteria iliaca esterna o con l'iliaca comune, a seconda della profondità del campo operatorio e della lunghezza dell'arteria renale, così da evitarne inginocchiamenti dopo la chiusura della ferita chirurgica.
Numerose sono le tecniche attuabili in caso di arterie renali multiple, quando non si disponga di un adeguato patch di aorta, come nel caso del trapianto di un rene prelevato da un donatore vivente. Si può eseguire l'anastomosi terminoterminale tra l'arteria renale doppia e la biforcazione dell'arteria ipogastrica, l'anastomosi terminoterminale tra il ramo principale dell'arteria renale e l'arteria ipogastrica e tra un'arteria polare inferiore e l'arteria epigastrica inferiore, l'anastomosi terminoterminale tra arteria renale e arteria ipogastrica e quella terminolaterale tra un'arteria polare superiore o inferiore e il tronco principale dell'arteria ipogastrica, oppure l'anastomosi terminoterminale tra l'arteria renale e l'ipogastrica dopo aver anastomizzato terminolateralmente un'arteria polare sulla parete della stessa arteria renale. Fattori limitanti l'effettuazione di tali approcci chirurgici sono rappresentati dalla discrepanza del calibro dei vasi tra donatore e ricevente e dalla non rara osservazione in quest'ultimo di alterazioni della parete vasale. Sulla base di queste considerazioni la presenza bilaterale di arterie renali multiple rappresenta presso molti centri una controindicazione alla donazione di rene da vivente. Tuttavia in questi casi, durante la chirurgia di banco in ipotermia, si può effettuare con materiale monofilamento 7-0 l'anastomosi delle arterie renali a un patch di teflon, successivamente connesso mediante una sutura continua 5-0 all'arteria iliaca del ricevente.
Questo approccio chirurgico si è rivelato valido anche in caso di trapianto in pazienti pediatrici di reni prelevati da donatori viventi adulti, e nel trapianto di rene da cadavere in presenza di lesioni aterosclerotiche dell'aorta con interessamento degli osti delle arterie renali, o per reimpiantare arterie polari accidentalmente danneggiate in fase di prelievo. La vena renale del trapianto viene usualmente anastomizzata terminolateralmente con la vena iliaca esterna del ricevente. Se il rene del donatore presenta due vene renali dello stesso calibro, entrambe vengono suturate sull'asse venoso iliaco, mentre vene accessorie di piccolo calibro vengono usualmente legate senza alcuna alterazione del drenaggio venoso. La via escretrice viene ricostruita preferenzialmente eseguendo un'ureteroneocistostomia secondo la tecnica di Gregoir-Lich la quale, pur garantendo un adeguato meccanismo antireflusso, è più rapida rispetto al metodo di Politano-Leadbetter, che prevede un'ampia apertura della parete vescicale e la 'tunnellizzazione' sottomucosa dell'uretere, di difficile esecuzione in presenza di una vescica con infiammazione cronica. L'anastomosi dell'uretere del ricevente con l'uretere o la pelvi del donatore viene generalmente effettuata solo in alcuni casi di reintervento per necrosi dell'uretere del rene trapiantato.
In relazione all'efficacia della terapia immunosoppressiva, con l'impiego della ciclosporina non è più necessaria una completa istocompatibilità, anche se rimane fondamentale che il ricevente non presenti anticorpi attivi contro i linfociti del donatore (cross-match diretto negativo). Per quanto riguarda i risultati a distanza, la sopravvivenza attuariale dell'organo a dieci anni è di circa il 65% per il trapianto da cadavere con una sufficiente compatibilità tra donatore e ricevente, e significativamente superiore per quello da vivente.
Il trapianto di pancreas, eseguito per la prima volta da W. Kellog e R. Lilley a Minneapolis nel 1966 con la finalità di prevenire la progressione di alcune gravi complicanze microangiopatiche del diabete giovanile insulinodipendente, quali la retinopatia, è stato caratterizzato da una progressiva evoluzione che ha portato a ottenere una sopravvivenza superiore all'80% a un anno dal trapianto e del 65% a cinque anni.
I due aspetti peculiari che hanno condizionato la tecnica chirurgica da adottare possono essere individuati nella scelta della sede del trapianto e nel trattamento della secrezione esocrina. Va considerato inoltre che generalmente il trapianto di pancreas viene effettuato in fase di uremia secondaria a nefropatia diabetica, e pertanto è associato al trapianto di rene. Il miglioramento dei risultati e il progressivo diminuire sia dei rischi sia degli effetti collaterali della terapia immunosoppressiva hanno indotto a effettuare in questi ultimi anni un crescente numero di trapianti isolati di pancreas. In alcuni casi, infine, è stato effettuato con successo il trapianto segmentario della coda del pancreas da donatore vivente consanguineo (usualmente un genitore), senza rischi sostanziali correlabili con la procedura di prelievo.
Per quanto riguarda la sede, l'intervento può essere effettuato posizionando il segmento corpo-coda del pancreas o in fossa iliaca, dopo preparazione dei vasi iliaci per via extraperitoneale, come avviene per il trapianto di rene, anastomizzando agli stessi l'arteria e la vena splenica del trapianto, oppure all'interno della cavità addominale a livello dello sfondato di Douglas o in posizione paratopica, anastomizzando i vasi del donatore in terminolaterale ai vasi splenici del ricevente. Quest'ultima metodica, se da un lato presenta maggiori problemi tecnici rispetto alle altre prima descritte, consente tuttavia l'increzione insulinica direttamente nell'albero portale.
In relazione al trattamento della secrezione esocrina, le tecniche che oggi vengono usualmente impiegate sono due: l'occlusione del dotto di Wirsung, mediante differenti tipi di sostanze (neoprene, polysoprene, prolamina, silicone, cianoacrilato) che presentano la caratteristica di solidificare al pH alcalino tipico della secrezione pancreatica, e il drenaggio del dotto di Wirsung in intestino o in vescica. Attualmente, molti sono favorevoli a drenare il dotto di Wirsung in vescica, trapiantando il pancreas in toto con bottone duodenale oppure con segmento di duodeno comprendente lo sbocco della papilla di Vater. Tutte le tecniche non sono peraltro scevre da complicanze. In particolare, nel trapianto segmentario di pancreas con occlusione del dotto di Wirsung non sono rare le pancreatiche, e il numero delle isole non sempre è sufficiente per un corretto e completo controllo ormonometabolico; incerto è inoltre il ruolo della fibrosi, la quale fa seguito all'occlusione del dotto pancreatico, nel determinare un eventuale insuccesso tardivo del trapianto. Le complicanze legate alla tecnica del trapianto in toto con wirsungcistostomia sono principalmente rappresentate da fistole vescicali, infezioni, episodi di grave acidosi, ed erosioni della mucosa uretrale e vescicale. Il drenaggio enterico comporta d'altra parte un non trascurabile rischio di fistole, deiscenze anastomotiche e pancreatiti. Anche in questi trapianti la ciclosporina costituisce il cardine della terapia immunosoppressiva, in associazione con steroidi, azatioprina e siero antilinfocitario (ALG) oppure anticorpi monoclonali (OKT3); la diagnosi di sospetto di rigetto viene stabilita in base alla determinazione dei livelli ematici di insulina, peptide C e amilasi e al dosaggio delle amilasi nel succo pancreatico, e deve essere confermata attraverso la biopsia pancreatica ecoguidata.
Nel corso degli ultimi anni è stato effettuato, in alcuni centri e con applicazione clinica limitata, l'innesto di isole pancreatiche, che vengono generalmente iniettate nel circolo portale del ricevente: in casi di diabete insulinodipendente con associata insufficienza renale o epatica trova indicazione il trapianto combinato di isole e, rispettivamente, di rene o fegato. Questo approccio terapeutico può essere praticato sia inserendo le isole mediante metodiche radiologiche poco invasive nella vena porta, sia mettendo a punto una tecnica per l'immunoprotezione di isole umane altamente purificate all'interno di microcapsule di alginato di polilisina del diametro di 700 μm, rendendo superflua la terapia antirigetto. Speciali protesi contenenti le microcapsule vengono interposte tra la vena ascellare e quella femorale nel circolo ematico di pazienti diabetici, con dimostrazione di successiva produzione di insulina. Tuttavia i risultati a distanza, in termini di correzione dell'alterazione metabolica senza somministrazione esogena di insulina, restano tuttora insoddisfacenti, in quanto attendono ancora la risoluzione di numerose problematiche quali per esempio, la resa inadeguata delle metodiche di isolamento, la purificazione e conservazione delle isole, e la possibilità del loro danneggiamento a causa degli effetti collaterali della terapia immunosoppressiva o di fenomeni di autoimmunità.
Il primo trapianto di fegato fu effettuato nel 1963 a Denver da T.E. Starzl; lo stesso chirurgo ottenne il primo successo clinico quattro anni dopo, nel 1967. Solo a partire dagli anni Ottanta del XX sec., però, grazie a numerosi perfezionamenti sia della tecnica chirurgica sia della terapia immunosoppressiva, l'intervento ha avuto una diffusione sempre maggiore. Le sue principali indicazioni sono costituite dalle differenti forme di insufficienza epatica cronica, dai deficit congeniti di enzimi la cui sintesi avviene a livello epatico, dall'insufficienza epatica acuta fulminante di origine virale, tossica o da farmaci, e dalla patologia neoplastica. Le patologie che precludono il trapianto di fegato sono limitate alle malattie sistemiche e ai tumori epatici o delle vie biliari con metastasi locoregionali e a distanza, mentre alcune complicanze del paziente in lista di attesa per il trapianto, come l'emorragia recidivante dopo scleroterapia da rottura di varici esofagee e gastriche, o l'ascite intrattabile associata a insufficienza respiratoria e/o renale, non rappresentano oggi un elemento di esclusione temporanea dal programma: in questa particolare categoria di pazienti vi è un rischio elevato sia di una sia di una sostituzione epatica in urgenza, ma attualmente è possibile trattare le complicanze dell'ipertensione effettuando per via non invasiva un'anastomosi tra il circolo portale e quello sistemico mediante una metodica detta TIPS (Transjugular intrahepatic porto-systemic shunt).
In Italia il primo trapianto di fegato è stato eseguito nel 1982. Nel nostro paese la maggior parte dei pazienti viene sottoposta a trapianto per cirrosi postepatite B, B-delta o C, una patologia particolarmente diffusa nell'area mediterranea. I migliori risultati, in termini di sopravvivenza a distanza e di completa riabilitazione, si ottengono in casi a bassa replicazione virale, valutata con la ricerca del DNA virale mediante PCR (Polymerase chain reaction), e in fase di relativo compenso (classe B di Child-Pugh). La profilassi nei confronti del virus dell'epatite B viene effettuata attualmente con la somministrazione di un elevato dosaggio di gammaglobuline iperimmuni, che inizia durante la fase anepatica e deve proseguire a lungo per mantenere un elevato titolo anticorpale e ridurre la reinfezione del fegato trapiantato. Tale complicanza, dopo trapianto per cirrosi virus C correlata, è tuttora di difficile prevenzione, e presenta un'evoluzione variabile dalle forme subcliniche stabili alle forme fulminanti e a quelle a evoluzione progressiva sino a cirrosi; la somministrazione di interferone α, talvolta associato a ribavirina, costituisce l'unica possibilità di prevenirla in maniera relativamente efficace.
La cirrosi alcolica non rappresenta oggi una controindicazione al trapianto, anche se in questi casi è indispensabile prima dell'intervento un'accurata valutazione neuropsichiatrica e un efficace trattamento riabilitativo. Nelle malattie a impronta colestatica, quali la cirrosi biliare primitiva e la colangite sclerosante, il trapianto di fegato è indicato quando la bilirubinemia supera in percentuale i 6 mg o presenta un improvviso e significativo rialzo dei valori ematici e il prurito diventa intrattabile; la valutazione preoperatoria in caso di colangite sclerosante deve includere una colangiografia retrograda con prelievi citologici, in quanto tale patologia è frequentemente associata alla degenerazione neoplastica delle vie biliari, e una colonscopia per escludere alterazioni neoplastiche della mucosa colica. La sostituzione epatica viene attualmente effettuata anche in caso di insufficienza epatica fulminante su base infettiva o tossica. Questi ultimi quadri morbosi pongono tuttavia problemi relativi al momento in cui eseguire il trapianto poiché, nonostante l'elaborazione di svariati indici prognostici (bilirubinemia superiore in percentuale a 20 mg, tempo di protrombina superiore a 30 sec, encefalopatia in stadio III evolutiva), è tuttora difficile determinare se il danno epatico sia irreversibile o se sia invece preferibile continuare il trattamento conservativo, purtroppo caratterizzato da una scarsa efficacia. La funzione del fegato è costituita da un numero elevato di complesse reazioni biochimiche, che possono essere svolte solamente dagli epatociti: destano quindi interesse gli studi volti all'ottenimento di sistemi 'ibridi' di sostegno dell'attività epatica, costituiti da una struttura inerte che funge da supporto per cellule epatiche di origine umana o anche animale. Un'altra possibilità terapeutica è rappresentata dal trapianto ausiliario di fegato, finalizzato a fornire un supporto al fegato nativo almeno fino al superamento del danno tossico o infettivo.
Per quanto riguarda la patologia neoplastica, le tecniche chirurgiche di resezione epatica, quando attuabili, rappresentano il trattamento d'elezione per i tumori epatici primitivi a qualsiasi stadio, insorti su fegato sano. D'altra parte, la non trascurabile morbilità e mortalità perioperatoria associata a interventi di chirurgia resettiva maggiore effettuati in pazienti cirrotici in classe B o C di Child-Pugh, nonché la possibile natura multifocale delle lesioni neoplastiche, pongono l'indicazione al trapianto di fegato; è però tuttora in fase di valutazione il suo ruolo in presenza di lesioni non resecabili multiple o singole di dimensioni voluminose, sia su fegato sano sia su fegato affetto da cirrosi, per il potenziale rischio di recidiva neoplastica legato principalmente alla terapia immunosoppressiva.
I trapianti di fegato in età pediatrica rappresentano il 20% dell'esperienza globale europea, e circa un terzo di essi è stato effettuato in pazienti di età compresa tra 0 e 2 anni; le principali indicazioni sono costituite da atresia delle vie biliari, da altre forme di colestasi, da insufficienza epatica acuta, da malattie metaboliche e, solo raramente, da dilatazioni congenite delle vie biliari. Per quanto riguarda la malattia di Caroli, e più in generale le malformazioni cistiche intraepatiche o intra- ed extraepatiche, le forme a localizzazione lobare possono essere sottoposte a chirurgia resettiva, mentre quelle diffuse richiedono il trapianto per eliminare focolai settici e prevenire la degenerazione neoplastica delle cisti.
Nell'ambito della tecnica chirurgica, un'importante innovazione è stata quella del trapianto segmentario di fegato, che comporta una fase resettiva durante la chirurgia di banco e il successivo utilizzo dei segmenti epatici destri (5°, 6°, 7° e 8°) o sinistri (2°, 3° ed eventualmente 4°) in presenza di notevole discrepanza di dimensioni tra il donatore e il ricevente. Tale metodica è stata poi sostituita da quella dello split liver, che prevede l'impiego dei due emifegati di un donatore in due distinti riceventi. In questi casi la sopravvivenza globale del paziente è, rispettivamente, del 79% e del 67%, contro l'82% del trapianto full size; la maggiore mortalità dopo lo split liver transplantation deve essere attribuita alle più accentuate difficoltà tecniche, che si riflettono in un'incidenza superiore di complicanze, soprattutto biliari (27%).
L'esperienza acquisita con questo tipo di chirurgia ha consentito, nella seconda metà degli anni Ottanta del XX sec., di effettuare il trapianto di fegato da donatore vivente; ciò ha tra l'altro permesso di avviare programmi di chirurgia epatica sostitutiva in Paesi, come il Giappone, in cui non è ancora legalizzato l'utilizzo di donatori cadaveri. La sopravvivenza a distanza nei riceventi raggiunge il 90%; l'asportazione del lobo sinistro del fegato o, come si preferisce fare attualmente, del 2° e 3° segmento epatico, comporta per il donatore rischi sovrapponibili a quelli di una resezione epatica maggiore, quali una mortalità teorica dell'1% e una morbilità del 5%.
Per quanto riguarda le tecniche di reimpianto del fegato dopo l'epatectomia del ricevente, oltre alla tecnica standard descritta da Starzl negli anni Sessanta del Novecento, è stata messa a punto in questi ultimi anni, inizialmente nel trapianto pediatrico e successivamente nell'adulto, la cosiddetta tecnica di piggyback, che prevede il mantenimento della vena cava retroepatica dopo epatectomia. Questa tecnica presenta il vantaggio di non impiegare lo shunt venoso tra il distretto cavale inferiore e superiore, e di prevenire lesioni iatrogene del nervo frenico che, in alcune casistiche, hanno reso necessaria nel periodo postoperatorio una prolungata ventilazione meccanica. Da quanto esposto si evince che le indicazioni al trapianto di fegato si sono progressivamente allargate alla maggior parte delle patologie epatiche, sia dell'età pediatrica sia di quella adulta, mentre si sono sempre più ridotte le controindicazioni legate all'età o alle condizioni cliniche del potenziale ricevente, e sono migliorati i risultati a distanza: la sopravvivenza attuariale del paziente trapiantato ha oggi raggiunto il 90% a un anno e il 75% a cinque anni.
Le tecniche chirurgiche del trapianto intestinale e multiviscerale sono state messe a punto nel cane, rispettivamente da Lilley nel 1959 e da Starzl nel 1960; la prima applicazione clinica ha avuto luogo nel 1964 a Boston. Tuttavia, i primi successi nel trattamento con il trapianto delle sindromi da malassorbimento enterico associate a insufficienza epatica terminale sono stati ottenuti nel 1987 a Pittsburgh, in due pazienti pediatrici sottoposti a trapianto multiviscerale (fegato, pancreas, duodeno, digiuno e ileo), e nel 1990 presso l'Università dell'Ontario orientale, dove sono stati effettuati alcuni trapianti di fegato e intestino. Successivamente, adottando protocolli innovativi di terapia immunosoppressiva con l'impiego dell'FK506 come farmaco di base, il gruppo di Pittsburgh ha ottenuto soddisfacenti risultati funzionali con il trapianto isolato di intestino. Da allora, più di trenta centri in tutto il mondo hanno effettuato, secondo il registro dei trapianti di intestino a cura dell'Università dell'Ontario orientale, oltre centodieci trapianti isolati di intestino, oltre cento trapianti di fegato e intestino, e oltre trenta trapianti multiviscerali. La scelta delle tecniche chirurgiche ‒ intestino isolato, trapianto combinato di fegato e intestino, cluster operation (trapianto di fegato e pancreas in blocco) e trapianto multiviscerale (trapianto in blocco di fegato, pancreas, intestino tenue e in alcuni casi anche stomaco e/o colon) ‒ che sono state adottate in questi anni è stata in particolar modo condizionata dalla patologia del paziente, anche se si sono progressivamente sviluppate varianti di una stessa tipologia di tecnica con la finalità tanto di ridurre le complicanze chirurgiche quanto di migliorare lo stato metabolico e nutrizionale dopo l'intervento.
Il trapianto di intestino trova la sua principale indicazione nel trattamento della sindrome da intestino corto, quale si definisce la riduzione al di sotto di 20 cm della lunghezza del tratto enterico funzionale, che è dovuta a compromissione della vascolarizzazione intestinale, anomalie neuroendocrine e malfunzionamento intestinale primitivo. Numerosi casi di patologie neoplastiche potrebbero trarre giovamento dai trapianti multiviscerali, ma l'elevata incidenza di recidive nei casi di voluminosi carcinomi epatocellulari e di tumori del pancreas, della colecisti o del colon con interessamento epatico secondario suggerisce oggi di escludere tali patologie dalle indicazioni ai trapianti cluster o multiviscerali. Questi interventi dovrebbero essere limitati a pazienti con neoplasie neuroendocrine localizzate alla loggia sovramesocolica e ai rari casi di sindrome di Gardner con tumori desmoidi che compromettono la vascolarizzazione degli organi addominali.
Nel trapianto isolato di intestino, se si eccettuano le difficoltà legate alla sindrome aderenziale secondaria ai pregressi interventi chirurgici, la fase demolitiva non presenta particolari difficoltà, essendo limitata nella maggior parte dei casi all'asportazione del segmento di intestino residuo. Al trapianto combinato di fegato e intestino è invece associata l'epatectomia del ricevente secondo la tecnica standard. La rimozione degli organi nativi costituisce invece una delle fasi più delicate del trapianto multiviscerale, a causa dell'ampia eviscerazione necessaria per ottenere la radicalità chirurgica. La fase demolitiva, che precede gli interventi di trapianto multiviscerale nonché di cluster operation, usualmente adottati in presenza di una patologia neoplastica primitiva o secondaria, comprende l'esposizione completa dell'asse aortocavale mediante derotazione intestinale e scollamento splenopancreatico e colico sinistro, l'isolamento del tripode celiaco e dell'arteria mesenterica superiore, e infine la lussazione del fegato previa sezione dei legamenti sospensori.
Per quello che riguarda la tecnica chirurgica di reimpianto, occorre distinguere tre fasi principali, che includono la rivascolarizzazione arteriosa tra il distretto vascolare dell'organo trapiantato e l'aorta del ricevente, il drenaggio venoso nel circolo portale, e la ricostruzione del transito intestinale. In quest'ultima fase, almeno una delle estremità dell'intestino trapiantato viene anastomizzata alla cute per consentirne un più facile controllo bioptico, secondo una procedura che ha comportato un sensibile miglioramento dei risultati; il transito intestinale viene generalmente ricostituito dopo 6 mesi. Le ultime fasi dell'intervento comprendono la confezione di una gastro- o digiunostomia, in previsione della prolungata alimentazione enterale post-trapianto, e l'appendicectomia. Benché i risultati del trapianto intestinale e multiviscerale siano ancora gravati da una non trascurabile morbilità e mortalità perioperatoria, nonché da un'elevata incidenza di malassorbimento enterico in particolar modo nei trapianti pediatrici in cui è frequente che i pazienti non si siano mai alimentati per via naturale, attualmente la sopravvivenza a un anno è superiore al 60% e quella a cinque anni raggiunge il 40% nel trapianto isolato di intestino o di fegato e intestino. Risultati inferiori sono invece riportati per il trapianto multiviscerale e per la cluster operation a causa della recidiva neoplastica.
Il 3 dicembre 1967, a Città del Capo, Christiaan Barnard effettuò per la prima volta un trapianto di cuore umano, dando il via a un periodo di intensa attività clinica e di ricerca, tanto che alla fine del 1968 erano stati eseguiti in tutto il mondo oltre cento trapianti cardiaci. I risultati non ottimali comportarono in seguito una progressiva diminuzione degli interventi, mentre un nuovo impulso derivò, nel 1981, dall'introduzione della biopsia miocardica per la diagnosi di rigetto e della ciclosporina come base della terapia immunosoppressiva. Costituiscono indicazione all'intervento le forme più gravi di insufficienza cardiaca (classe IV secondo la New York Heart Association), secondarie a miocardiopatia idiopatica (50%), arteriopatia coronarica (40%), valvulopatie (5%) o ad altra patologia (5%).
La notevole esperienza acquisita in numerosi centri nel corso degli anni fa sì che la tecnica chirurgica del trapianto ortotopico di cuore sia ben definita in tutti i suoi aspetti, mentre altrettanto non può dirsi per quello eterotopico, eseguito finora in pochi casi. D'altra parte, i pazienti con elevate resistenze a livello dell'arteria polmonare, che in passato venivano sottoposti a questo tipo di intervento, sono attualmente trattati con maggiore successo mediante il trapianto di cuore e polmoni. In entrambi i casi il paziente viene sottoposto a sternotomia mediana, seguita dall'apertura del sacco pericardico, dall'isolamento delle strutture cardiache e dall'instaurazione della circolazione extracorporea. Nel trapianto eterotopico, il cuore del donatore è affiancato a quello del ricevente, cui viene connesso con anastomosi a livello degli atri destro e sinistro; l'aorta e l'arteria polmonare del donatore sono suturate terminolateralmente con le corrispondenti strutture del ricevente. La sopravvivenza attuariale a un anno è passata dal 48% del periodo precedente il 1980 all'81% dell'intervallo 1981-1984, e quella a cinque anni è corrispondentemente aumentata dal 26% al 69%.
In Italia, il primo trapianto di cuore nell'adulto è stato eseguito nel novembre del 1985 a Padova, e il primo intervento pediatrico è stato effettuato presso l'Università di Roma La Sapienza nel dicembre dello stesso anno. Purtroppo, numerosi pazienti in lista di attesa muoiono prima del trapianto; proprio per limitare questi decessi molti centri sono divenuti meno selettivi nella scelta dei donatori, giungendo a prelevare cuori con lesioni valvolari o delle arterie coronariche, che vengono riparate in fase di chirurgia di banco. Inoltre, sono state messe a punto protesi per sostenere la funzione del ventricolo destro o sinistro, o di entrambi, in attesa dell'organo da trapiantare. Le difficoltà tecniche legate all'azionamento di tali apparecchiature mediante aria compressa hanno indotto a mettere a punto protesi cardiache alimentate da energia elettrica, quali il Novacor, che è stato utilizzato anche in Italia come bridge al trapianto cardiaco o addirittura per sostituire in modo definitivo la funzione del ventricolo sinistro.
Molto tempo è intercorso tra il primo trapianto di polmone, effettuato da J. Hardy nel 1963, e il definitivo successo clinico, ottenuto il 7 novembre 1983, a Toronto, da J.D. Cooper. Due anni prima B. Reitz aveva eseguito, a Stanford, il primo trapianto di cuore e polmoni. Successivamente, nel 1990, V.A. Starnes ha realizzato il primo trapianto di lobo polmonare da donatore vivente. In Italia, il primo trapianto di polmone è stato eseguito all'Università di Roma La Sapienza nel gennaio del 1991.
Il trapianto di polmone singolo trova indicazione in caso di fibrosi polmonare idiopatica, enfisema polmonare oppure primitiva o secondaria (sindrome di Eisenmenger), mentre le forme più gravi di queste patologie e le infezioni polmonari bilaterali, quali bronchiectasie e fibrosi cistica, possono essere trattate con successo mediante il trapianto di polmone doppio e, nei rari casi di concomitante insufficienza cardiaca, con quello di cuore e polmoni. La sopravvivenza attuariale a un anno, dopo trapianto di polmone sia singolo sia doppio, è di circa l'80%, e quella a cinque anni è superiore al 60%. La notevole riduzione della mortalità perioperatoria è legata a una migliore selezione dei riceventi, alla riduzione delle complicanze infettive (specialmente virali), a una migliore prevenzione, e a un trattamento più efficace del rigetto acuto. Il rigetto cronico rappresenta tuttora la principale causa di mortalità a distanza, sotto la forma clinica della cosiddetta 'sindrome da bronchiolite obliterante', la cui eziopatogenesi e fisiopatologia, e il conseguente trattamento, sono attualmente oggetto di studi clinico-sperimentali.
Gli indiscutibili successi registrati, in un arco di tempo relativamente limitato, nel campo dei trapianti d'organo non devono indurre a trascurare le difficoltà e i problemi ancora non completamente risolti, tra i quali il più importante è rappresentato, al di là dalla 'patologia cronica del trapianto', dall'insufficiente numero degli organi disponibili, che costituisce un fattore limitante per l'ulteriore diffusione della chirurgia sostitutiva. Inoltre, sarebbe particolarmente utile poter prolungare la conservazione ipotermica degli organi solidi, in modo tale da effettuare i trapianti secondo un'ottimale compatibilità immunologica tra donatore e ricevente e realizzare un più efficace interscambio d'organi (organ sharing). In un prossimo futuro, la terapia genica potrebbe offrire la possibilità di trattare prima dell'intervento l'organo da trapiantare (umano o animale che sia), permettendo al vettore virale di penetrare il sito di azione ed evitando nel contempo la risposta immunologica che normalmente si verifica nei confronti del vettore stesso quando viene somministrato per via endovenosa.
Naturalmente, l'impossibilità di sospendere la terapia immunosoppressiva − non ancora del tutto scevra di effetti collaterali anche seri, quali una maggiore incidenza di infezioni e tumori maligni − influenza negativamente la qualità di vita dei pazienti trapiantati. A tale proposito, particolarmente promettente appare lo studio del 'microchimerismo', cioè della colonizzazione degli organi del ricevente da parte di cellule immunocompetenti provenienti dal donatore. Questo fenomeno è stato recentemente osservato in alcuni pazienti che erano stati sottoposti a trapianto di rene o di fegato negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo. Il trapianto contemporaneo, dallo stesso donatore, del midollo osseo e del fegato o di un altro organo solido potrebbe infatti indurre nel ricevente un'analoga forma di parziale tolleranza immunologica, la quale renderebbe possibile la riduzione o addirittura l'eliminazione della terapia immunosoppressiva senza che si incorra in fenomeni di rigetto. In conclusione, si deve sottolineare che non solo casi selezionati ma la maggior parte dei pazienti sottoposti a trapianto d'organo presentano un notevole miglioramento della qualità di vita, tale da consentire il pieno reinserimento nell'attività lavorativa e di relazione, e soprattutto il recupero dell'omeostasi ormonale, senza alcun rischio di patologie nella donna in caso di gravidanza. Infatti numerose donne sottoposte a trapianto di organi, quali il rene o il fegato, hanno felicemente portato a termine una o più gravidanze senza alcuna conseguenza dannosa per sé stesse o per i loro figli.
Cortesini, Renna Molajoni 1987: Cortesini, Raffaello - Renna Molajoni, Elvira, Fondamenti dei trapianti d'organo, Roma, Il pensiero scientifico, 1987.
Danovitch 2000: Danovitch, Gabriel M., Handbook of kidney transplantation, 3. ed., Philadelphia, Williams & Wilkins, 2000.
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Tavola I
Il trapianto d’organo, che costituisce una delle maggiori conquiste della medicina, presenta un interesse che sconfina dalla scienza medica spingendosi, per le particolari scelte e decisioni che implica, nel campo del diritto morale e delle scienze sociali in genere. Anche la chirurgia, con il trapianto, arriva a superare la visione individualista che le è propria: il merito del trapianto non viene infatti riconosciuto al chirurgo, cioè a un unico operatore, poiché l’intervento richiede un lavoro di équipe, il quale coinvolge aspetti multidisciplinari che vanno dal settore immunologico a quello internistico.
La problematica posta dal trapianto d’organo ha visto sin dall’inizio coinvolti teologi, moralisti, giuristi e legislatori, e grazie al contributo di ciascuno la relativa legislazione, nel corso degli anni, è andata incontro a diverse modifiche. Per meglio rispondere alle esigenze dei pazienti in attesa di trapianto, la legge deve semplificare al massimo le procedure relative al prelievo e al trapianto stesso, tutelando però nel contempo i principî giuridici e morali fondamentali, quali il diritto alla salute e all’integrità del donatore vivente, la libertà del paziente di affidarsi alle cure del sanitario di sua scelta.
Non esiste trapianto d’organo senza donazione (tranne nel caso del trasferimento dell’organo da una sede all’altra di uno stesso corpo), e la donazione implica il concetto di ‘espianto’, cioè il prelievo dal soggetto donatore (cadavere o vivente) dell’organo che verrà successivamente trasferito nel soggetto malato (ricevente). La donazione d’organo rappresenta un principio sociale che dovrebbe essere considerato un dovere morale di solidarietà. Nella società, laica e non, tale atto è necessario perché dà la possibilità a coloro che sono in attesa di trapianto di ripristinare la propria integrità da un punto di vista non soltanto organico ma anche relazionale. La donazione di un organo, cioè di una parte di sé, esprime sentimenti di generosità e di amore per il prossimo che toccano i più elevati livelli di significato etico che l’uomo conosca. Educare in tal senso la società e indurre l’individuo a considerare la donazione come un atto implicito è compito di chi definisce le priorità sociali nel programmare l’informazione. Tutte le principali confessioni religiose sono favorevoli al prelievo d’organo. Tutti però si trovano d’accordo sulla necessità che la donazione costituisca comunque una libera scelta e non una costrizione. L’altruismo è caratteristica della specie umana. Secondo la letteratura più recente, proprio l’altruismo, sotto forma di donazione spontanea (e specificatamente di condivisione del cibo), è stato alla base del processo di ominazione e dello sviluppo della cooperazione fino alla creazione della società organizzata. Il trapianto ha per la prima volta reso possibile la realizzazione di un atto di donazione volontaria e di condivisione assoluta di una parte di sé (o di un proprio congiunto), generando problemi nuovi che non sono facilmente affrontabili sul piano sociale e psicologico. La donazione di per sé stessa è strettamente connessa al sacrificio, tematica che, insieme all’altruismo, permea la storia, il pensiero, le religioni, i miti e le fantasie della nostra specie; basti pensare al cristianesimo, che si fonda proprio sull’idea della donazione e del sacrificio compiuto per amore dell’uomo. La donazione è spesso collegata a una sorta di ‘passaggio di fase’, a un cambiamento creativo, a una rottura con l’ordine precedente. Sono numerose le grandi figure eroiche, spesso semidivine, che intervengono nel mondo mediante il sacrificio personale e l’altruismo (Prometeo, Marduk, Decio Mure, ecc.), e ogni volta che l’uomo dona egli cerca e ricrea in sé stesso quel mondo mitico che costituisce parte integrante del suo essere. Questi riferimenti al mito sono facilmente spiegabili se consideriamo che esso rappresenta una via maestra per la comprensione della psiche profonda: miti, teogonie, concezioni religiose, sono la trasposizione su un piano esterno di immagini primordiali prodotte da Homo sapiens come peculiare carattere specie-specifico. Nell’uomo, infatti, come affermato da Carl Gustav Jung, esistono delle strutture psichiche funzionali, omologabili agli istinti degli animali, che sono vere e proprie strutture a priori della mente (‘archetipi’) e che, mediante le immagini simboliche, governano e rappresentano i temi fondamentali dell’esistenza umana. La donazione di un organo corrisponde all’espressione del livello più alto di sacrificio, e in quanto tale ravvicina il donatore alle figure mitiche che ne sono l’emblema, prima fra tutte quella di Cristo.
I progressi della medicina hanno creato un monstrum quale il cadavere a cuore battente, con il quale la cerchia parentale si deve confrontare in tempi ristretti, spesso sotto la pressione di richieste esplicite e implicite di grande forza. Pertanto la donazione d’organo, se da un lato si muove all’interno di strutture concettuali preesistenti e consuete, deve dall’altro cimentarsi con la novità consistente nel fatto che, nel caso del donatore cadavere, la donazione stessa è collegata a una morte che spesso non si ha né il tempo né la capacità socioculturale di riconoscere e accettare. In
altre parole, se da un lato donare l’organo di un parente può rappresentare un modo per far sopravvivere qualcosa del morto, dall’altro tale atto coincide necessariamente con la fine dell’apparenza della vita (che il cadavere a cuore battente sembrava ancora conservare) e con la conseguente rinuncia a ogni speranza.
Naturalmente il riferimento all’altruismo non deve far dimenticare le determinanti inconsce che si attivano. La donazione da vivente e quella da cadavere presuppongono entrambe un lutto, parziale (sotto forma di mutilazione) nel primo caso, assoluto nel secondo. Le due situazioni presentano analogie ma anche differenze. In entrambe si attivano fantasie di potenza (‘ridare la vita’), che possono contribuire a rendere più difficile il processo di elaborazione del lutto nella donazione da cadavere o la corretta valutazione dell’atto (che costituisce pur sempre una grave mutilazione) nella donazione tra vivi.
Per quanto riguarda la donazione da cadavere, sono spesso presenti fantasie di sopravvivenza, di riparazione della morte e di immortalità che, sebbene consentano un parziale compenso della lacerazione emotiva provocata dalla morte di un familiare, a volte non permettono la realistica accettazione della perdita e la ricostruzione di un nuovo equilibrio. La donazione da parte del gruppo parentale del donatore cadavere è infatti una scelta difficile, condizionata dall’evento emozionale. Generalmente il donatore è deceduto per cause improvvise ed è un soggetto giovane. È necessario che il parente cui spetta consentire il prelievo degli organi sia disposto a elaborare il lutto per la morte di un congiunto il cui cuore comunque non si è fermato. Il cuore che batte è sinonimo di vita, per chi non conosce la definizione di morte cerebrale. La cattiva informazione, che esalta gli eventi di risveglio improvviso dal coma senza specificarne il grado e omettendo che l’individuo non era cerebralmente morto, consente e potenzia l’equivoco; d’altro canto, donazioni di organi che avvengono dopo eventi che hanno suscitato particolare interesse nella gente riescono a incrementare il consenso alla donazione.
Nel caso della donazione da vivente, solitamente il donatore è un parente, la madre o uno stretto consanguineo, che si trova ad affrontare le paure e le angosce connesse all’operazione di espianto e le limitazioni fisiche conseguenti alla donazione. Dalla stretta parentela può derivare inoltre la sensazione di un obbligo morale, di un atto dovuto, che rischia di interferire pesantemente nella decisione sminuendone la componente di libero atto volontario. Questo comporta il pericolo che la scelta di donare il proprio organo diventi un ‘agito’ non sufficientemente meditato, carico di implicazioni psicopatologiche facilmente cronicizzabili, per esempio del tipo ‘ruminazione depressiva’. Se la donazione proviene invece da un non consanguineo, in genere dal coniuge, si devono considerare con attenzione i meccanismi relazionali che entrano in gioco: il donatore è ovviamente depositario di uno straordinario potere nei confronti del ricevente, e questo può far nascere (o amplificare, se preesistenti) dinamiche di manipolazione, che sono potenzialmente distruttive per la vita della coppia. Infine, è probabile che nel donatore che vende un organo trovandosi in stato di necessità economica siano prevalenti i sentimenti di rabbia, di depressione e di colpa, i quali possono interferire in misura notevole con la risoluzione del cosiddetto ‘lutto da donazione’, tanto più considerando il fatto che in questi casi sono assenti quegli aspetti eticamente validi e socialmente riconosciuti che permettono uno sbocco sublimatorio.
Restano da considerare le implicazioni psicologiche della ricezione di un organo estraneo. Ogni individuo ha una sua integrità biologica, che viene mantenuta mediante il sistema di riconoscimento dei propri costituenti. Sulla membrana delle singole cellule vi sono specifiche strutture (antigeni) deputate al riconoscimento di strutture estranee, allo scopo di impedire commistioni con cellule, tessuti od organi non appartenenti all’individuo stesso. In caso di mancato riconoscimento, s’innescano meccanismi di difesa dell’integrità (immunologici), denominati ‘rigetto’, che attaccano l’ospite. Affinché il trapianto d’organo possa attecchire, deve essere dunque controllato questo sistema di riconoscimento. La ricerca medica ha permesso di individuare mezzi chimici e fisici che inattivano il sistema deputato alla difesa dalle aggressioni esterne, esponendo però l’individuo ai rischi di una ridotta capacità di reazione alle infezioni o addirittura ai tumori. Tutto ciò può essere riportato sul piano della psiche.
Come l’organismo è un insieme di funzioni che si sviluppano sulla base di particolari strutture secondo diversi livelli di organizzazione anatomofunzionale, così la psiche è un insieme di comportamenti integrati tra loro. È comunemente accettato che stimoli fisici possono provocare risposte cosiddette psicologiche, e che stimoli cosiddetti psicologici possono provocare risposte somatiche. L’organismo-psiche risponde ai diversi stimoli integrando le unità funzionali tra loro, così che ‘somatico’ e ‘psicologico’ non risultano due realtà nettamente distinte ma piuttosto un unico sistema integrato. Quindi, nel ricevere l’organo, l’individuo altera la propria integrità non solo biologica ma anche psichica. La presenza di un organo estraneo all’interno del corpo implica infatti un’alterazione dell’autorappresentazione e del senso di identità: ciascun individuo ha uno schema di rappresentazione del proprio Sé unico e assolutamente specifico, che costituisce l’interfaccia e il tramite con il mondo esterno. Tale schema risulta composto da una combinazione di immagini interne e di raffigurazioni fisiche, la cui stabilità è essenziale per la continuità dell’Io. Il trapianto di un organo può comportare una modificazione di queste rappresentazioni interne (simile a ciò che si osserva, per es., nelle mutilazioni, nelle ustioni sfiguranti, nelle malattie dermatologiche, ecc.), che si traduce in un’alterazione più o meno grave dei propri sistemi di riferimento e di relazione con il mondo. Nel caso di trapianto da cadavere si può inoltre ipotizzare la comparsa di sentimenti di depressione e di colpa riconducibili a un quadro del tipo ‘sindrome del sopravvissuto’, spesso complicati da implicazioni e suggestioni etiche provenienti dall’esterno. I riceventi da vivente dovranno infine confrontarsi con le dinamiche di poteremanipolazione di tipo sadomasochistico alle quali abbiamo già accennato in precedenza.
Di grande rilievo sono anche le fantasie e gli atteggiamenti assunti nelle fasi che precedono l’intervento. A seconda delle caratteristiche di personalità del ricevente si possono osservare aspettative ‘gonfiate’ e irrealistiche, che sono d’ostacolo nell’affrontare le procedure e le conseguenze del trapianto, oppure atteggiamenti opposti, del tipo minimizzazione e negazione, che depotenziano gli investimenti affettivi nell’evento riducendo la partecipazione e l’impegno del paziente. Queste fantasie si riflettono anche nei comportamenti che il paziente in attesa di trapianto può avere riguardo alla donazione, che si possono dividere in due tipologie fondamentali: comportamento passivo, con attesa rassegnata, rinuncia, fantasie di delega, rabbia; comportamento attivo, con integrazione o promozione di associazioni di pazienti che incoraggiano l’educazione alla donazione e sollecitano le autorità a perseguire l’obiettivo dell’incentivazione alla donazione, oppure con il perseguimento individuale dello scopo fino a comprare quando possibile (trapianto di rene) l’organo da un soggetto sano non consanguineo nei Paesi nei quali ciò è legalmente permesso (per es., l’India).
Il paziente affetto dalla patologia d’organo, a causa della sofferenza fisica, sopravvive a volte esaltando, soprattutto nell’ambito familiare, il suo egocentrismo, la rassegnazione, la negazione e il distacco emotivo, condizionando in tal senso anche l’ambiente in cui vive. Con il ripristino della funzione d’organo attraverso la donazione, la vita per lui acquista un nuovo significato, e il gruppo parentale si avvale anch’esso di questa nuova situazione. La donazione permette quindi una restituzione di significato a una vita cui è difficile adattarsi, e cui a volte ci si adatta al prezzo di una sterilità emotiva che può essere tanto distruttiva quanto la malattia fisica. Ricevere un organo è la testimonianza che in questo orizzonte personale così inaridito dalla sofferenza vi è la possibilità di un atto di liberalità assoluta che rompa la soffocante assenza di senso e di speranza causata dalla malattia. La donazione quindi, oltre alla restituzione della salute e dell’efficienza fisica, può portare a un recupero e a un arricchimento di un mondo emozionale da cui il malato progressivamente si era estraniato.
Queste riflessioni mostrano come il trapianto d’organo comporti conseguenze e implicazioni che vanno al di là degli aspetti meramente fisiologici. Una corretta valutazione delle dinamiche psicologiche in gioco e, se necessario, l’intervento dello specialista, possono certamente aiutare il soggetto trapiantato e la sua cerchia familiare a sostenere il confronto con un impegno difficile, quale un trapianto d’organo certamente rappresenta.