TRIBUTO
. Antichità. - Prestazione diretta e tributo. - L'ordinamento finanziario dei Greci, quale soprattutto ci appare in Atene, è molto diverso dal nostro. Di questa diversità la più forte ragione si ha nell'avversione che tutti i popoli antichi, viventi in regime di libertà, avevano per il pagamento del tributo. I Greci, per tale pregiudizio, preferivano al tributo il sistema della prestazione diretta, nonostante le difficoltà tecniche che presentava e la minore possibilità di un'equa ripartizione. Il modo più comune e più regolare con cui il cittadino ricco va incontro alle necessità della polis è la λῃτουργία, consistente nel fornire direttamente allo stato ciò di cui lo stato ha bisogno, si tratti di armare una nave, di allestire un coro, ecc. (v. liturgia: La liturgia greca, XXI, p. 306).
Sebbene, sotto la pressione di esigenze gravi, anche la forma della contribuzione in danaro finisse con imporsi, offrendo allo stato una delle maggiori risorse finanziarie, il principio che il tributo è un umiliante segno di inferiorità non fu mai completamente superato. Vi erano nell'ordinamento finanziario ateniese alcune forme di tributo che avevano un significato morale molto più forte della loro portata finanziaria; intendiamo alludere a quei tributi che coloro, i quali non fossero cittadini, pagavano come compenso del godimento di un diritto teoricamente riservato ai soli cittadini. Per es.: solo ai cittadini era lecito trafficare nell'agorà, portare gli animali a pascere nei prati comuni, risiedere permanentemente nel territorio dello stato. Anche gli stati democratici e liberali verso i forestieri, i quali non vietavano a chi non fosse cittadino la residenza stabile e la partecipazione a certe utilità offerte dalla polis, imponevano, tuttavia, ai forestieri di pagare una tassa come controprestazione del beneficio che godevano da parte della città che li ospitava: lo ξενικόν, se trafficavano nel mercato cittadino, l'ἐπινόμιον o ἐννόμιον se usavano dei pubblici pascoli, e soprattutto il μετοίκιον se avevano posto stabile residenza nel territorio della polis. Il μετοίκιον era una piccola tassa (12 dracme annue per gli uomini, 6 per le donne); ma il meteco che non la pagasse si esponeva a procedimenti gravissimi, non tanto perché con la sua negligenza defraudava la polis di quella modesta entrata, quanto perché usurpava i diritti del cittadino; commetteva. cioè, un reato verso il quale anche le città più democratiche e più larghe di concessioni verso gli stranieri erano inesorabili. Il meteco di cui non risultasse il pagamento del μετοίκιον era immediatamente venduto schiavo (Demosth., C. Aristog. I, § 57). Si comprende come fosse onorificenza insigne l'ἰσοτέλεια offerta a un forestiero, in virtù della quale l'onorato rimaneva soggetto solo agli oneri finanziarî che gravavano sui cittadini, ed era immune da quei tributi da cui erano colpiti i non cittadini; poteva quindi fissare la residenza nel territorio della città di cui era ἰσοτελής senza pagare l'odioso μετοίκιον.
La contribuzione in denaro, che per le ragioni su esposte aveva carattere straordinario, prendeva il nome di εἰσϕορά. Non poteva esser proposta che sotto queste due condizioni: 1. che il denaro richiesto come contribuzione ai cittadini servisse per gli scopi di una guerra; 2. che la proposta non venisse fatta se non dopo che l'assemblea avesse genericamente autorizzato proposte di tal genere. Era infatti rigorosamente proibito proporre un'εἰσϕορά, e il proponente sarebbe andato incontro a gravissime pene, se (come sempre nell'ipotesi di una proposta proibita), l'assemblea non avesse prima deliberato l'ἄδεια, togliendo anticipatamente e in via eccezionale il carattere di reato all'eventuale proposta in una determinata seduta. Deliberata l'εἰσϕορά, tutti vi erano soggetti, non essendo ammesse le esenzioni (quindi anche i pupilli).
L'εἰσϕορά anteriormente a Pisistrato veniva riscossa sulla base della divisione in classi, stabilita da Solone; più tardi tenendo conto del valore capitale dei patrimonî posseduti dai cittadini (τιμήματα). Si è discusso se l'imposta fosse progressiva; questa opinione (Böckh, Busolt), alla quale sembra fornire appoggio un passo di Demostene non facile a interpretare (C. Aph. I, 9), ha incontrato forti oppositori (Beloch, De Sanctis).
Un'organica riforma nel pagamento dell'εἰσϕορά si ebbe nel 378 sotto l'arcontato di Nausinico. Venne fatto il calcolo totale delle ricchezze di tutta l'Attica, che risultò di circa 6000 talenti, e in base a esso si stabilì un'imposta diretta a cui furono assoggettati tutti cittadini. Per il pagamento vennero costituite venti simmorie (συμμορίαι), gruppi di contribuenti ripartiti in modo che ciascun gruppo pagasse una quota uguale dell'imposta complessiva.
In seguito (357 a. C.) l'ordinamento in simmorie venne esteso anche alla trierarchia: i più ricchi cittadini (1200) furono ripartiti in venti simmorie trierarchiche, in modo che non più i singoli cittadini colpiti dalla trierarchia, ma tutti gli appartenenti a una simmoria fossero solidalmente obbligati agli obblighi trierarchici verso lo stato.
Tributi degli alleati. - Una delle maggiori entrate di Atene nel periodo nel quale la sua potenza raggiunse il culmine, erano i contributi (ϕόροι) degli alleati. Scopo di questi tributi, quando furono istituiti dopo le vittorie sui Persiani, era il mantenimento di una flotta comune; il tesoro era depositato a Delo e amministrato da una commissione di Ellenotamii. In seguito il tesoro venne trasferito ad Atene. Quando Aristide ordinò la confederazione marittima greca, l'ammontare complessivo dei tributi era di 460 talenti, ma questa somma, come mostrano le liste dei tributi, non variò molto fino alla guerra peloponnesiaca (il testo di Tucidide, che sembra in contraddizione con le liste, è variamente interpretato). Nel 425-24 il tributo fu portato a circa 1460 talenti, somma che però non fu mai riscossa per intero. La misura del tributo veniva fissata per i singoli stati ogni quattro anni. Nel 413-12 il ϕόρος si sostituì con un dazio del 5% sulle merci esportate e importate nella città degli alleati.
Dopo la sconfitta di Atene che chiuse la guerra del Peloponneso, il tributo, leggermente ridotto, fu riscosso dagli Spartani.
Per il sistema tributario dell'età ellenistica, v. grecia: Storia economica e finanziaria, XVII, p. 897.
Bibl.: A. Böckh, Staatshaushaltung der Griechen, 3a ed., Berlino 1886, p. 554 segg. (tradotta nel vol. I della Biblioteca di storia economica di V. Pareto, Milano 1903, p. 578 segg.); G. Busolt, Die griechischen Staats- und Rechtsaltertümer, Monaco 1892, p. 289 segg.; Boerner, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., col. 2149 segg., s. v. εἰσϕορά; Ch. Lecrivain, in Daremberg e Saglio, Dictionn. des antiq. gr. et rom., s. v. Eisphora; J. Beloch, Das attische Timema, in Hermes, XX (1885), p. 237 segg.; XXII (1887), p. 371 segg.; G. De Sanctis, 'Ατϑίς, 2a ed., Torino 1912, p. 232 segg.; A. Momigliano, La εἰσϕορά e la sostanza di Demostene, in Athenaeum, XIX (1931), p. 477 segg.
Tributo dei cittadini romani. - A base dell'ordinamento finanziario romano sta la distinzione fra vectigal e tributum civium Romanorum. Con la prima espressione si intendono complessivamente i redditi che lo stato romano traeva dai beni demaniali; col secondo le contribuzioni a cui erano soggetti i beni di proprietà privata. Durante il periodo repubblicano solo i vectigalia costituiscono un' ordinaria fonte di entrata; non si ricorreva al tributum se non in circostanze straordinarie, particolarmente per fare fronte a spese di guerra.
Quando nel 406 a. C. lo stato introdusse il soldo nell'esercito, mentre anteriormente a questa data i cittadini si armavano e si mantenevano sotto le armi a loro spese, la necessità in cui venne a trovarsi lo stato di dover disporre di maggiori mezzi finanziarî, rese indispensabile l'imposizione di un tributo ai cittadini, tutte le volte che i normali proventi rappresentati dai vectigalia risultassero insufficienti. Ma l'obbligo di contribuire sorgeva volta per volta a carico dei cittadini di fronte alle necessità finanziarie del momento, per cui, se non vi era un esercito sotto le armi, o se le entrate normali erano sufficienti, il tributo non veniva richiesto; anche se percepito, poteva, eccezionalmente, venire restituito, allorché, in seguito a una campagna fortunata, la vittoria stessa (sopra tutto con la vendita dei prigionieri) avesse offerto il modo di pagare le spese della guerra. Ciascuno pagava il tributo in base al complesso delle proprie attività patrimoniali che era detto census; ogni cittadino dichiarava il proprio censo e su quello lo stato prelevava, secondo le necessità, l'1, il 2, il 3 per mille (tributum simplex, duplex, triplex).
Il tributo era prelevato per tribù; preposti alle operazioni del pagamento erano i tribuni aerarii dei quali non risulta chiaro quali fossero le precise attribuzioni.
Dal 167 a. C. la conquista delle provincie orientali determinò nelle casse dello stato un così largo afflusso di denaro che il tributum non fu più richiesto. E poiché sui fondi italici non si pagava imposta fondiaria, sino all'età di Diocleziano (292 d. C.) i cittadini romani che avevano i loro possessi in Italia goderono per un lungo periodo di uno stato di immunità finanziaria.
Tributi pagati dai provinciali. - Duramente vessati da contribuzioni di ogni genere erano invece i provinciali. Nell'età repubblicana, specialmente, la mancanza di certezza e di un equo mezzo di ripartizione degli obblighi finanziarî e, inoltre, il modo dell'esazione, affidata a potenti società di publicani, che prendevano in appalto la riscossione dei tributi provinciali, tenevano le provincie soggette a una grave oppressione fiscale.
Il territorio degli stati che Roma aveva vinto diveniva proprietà del vincitore; ma per la maggior parte era lasciato in possesso degli antichi proprietarî, i quali ne godevano l'usufrutto, e dovevano come corrispettivo pagare un contributo (ager publicus stipendiariis datus adsignatus). Questa forma di imposta diretta rappresentava il maggior contributo finanziario, se non l'unico, delle provincie a Roma e consisteva o in una quota parte delle rendite del suolo (tributum soli, agri) di regola la decima (decuma), ovvero in una contribuzione fissa in denaro o in natura, detta nell'uno e nell'altro caso stipendium. Pagavano le decime la Sicilia e l'Asia (sino a Cesare); nella maggior parte delle provincie veniva percepito, invece, lo stipendium. La percezione avveniva per distretti finanziarî, che avevano di regola come centro una grande città. La decima colpiva tutti i prodotti del suolo: grano, orzo, vino, olio e legumi (indicati genericamente come fruges minutae) e veniva percepita dallo stato secondo il sistema dell'appalto, così largamente usato nell'ordinamento finanziario degli antichi. Anno per anno sulla base della dichiarazione dei coltivatori (aratores) circa il terreno coltivato e le sementi fatte si metteva all'incanto l'esazione della decima che veniva aggiudicata al migliore offerente.
Lo stipendium veniva imposto dal vincitore subito dopo la vittoria in base al principio che le spese della guerra debbono essere pagate dall'avversario soccombente. La stabilità della conquista trasformava in tributo annuo ciò che agl'inizî aveva carattere eccezionale di contribuzione di guerra; questo tributo differiva dalla decima, in quanto era indipendente dall'effettivo reddito delle terre e per il fatto che, mentre la decima è sempre pagata in natura, lo stipendium è pagato o in denaro (così di regola nelle Gallie e nella Macedonia) o in natura: silfio (Cirenaica), cera, cuoio, ecc.
Per la percezione dello stipendium i Romani non usarono dovunque un'unica regola; quando nel territorio conquistato fosse già stato in uso un sistema di ripartizione dei pubblici contributi, se ne servirono per l'esazione dei tributi provinciali. A costituire la somma globale che i Romani prelevavano da una provincia come stipendium oltre al tributo pagato dai proprietarî terrieri entrava anche il provento di altre imposte come il tributum capitis (imposta personale); in altre provincie vi erano anche alcune imposte particolari: l'imposta sull'industria (χειρωνάξιον, in Egitto e in Persia), il tributo sul capitale, ecc. Il diritto personale era di solito esatto dai publicani.
Ma i provinciali, oltre a queste contribuzioni ordinarie, dovevano pagarne altre, e talvolta intollerabili, per i doni periodici da farsi ai governatori (frumentum honorarium, aurum honorarium), per l'esonero dall'obbligo di fornire alloggio ai militari, o come contribuzioni a costruzioni, a giuochi pubblici; particolarmente rovinose furono per i provinciali le guerre civili.
Con l'istituzione del principato l'ordinamento finanziario delle provincie è regolato in modo da togliere ineguaglianze, sperperri e abusi. Operazioni di censimento, cominciate da Augusto e terminate sotto Traiano, permisero di fissare con approssimativa esattezza le capacità contributive delle provincie. Si redasse cioè un census provincialis dal quale risultava il tributo che nelle singole provincie ciascuno era tenuto a pagare.
Bibl.: J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, II, 2a ed., Lipsia 1887, p. 162 segg.; trad. franc., Parigi 1888 (vol. X di Th. Mommsen e J. Marquardt, Manuel des Antiquités romaines); J. Beloch, Die Bevölkerung der griechisch-römischen Welt, Lipsia 1886 (trad. del Barbagallo nel vol. IV della Biblioteca di storia economica di V. Pareto), p. 347 esgg.; E. De Ruggiero, Dizionario epigrafico di antichità romane, II, Roma 1900, p. 176 segg., s. v. Census (C. Il census provincialis); C. Lecrivain, in Daremberg e Saglio, Dictionn. des antiq. gr. et rom., s. v. Tributum; G. De Sanctis, Storia dei Romani, III, i, Torino 1916, p. 196 segg.; IV i, (1923), p. 571 segg.; cfr. roma, XXIX, p. 659 segg.
Medioevo ed età moderna. - Per i tributi nel Medioevo e nell'età moderna, v. imposte e tasse.