TRIBÙ
. Etnografia. - È un gruppo sociale di ordine semplice, i cui membri parlano un dialetto comune, hanno un unico governo semplice e agiscono insieme in un interesse comune quale sarebbe la guerra (W. H. Rivers). Tuttavia questa definizione, sebbene ampia, è ancora troppo rigida, non adattandosi del tutto ai diversi casi. Sarebbe forse sufficiente dire che la tribù è un gruppo etnico (nel senso più largo di questa parola) i cui membri e quelli dei gruppi vicini riconoscono costituire un insieme naturale. Infatti, a parte il termine di "gruppo" che è il più vago per designare un certo numero di uomini, e appunto per questa sua qualità spesso necessario, la tribù è il gruppo meno definito e meno definibile di tutti quelli che costituiscono il quadro sociale dell'umanità. La tribù sarà meglio definita designando la posizione che essa occupa in questo quadro, le cui principali suddivisioni sono le seguenti:
la famiglia, limitata a padre, madre e figli. Gruppo sessualmente bilaterale, vale a dire in cui la parentela è determinata dai due genitori;
la grande famiglia, che comprende il padre più vecchio di una schiatta, e tutti i suoi discendenti con le mogli e i figli, e, eventualmente, anche coloro la cui vita è associata a quella della grande famiglia;
il clan: con questo termine non si deve intendere l'organizzazione del clan scozzese, dal quale proviene il nome, che era una specie di grande famiglia; esso ha acquistato un significato preciso in seguito alle osservazioni fatte fra i popoli selvaggi presso i quali presenta in tutti i continenti, esclusa l'Europa, un'importanza notevole. Il clan è un'organizzazione sessualmente unilaterale; in esso, cioè, la parentela è determinata da un solo genitore, da parte sia patrilineare, sia matrilineare; nello stesso tempo esso è caratterizzato dall'esogamia, vale a dire dall'obbligo di cercare il coniuge fuori del proprio clan;
la fratria (non nel senso della fratria greca) o, secondo numerosi autori, la "classe matrimoniale" è, in confronto, quello che la grande famiglia è per la famiglia, nel senso che la fratria può essere costituita sia da più clan, sia (ma su questo non tutti gli autori sono d'accordo) di un clan molto vasto che, con un altro clan opposto (esogamici l'uno rispetto all'altro), forma il gradino sociale superiore;
la tribù, formata, infatti, secondo le regioni, sia da due, e talvolta 4 o 8 fratrie, sia da più clan, sia da più grandi famiglie o direttamente da famiglie isolate, o anche da gruppi meno definiti nei quali tuttavia l'elemento famiglia abbia sempre la sua parte;
la nazione, formata da una confederazione di tribù o, eventualmente, da elementi a questa inferiori purché il tutto si distacchi nettamente dalle nazioni vicine.
Le classi di età, le caste, ecc., testimoniano stratificazioni, per così dire orizzontali, non facendo parte dell'organizzazione suddetta, la quale può essere definita verticale.
La tribù è dunque la forma più indefinita di questa organizzazione, ma ne è anche la più adattabile, più universalmente riconosciuta, e che deve essere considerata come la forma di transizione fra i gruppi locali e i grandi gruppi storico-politici (nazioni e stati).
Bibl.: W. H. Rivers, Social organisation, Londra 1924; R. Lowie, Traité de sociologie primitive, Parigi 1935.
Antichità classica. - Le tribù del mondo classico si contraddistinguono per non essere ormai più suddivisioni di una stirpe (benché in tal senso esistano tracce fra gl'Italici, per es., fra i Vestini), ma di una città; sono, cioè, divisioni politiche. Per le tribù greche, cfr. file.
Il nome di tribù (tribus) non è usato in Roma se non nel senso di una frazione dello stato, o piuttosto del territorio. Non sappiamo se si possa risalire ipoteticamente a un tempo nel quale, come negli ordinamenti umbri attestati dalle note tavole di Gubbio, anche a Roma la parola tribus abbia indicato lo stato intero nel suo elemento territoriale, allo stesso modo che la parola populus ha sempre indicato l'elemento personale. Può peraltro deporre a favore di siffatta congettura il noto progresso degli organi fondamentali dell'antichissma civitas romana dall'uno al trino: come il primitivo senato di cento membri si portò nel corso dell'epoca regia a 300, e come le dieci giurie originarie diventarono 30, si potrebbe pensare a un analogo fenomeno di triplicazione per quanto riguarda le tre famose tribù dei Ramnes, Tities, Luceres.
A parte ciò, molti altri problemi sono suscitati dal ricordo di queste tribù. Accanto all'opinione prevalente, che si tratti di tribù genetiche analoghe ad altrettali ϕυλαί del mondo greco, è stata autorevolmente affacciata, soprattutto da J. Beloch, la tesi che le identifica coi tre quartieri della città del Septimontium, cioè coi territorî di quelle che più tardi si chiamarono le tribù Succusana, Palatina ed Esquilina (intendendo naturalmente come annesso a ciascun quartiere il contado adiacente). Le due opinioni non sono, a rigore, incompatibili, perché anche lo stanziamento dei popoli in nuove sedi avveniva preferibilmente secondo il principio della coesione fra gli appartenenti a ciascuna stirpe. Più difficile è rendersi conto dell'appartenenza etnica delle varie tribù. È noto che gli antichi, fondandosi su vaghe assonanze, riconnettevano i Ramnes a Roma e Romolo, i Tities al re sabino Tito Tazio che secondo la tradizione avrebbe regnato con Romolo stesso, i Luceres ai lucumoni etruschi; arrivando così a far coincidere le tre tribù coi tre popoli (Latini, Sabini, Etruschi) che hanno nel corso dei primi secoli contribuito alla formazione della civitas. A questa opinione accedono molti scrittori moderni. Peraltro già Varrone (De ling. lat., V, 55) riconosceva omnia haec vocabula tusca; e questa tesi ha avuto la conferma più decisiva negli studi dello Schultze intorno ai nomi proprî latini. Se questa constatazione è tale da confortare l'ipotesi del dominio etrusco in Roma, fors'anche quella più radicale della fondazione etrusca della città come tale, essa non va tradotta peraltro nell'opinione che soltanto questi sopravvenuti abitatori della regione, cioè i patrizî, siano stati iscritti nelle tribù: se da essi le tribù hanno preso nome, e se la loro eventuale origine genetica risale alle stirpi immigrate, ciò non toglie che al seguito delle genti dominanti siano stati iscritti anche nelle tribù, come nelle curie e nei quadri delle legioni, gli abitanti latini (plebei), che erano divenuti loro clienti prendendo i singoli appezzamenti di terreno in possesso precario.
Le tre tribù primordiali scomparvero presto per dar luogo a una nuova circoscrizione, di carattere amministrativo, la cui base principale fu data dai possessi fondiarî nel contado: la tradizione attribuisce anche questa istituzione, come quella delle centurie, al re Servio Tullio, ma la critica moderna è d'accordo nel datarla ai primi tempi della repubblica, tra la fine del sec. VI e il principio del V. Nel suo assetto definitivo, il solo che ci sia noto con sufficiente approssimazione, il sistema delle tribù comprende due ordini di circoscrizioni: le quattro tribù urbane, corrispondenti ai quartieri, o regiones, della città ampliata con l'annessione del Campidoglio e del Quirinale (tribù Palatina, Succusana, Esquilina e Collina); e le tribù rustiche, rispondenti a frazionamento topografico del contado. È però molto discussa l'originarietà della distinzione, e tale discussione si complica con tutte le incertezze fra cui si naviga nello studio del diritto pubblico dell'epoca.
Alcuni punti sembrano degni a questo riguardo di speciale rilievo. L'uno è che più indietro si risale nel tempo, e più sembra certo che unico titolo per l'iscrizione nelle tribù (con le conseguenze di essere tenuti al servizio militare e al tributo, e di prender parte al voto nelle nuove assemblee repubblicane) fosse il possesso fondiario. D'altra parte, non sembra che si debba aver avuto riguardo, per quanto concerne tale iscrizione, ai grandi possessi che le famiglie patrizie si erano ritagliati sull'ager publicus (occupatorius), ma ai possessi dei plebei: forse, da principio, a quello stesso godimento precario a titolo di clientela, del quale sopra si è fatto parola, ma certo in progresso di tempo prevalentemente, e poi esclusivamente, a quella piena proprietà ex iure Quiritium, che alle famiglie plebee era assegnata sia su terre non occupate dai patrizî sia su parti appositamente sottratte dal territorio di altre città sconfitte in guerra. Se si pensa che, quando la plebe cominciò a riunirsi nelle sue proprie assemblee rivoluzionarie, votò sempre per tribù, non sembrerà troppo audace l'opinione, più volte affermata da studiosi autorevoli, che la distribuzione dei cittadini in tribù fosse originariamente propria della sola plebe.
Quanto all'altra opinione (suffragata, p. es., dal De Sanctis e dal Pais), per cui la circoscrizione in esame si sarebbe in origine limitata al solo contado ad esclusione della città, mentre le circostanze già indicate ed altre ancora l'appoggiano, non mancano difficoltà. Cominciando dagli argomenti a favore, è noto che per un lungo periodo di anni, prima che sul territorio tolto ai Veienti si costituissero le tribù dalla 22a alla 25a (387 a. C.), le tribù furono (calcolandovi le urbane) in numero di ventuna: in quest'ordine d'idee, fa impressione l'esistenza di un'assemblea costituita non già da ventuna ma da 17 tribù, cioè appunto da quante tribù rustiche esistevano nell'epoca suddetta. È vero che questa assemblea funzionava in epoca storica per la sola elezione del pontifex maximus, carica che non divenne elettiva se non tra il 292 e il 219; le 17 tribù erano dunque, per quanto sappiamo, estratte a sorte fra le 33 o 35 ormai esistenti. Ma è difficile pensare che ciò sia stato veramente fatto per riguardo all'autorità sacerdotale, che doveva parere e non parere elettiva: se si fosse voluto arrivare a un compromesso simile, si sarebbe fatta in ogni caso intervenire la maggioranza delle tribù, cioè 18. Più naturale si presenta la congettura che l'elezione sia stata storicamente preceduta da una specie di acclamazione del pontefice massimo già designato dai suoi colleghi, e che tale uso sia nato quando le tribù erano 17: le idee sempre più diffuse intorno alla sovranità popolare avrebbero finito per dare all'acclamazione il carattere di un'elezione fittizia.
D'altronde, gli storici di Roma ci fanno in qualche modo assistere alla creazione delle tribù urbane, collocandola per di più in un'epoca della quale si poteva avere un principio di documentazione. Si dice, infatti, che nel 312 a. C., per speciali necessità militari, il censore Appio Claudio Cieco iscrivesse nelle tribù tutti gli abitanti, senza nessun riguardo al possesso fondiario: per rimediare a questo provvedimento, che faceva prevalere nelle assemblee elementi infidi, Q. Fabio Rulliano, censore nel 304, avrebbe ritratto fuori dalla lista delle tribù (rustiche) tutti i proletarî, per riunirli - dice Livio (IX, 46, 14) - in quattro tribù, che chiamò urbane (in quattuor tribus coniecit, urbanasque eas appellavit). Se vogliamo prestar fede a questo racconto, dobbiamo rieonoscere che nel 304 le tribù urbane non esistevano; né pare che basti, per accordare le idee oggi prevalenti con Tito Livio, ammettere che le quattro tribù corrispondenti alle regioni della città ci fossero fino ab antiquo, salvo che non avrebbero portato il nome di urbane.
Eppure vi è un punto fondamentale, del quale sembra non ci si possa render conto se si negano per il sec. V e IV le tribù urbane; ed è l'origine del tribunato della plebe. Che il nome dei tribuni derivi da tribus è cosa assolutamente certa; e, mentre non si ha nessun ricordo che in qualsiasi momento essi siano stati tre (come si dovrebbe ammettere per riconnetterli con le tribù primordiali o con i tribuni militari che da esse derivano), il numero originario di quattro, riconosciuto come originario dalla critica più autorevole, riattacca indubbiamente l'istituzione alla plebe urbana, dimostrando che fin dal principio del sec. V alle quattro regioni dell'urbe si dava usualmente il nome di tribus. Quest'ultima considerazione porterebbe a scartare come erroneo il passo citato di Livio, non soltanto nel senso che Fabio Rulliano non sarebbe stato il primo a istituire le quattro tribù urbane, ma anche nel senso - molto più importante - che il proletariato cittadino vi sarebbe stato iscritto fino ab antiquo, sicché tutto il movimento compiutosi tra il 312 e il 304 si sarebbe ridotto prima a ripartirlo anche fra le tribù rustiche e poi a chiuderlo nuovamente nelle urbane. Altrimenti bisognerà acconciarsi ad ammettere che nel sec. V e nel IV vi fossero due maniere di concepire le tribù: l'una ufficiale, cioè sancita dai censori patrizî, che avrebbe conosciuto soltanto tribù rustiche comprendenti i plebei possessori (poi proprietarî) di terre; l'altra plebea, cioè rivoluzionaria, che avrebbe compreso anche i plebei non possessori, iscrivendoli così nelle rustiche come (e principalmente) in tribù corrispondenti alle regiones dell'urbe. Mentre le circoscrizioni e iscrizioni ufficiali sarebbero state prese a base del tributo e del servizio militare, le plebee avrebbero funzionato nella nomina dei tribuni e nella votazione dei plebisciti, da principio per la sola plebe urbana e poi, dopo l'adesione della plebe rustica al movimento rivoluzionario, per tutti i plebei dello stato romano. Se così fosse, la riforma di A. Claudio Cieco s'inserirebbe perfettamente nel movimento iniziato nel 367, e in continuo progresso nei decennî successivi, verso il trionfo delle rivendicazioni plebee, e la controriforma di Q. Fabio Rulliano sarebbe una semplice attenuazione della concessione già fatta, conservandone però il principio dell'iscrizione di tutti i cittadini nelle tribù ufficiali. L'uno e l'altro provvedimento avrebbe preparato quella parificazione dei plebisciti alle leggi votate da tutto il popolo nei comizî centuriati, che fu sancita nella legge Ortensia del 286. Questo sistema, che qui esponiamo con ogni riserva di futura indagine, sembra il solo capace di conciliare le contraddittorie attestazioni delle fonti.
Le tribù rustiche primamente istituite furono, come si è accennato, 16; i loro nomi (Aemilia, Camilla, Claudia, Cornelia, Fabia, Galeria, Horatia, Lemonia, Menenia, Papiria, Pollia, Pupinia, Romulia, Sergia, Voltunia, Volturia o Vet.), sono tutti nomi di casate patrizie, e indicano perciò i territorî nei quali quelle gentes avevano avuto possessi successivamente distribuiti fra i plebei, oppure i territorî confinanti coi possessi di ciascuna. A queste sedici venne ben presto ad aggiungersi la 17a tribù rustica, la Clustumina, derivata da assegnazioni viritane di campi nel territorio della vinta città di Clustumerium (intorno al 450 a. C.). A partire da questo momento tutte le tribù ebbero nomi locali, e tutte derivarono da assegnazioni di fondi in territorî tolti ai nemici: nel 387, nel territorio della città etrusca di Veio furono fondate la Stellatina, la Tromentina, la Sabatina, l'Arnensis (o Arniensis); nel 358, nel territorio dei Volsci, la Pomptinia e la Poplilia (o Publilia), e sempre nel territorio della stessa stirpe nel 332 la Scaptia e la Maecia, nel 318 l'Oufentina (o Off.) e la Falerna; più tardi ancora, nel 299, sul territorio presso ai Sabini intorno all'odierna Frosinone furono create le tribù Aniensis e Teretina; infine, dopo un lungo intervallo, furono ancora create nel 241 la Quirina e la Velina, ritagliate sul territorio dei Pretuziani e nel Piceno. A questo modo fu raggiunto il numero di 31 tribù rustiche, 35 tribù in tutto, che rimase da allora invariato.
È facile vedere come questo incremento nel numero delle tribù non segua che da lontano, e molto lentamente, l'espandersi del predominio romano in Italia. Non solo, infatti, rimasero fuori del numero delle tribù i territorî non annessi, lasciati cioè alle città formalmente sovrane che si legavano a Roma con trattati di alleanza più o meno ineguale; ma anche fra i territorî annessi furono eretti in tribù o compresi nel territorio di tribù preesistenti soltanto quelli sui quali si fondavano colonie di cittadini romani o si effettuavano assegnazioni viritane, ad esclusione dunque dell'ager publicus nonchè del territorio lasciato alle poche città soggette (municipî; v.). Se, essendo il caso di fondar colonie, queste dovessero essere romane o latine, e se, occorrendo assegnazioni viritane, il relativo territorio andasse costituito in nuove tribù o aggregato alle preesistenti, era problema da decidere volta per volta in relazione alle varie contingenze economiche, politiche, militari: le recenti ricerche del Fraccaro in proposito sono altamente istruttive. Comunque, il rallentamento che si osserva nella costituzione di nuove tribù sin dalla fine del sec. IV, e la chiusura definitiva del loro numero nel 241, furono dovuti all'importanza sempre maggiore che la distribuzione dei cittadini fra le tribù venne ad assumere nel diritto pubblico romano. A partire dal 286, cioè dall'equiparazione dei plebiscita alle leges, una parte molto importante dell'attività legislativa era esercitata dai concilî tributi della plebe, i quali provvedevano anche all'elezione dei tribuni e degli altri magistrati plebei: sembra che subito dopo, essendo stati iscritti nelle tribù anche i superstiti del patriziato, comizî tributi di tutto il popolo abbiano cominciato a funzionare nell'elezione dei magistrati minori e in altre contingenze (v. comizio). Ora, poiché nelle assemblee romane non è la somma dei voti individuali quella che conta, ma il computo dei voti collettivi delle varie unità votanti, lo spirito tradizionalistico dominante nella città non avrebbe saputo adattarsi alle sorprese che potevano risultare dal frequente cambiamento del numero delle tribù, nonché dalla mutata proporzione fra le rustiche e le urbane. Se, dopo la legge Ortensia, si ebbe ancora un piccolo aumento, che portò le tribù da 33 a 35, ciò fu probabilmente dovuto, più che ai progressi delle armi romane nel Piceno, all'accostamento che proprio in quel momento si fece dell'ordinamento dell'assemblea centuriata a quello delle tribù (v. centuria); accostamento che non avrebbe potuto aver luogo senza arrotondare il numero di queste. Ma naturalmente la detta riforma accrebbe le ragioni di non più modificare.
Per conseguenza, già a partire dalla fine del sec. IV ma su scala sempre più larga dopo il 241, le assegnazioni coloniarie e viritane di nuove terre si sono fatte aggregando ogni zona così incorporata nello stato romano ad una o più fra le tribù esistenti, senza preoccuparsi della continuità geografica; e, perseverando nello stesso sistema, ogni tribù ha finito per avere, alla vigilia della guerra sociale, tutta una costellazione di filiali disperse per le varie parti della penisola, allo stesso modo che oggi ogni stato imperiale ha nelle varie parti del mondo le sue colonie. Né la situazione è gran fatto cambiata in seguito alla guerra suddetta: l'iscrizione degl'Italici, necessario complemento della concessa cittadinanza, fu fatta dapprima in otto sole tribù, per impedire che i novi cives fossero gli arbitri dei comizi; ma la restrizione durò poco, e presto gl'Italici furono iscritti in tutte le tribù rustiche, salvo che alcune popolazioni più ribelli furono cacciate tutte intere in una sola tribù, come i Marsi e i Peligni nella Sergia.
Questo artificioso sparpagliamento delle tribù segnò la decadenza del sistema. Avanti la guerra sociale, l'ordinamento delle tribù era ispirato all'idea dell'unica civitas, col suo agglomerato urbano e col suo contado. Se qua e là un vasto centro abitato da cittadini senza suffragio o una città formalmente sovrana interrompeva il territorio romano; se nell'insieme questo si presentava geograficamente come una specie di rocchetto, larghissimo verso i due litorali e specialmente sul Tirreno, strettissimo verso il centro della penisola, ciò non contraddiceva al principio dell'accentramento. Ma dopo la guerra sociale si è cercato per i territori nuovamente incorporati un punto di riferimento nuovo, e lo si è trovato nella città organizzata in municipio: più tardi, con una riforma radicale che oggi viene nuovamente e persuasivamente riportata alla lex Iulia municipalis di Cesare, lo stesso sistema veniva applicato sia ai paesi della Gallia Cispadana, testé assunti nella cittadinanza, sia all'antico territorio romano. Il municipio (o colonia) a cui ciascun individuo appartiene costituisce la sua origo; e questa non determina soltanto l'iscrizione in una od altra tribù, ma anche ulteriori conseguenze: in specie, con un movimento le cui tappe principali sono indicate dal frammento epigrafico di Este e dalla cosiddetta lex Rubria de Gallia Cisalpina (49-42 a. C.), la giurisdizione, che precedentemente spettava essenzialmente per tutti i cittadini al pretore urbano, passa ai magistrati municipali. Inoltre, le funzioni di preparare il censo e di fissare i tributi, nelle quali i censori erano stati prima assistiti dai capi delle tribù rustiche, non potevano più procedere allo stesso modo in un tempo nel quale, per es., Spoleto e Venosa appartenevano alla stessa tribù: anche qui furono i rappresentanti dei municipî ad assumere la responsabilità del reclutamento e dell'imposizione dei rispettivi originarî. Fino all'età di Augusto le tribù conservarono la loro importanza come unità votanti delle assemblee popolari; ma già sotto Tiberio, affidate le elezioni al senato e venuta meno la presentazione di leggi all'approvazione dei comizî, ogni funzione politica venne a cessare.
Tuttavia, il principio che ogni cittadino debba essere iscritto in una tribù rimane intatto. Naturalmente, non più nel senso che alle tribù rustiche abbiano accesso i soli proprietarî di terre: questa antica massima, che già dal tempo di Mario aveva dovuto essere praticamente rinnegata per consentire la larga immissione dei proletarî nell'esercito, diede ormai luogo al più modesto requisito dell'esser nati liberi (ingenui) e dell'esser compresi fra i municipes di una città comunale. Soltanto per i libertini (v. liberto) rimase in vigore la regola che li iscriveva tutti nelle tribù urbane. Peraltro, a conferma del principio che l'iscrizione in una tribù era essenziale per l'appartenenza alla civitas, anche quegli abitanti delle provincie che per provvedimento speciale, fosse individuale o collettivo, erano ammessi alla cittadinanza dovettero immediatamente essere iscritti: molte volte, specie nelle concessioni individuali, si lasciava al naturalizzato medesimo la scelta, ma più spesso l'iscrizione era fatta d'ufficio, secondo il criterio di riunire in una stessa tribù i provenienti di ciascuna provincia (per es., quelli provenienti dalla Gallia Narbonese nella Voltinia, gli Asiatici e Siriani nella Collina e nella Quirina).
Nel disegno storico fin qui abbozzato hanno trovato posto anche le principali indicazioni relative alle funzioni delle tribù. Qui va aggiunto che esse non hanno mai avuto, come le antiche curie, natura corporativa di persone giuridiche, ma sono state sempre mere circoscrizioni d'inquadramento della popolazione per i varî fini politici e amministrativi. Ciò non toglie che abbiano avuto dei capi, chiamati per l'appunto tribuni; i quali, se in un primo momento hanno potuto coincidere (come si è accennato) coi tribuni della plebe, in seguito, divenuti questi i rappresentanti ufficiali del detto ordine della popolazione, rimasero come semplici amministratori elettivi, scelti da ogni tribù nel proprio seno e (contro la norma che vale per le cariche propriamente politiche) illimitatamente rieleggibili. Oltre l'assistenza alle operazioni del censo, essi avevano anche in origine l'obbligo della distribuzione del soldo alle reclute: di qui il nome di tribuni aerarii, adoperato per distinguerli dagl'importanti magistrati omonimi. La coincidenza fra il numero delle tribù e quello dei tribuni erarî venne meno nel 241, quando, come si è ricordato, all'ordinamento delle tribù fu coordinato quello delle centurie: allora le funzioni passarono a dei centuriones, rispondenti in ciascuna tribù alle varie classi della popolazione; secondo le diverse opinioni in merito alla misteriosa riforma, si saranno avuti 193 o 373 centurioni. Comunque, a questi modesti funzionarî fu conservato nell'uso il nome di tribuni erarî; e ciò ebbe anzi una solenne sanzione legislativa nella nota legge Aurelia del 70 a. C., che li chiamò a comporre le giurie dei processi criminali insieme coi senatori e coi cavalieri. Ciò vuol dire, per quel che sembra, che l'appartenenza alla cavalleria non era, come da molti si ritiene, un requisito di eleggibilità alla carica: peraltro va ritenuto che la classe dei proprietarî di terre, sempre prevalente nelle tribù rustiche, si sia generalmente fatta rappresentare da membri facoltosi e autorevoli. Soltanto nell'età imperiale, ridottasi al minimo l'importanza delle tribù e dei loro rappresentanti, l'ormai umile ufficio poté essere rivestito anche da libertini: che anzi ciò sia ben presto dovuto diventar normale, risulta da quanto segue.
A partire dalla nefasta invenzione di C. Gracco, l'iscrizione dei cittadini nelle tribù ebbe una particolare importanza nelle distribuzioni gratuite e semigratuite di frumento (frumentationes). Gli studiosi hanno più volte pensato che l'apposita ripartizione dei cittadini non abbia nulla a che fare con l'appartenenza dei cittadini all'uno o all'altro dei 35 distretti: infatti, si dice, la facoltà di ricevere il frumentum publicum è riservata alla plebs urbana, e di questa, cioè dei meno abbienti fra gli abitanti della città, si tengono a tale scopo speciali elenchi; sarebbe pertanto contradittoria la formula, data da qualche iscrizione, plebs urbana quinque et triginta tribuum. Ma in realtà, se le liste speciali degl'indigenti erano necessarie, non vi è ragione di credere ch'esse fossero da ricavare interamente da quelle degli appartenenti alle tribù urbane: di contadini proprietarî che, ridotti al verde, si trasferivano in città a vivere di elemosina e di corruzione elettorale, gli storici di Roma parlano parecchie volte, ed è naturale pensare che qualche tempo passasse prima che l'iscrizione di ciascuno fosse portata dalla tribù rustica di origine a una delle urbane. In questo senso appare molto probante l'epigrafe in Corpus Inscr. Lat., VI, 10.211, dove sono indicati i contingenti forniti dalle varie tribù alle liste di una frumentatio: la grande maggioranza dei beneficiarî appartiene naturalmente alle tribù urbane, andando da 4191 capi per la Palatina a 457 per la Collina (il ricco quartiere del Campidoglio e del Quirinale); delle rustiche sono menzionate la Voltinia con 85 capi e la Romilia con 68.
Piuttosto va osservato che, perpetuandosi la pratica delle distribuzioni e scomparendo le altre funzioni delle tribù, si finì sotto il principato con indicare col nome di tribus, in senso soggettivo, il diritto all'iscrizione nella lista degli aventi diritto. Qualche testo delle Pandette mostra che i libertini potevano acquistare la tribus così intesa per danaro, e che spesso i patroni l'acquistavano per loro conto, all'atto della manumissione o successivamente, allo scopo di assicurare l'avvenire di questi loro dipendenti; ed è evidente che in circostanze simili non vi era luogo a ricercare se ricorressero nel titolare le condizioni d'indigenza per le quali si era generalmente ammessi alla frumentatio. In questo senso soggettivo, la tribus è, secondo la definizione del Mommsen, una rendita gravante sullo stato, inalienabile ma trasmissibile agli eredi, che in un certo senso può essere annoverata fra i precedenti storici del moderno debito pubblico.
La ripartizione in tribù, che certamente esisteva in molte fra le città italiche assorbite prima o dopo nella civitas Romana, non è stata generalmente conservata nei municipî romani in cui tali città si sono trasformate: un'organizzazione della cittadinanza comunale si è fatta piuttosto con la distribuzione in curie, il cui carattere religioso celebrava l'indipendenza che in questo campo le città avevano conservata di fronte a Roma. Ma la distribuzione in tribù era praticata in certe colonie, almeno nelle più tarde: così in Genetiva (v.) sappiamo che le elezioni dei magistrati locali si facevano pro tribu, e nella colonia fondata da Augusto a Lilibeo si trova l'indicazione dell'esistenza di 21 tribù. È peraltro giusta osservazione del Mommsen che fra questa organizzazione in tribù e quella usuale in curie non ci fosse praticamente gran differenza.
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