trasformismo
Termine entrato nel linguaggio politico italiano tra la fine del 1882 e l’inizio del 1883 per definire, con chiara connotazione polemica, la politica inaugurata in quel periodo dall’allora presidente del Consiglio A. Depretis. Il vocabolo ebbe origine da un’espressione pronunciata dallo stesso Depretis in un discorso tenuto a Stradella l’8 ott. 1882, nell’imminenza delle prime elezioni politiche a suffragio «allargato». In risposta a coloro che criticavano gli accordi da lui stipulati in campagna elettorale con la destra di M. Minghetti e lo accusavano di aver così snaturato il programma della sinistra, Depretis si giustificava con una frase destinata a restare celebre: «Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il mio modesto programma, se vuole trasformarsi e diventare progressista, come posso io respingerlo?». In realtà la scelta operata da Minghetti nel 1882 era motivata non solo e non tanto da un’evoluzione politico-ideologica progressista, quanto dalla presa d’atto del carattere irreversibile della sconfitta subita con la cd. rivoluzione parlamentare del marzo 1876 e con le elezioni dell’ott. 1882, dal fatto che, attuate le riforme volute dalla sinistra, le divergenze sui programmi futuri si attenuavano sin quasi a scomparire, e soprattutto dalle preoccupazioni circa la possibile irruzione nell’arena parlamentare di forze non legittimate (preoccupazioni comuni, come vedremo, a larga parte della sinistra di governo). La presenza di forze politiche antisistema sul versante sia di destra sia di sinistra era d’altronde una realtà oggettiva del quadro politico e sociale non solo dell’Italia liberale della seconda metà dell’Ottocento. Il più importante precedente del t. depretisiano va sicuramente individuato non nel connubio realizzato da Cavour con Rattazzi nel Parlamento subalpino, ma nella Francia degli esordi della Terza repubblica, la cui stessa nascita si dovette a un accordo fra i «centri» (monarchici orleanisti e repubblicani moderati) che videro praticamente obbligata la via dell’unione di fronte all’esigenza di tutelare le istituzioni dagli attacchi delle forze politiche antisistema. Furono soprattutto preoccupazioni di questa natura a rendere necessaria e urgente, agli occhi dei moderati di ambo le parti in Francia e in Italia, un’operazione politica volta a superare gli schieramenti tradizionali e a dar vita così a una nuova grande maggioranza «centrista», teoricamente inattaccabile e capace dunque di garantire l’area della legittimità dalle possibili incursioni delle forze antisistema, fino allora neutralizzate dalla stessa ristrettezza del suffragio. La fine del t. «storico» viene comunemente fatta coincidere con la morte di Depretis (luglio 1887) e con l’ascesa di F. Crispi alla presidenza del Consiglio. In realtà, pur tenendo conto delle cospicue differenze fra i due statisti, proprio la successione di Crispi, che ereditò dal suo predecessore sia la compagine ministeriale sia la maggioranza parlamentare, segnò la definitiva affermazione del modello trasformista in senso lato: di un modello, cioè, caratterizzato dalla presenza di una «grande maggioranza» mobile e plastica, pronta a spezzarsi e a ricomporsi attorno alla figura di singoli leader, non fondata su precise pregiudiziali di programma, ma ugualmente capace di monopolizzare l’area della legittimità costituzionale, relegando le opposizioni ai lati estremi e simmetrici dello schieramento parlamentare. La stessa grande maggioranza giolittiana, volta dinamicamente ad allargare ulteriormente gli spazi politici della rappresentanza e della dialettica parlamentare, rimase all’interno del grande modello centrista-trasformista, costituendo Sonnino un’alternativa a Giolitti interna alla maggioranza liberale e non esterna a essa. L’operazione politica avviata nell’autunno 1882 nelle intenzioni di Depretis, suo principale promotore, si iscriveva in una logica e in una cultura di segno positivista e moderatamente progressista in cui il termine «trasformazione» aveva una connotazione implicitamente positiva. Al contrario nel giudizio dei contemporanei il termine t. divenne subito sinonimo di politica senza principi, di amoralità, di sostanziale corruzione: una categoria che non solo è stata usata come chiave di lettura dell’intera storia politica unitaria ma addirittura è stata assunta a elemento cardine del carattere nazionale. In realtà il t. non nasceva da una connaturata inclinazione al compromesso dei politici italiani, ma era il portato delle grandi difficoltà che avevano accompagnato la nascita stessa dello Stato unitario e della cronica esiguità delle basi di consenso di cui esso godeva, stretto dal rifiuto sia della maggior parte del mondo cattolico della realtà stessa dell’Unità e sia delle forze rivoluzionarie extraparlamentari e parlamentari di estrema sinistra. Tanto meno era il prodotto del carattere nazionale degli italiani. Era invece la risposta a un problema reale che riguardava, in Europa, non solo l’Italia e la Francia, ma tutti i Paesi in cui erano profonde le fratture politico-ideologiche (o anche religiose o etnico-linguistiche, si veda il caso del Belgio), forte l’eredità dei conflitti passati e debole il consenso alle istituzioni. Per essi il modello di alternanza di tipo anglosassone fu ritenuto, a torto o a ragione, prematuro e pericoloso, in quanto capace di rivelare e di approfondire lacerazioni e fratture preesistenti e di offrire più larghi spazi di intervento alle forze della rivoluzione e a quelle della reazione assolutistica.