Abstract
Vengono esaminate le azioni civili contro le discriminazioni previste dal nostro ordinamento in relazione ai diversi fattori di discriminazione, con riguardo alle azioni individuali ed alle azioni collettive, nonché in riferimento ai diversi riti processuali previsti nei diversi ambiti.
1. Il quadro normativo
Appartiene senz’altro alla coscienza collettiva comune la convinzione che il diritto, per poter trovare applicazione sicura ed efficace, necessiti di pochi e chiari provvedimenti legislativi.
Ciò è ancor più vero, se possibile, in riferimento ad un settore, quello della tutela contro le discriminazioni, nel quale una diversificata disciplina legale rischia essa stessa di produrre differenziazioni ingiustificate ed intollerabili. È quello che in parte accade nel nostro ordinamento, in cui il quadro normativo in materia costituisce il frutto di un lungo percorso di disordinata stratificazione.
Attualmente i provvedimenti legislativi a cui occorre rivolgere lo sguardo sono i seguenti:
a) il d.lgs. 11.4.2006, n. 198, ovvero il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, che prevede e disciplina, con riferimento alla materia del lavoro: un’azione ordinaria individuale prevista all’art. 36; un’azione speciale individuale all’art. 38; un’azione ordinaria ed una speciale a carattere collettivo all’art. 37.
b) sempre il d.lgs. n. 198/2006, che prevede, poi, in materia di accesso e fornitura di beni e servizi: un’azione individuale all’art. 55 quinquies; un’azione collettiva all’art. 55 septies, co. 2.
c) il d.lgs. 25.8.1998, n. 286, ovvero il Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione, che, riguardo alle discriminazioni per motivi razziali, etnici, nazionali e religiosi che abbiano lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica, prevede: un’azione individuale all’art. 44, co. 1; un’azione collettiva all’art. 44, co. 10.
d) il d.lgs. 9.7.2003, n. 215, recante disposizioni relative all'attuazione della parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica nel settore pubblico e privato, con specifico riferimento al mondo del lavoro, ma anche all’assistenza sanitaria, alle prestazioni sociali, all’istruzione, all’accesso a beni e servizi, incluso l'alloggio, che prevede: un’azione individuale all’art. 4; un’azione collettiva all’art. 5, co. 3.
e) il d.lgs. 9.7.2003, n. 216, recante disposizioni relative all'attuazione della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall'età e dall'orientamento sessuale, per quanto concerne l'occupazione e le condizioni di lavoro, che prevede: un’azione individuale all’art. 4; un’azione collettiva all’art. 5, co. 2.
f) la l. 1.3.2006, n. 67, che promuove l’attuazione del principio di parità di trattamento e delle pari opportunità nei confronti delle persone con disabilità, al fine di garantire alle stesse il pieno godimento dei loro diritti civili, politici, economici e sociali, che prevede: un’azione individuale all’art. 3; un’azione collettiva all’art. 4, co. 3.
Le azioni, sia individuali sia collettive, indicate sub lett. b), c), d), e), f), sono – per l’appunto – solamente previste dai provvedimenti legislativi appena indicati e vengono ad essere disciplinate – salvo taluni profili eccezionali che cercheremo di evidenziare – dall’art. 28, d.lgs. 1.9.2011, n. 150.
In ogni caso, tutte le azioni previste dai provvedimenti legislativi in precedenza elencati si fondano su diverse fattispecie tipiche di discriminazione, ma soprattutto su una nozione generale di discriminazione, che si articola in discriminazione diretta e indiretta.
L’art. 25 del codice delle pari opportunità dispone, ad esempio, che: «costituisce discriminazione diretta, … qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l'ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un'altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga». Ed aggiunge al suo secondo comma che: «si ha discriminazione indiretta … quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell'altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa, purché l'obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari».
Va, infine, ricordato che lo Statuto dei lavoratori all’art. 15 sanziona con la nullità tutti gli atti discriminatori posti in essere dal datore di lavoro. Ed inoltre l’art. 28, in particolare riferimento ai comportamenti plurioffensivi, ovvero parimenti lesivi dell’interesse sindacale e dell’interesse del singolo lavoratore, si pone anch’esso come strumento antidiscriminatorio.
2. La legittimazione ad agire ed altri profili soggettivi
2.1 Nelle azioni individuali
Il tema della legittimazione ad agire non pone ovviamente particolari problemi in riferimento alle azioni individuali, che spettano ordinariamente ai soggetti che hanno subito o subiscono la discriminazione.
La legge prevede – però – la possibilità che l’esercizio dell’azione sia delegato a soggetti adeguatamente rappresentativi di volta in volta individuati, derogando – così – all’art. 77 c.p.c., che – come noto – richiede che il conferimento del potere rappresentativo sia indirizzato verso soggetti che già lo possiedono sul piano sostanziale.
Più in particolare, le disposizioni che prevedono la possibilità di delega sono le seguenti:
- gli artt. 36, co. 2, e 38, co. 1, d.lgs. n. 198/2006, che ammettono la delega alle consigliere o ai consiglieri di parità provinciali o regionali competenti per territorio, nonché alle organizzazioni sindacali o alle altre organizzazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso;
- l’art. 55 septies, co. 1, d.lgs. n. 198/2006, in riferimento alle associazioni e agli enti inseriti in apposito elenco approvato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, o per sua delega del Ministro per i diritti e le pari opportunità, di concerto con il Ministro per lo Sviluppo economico ed individuati sulla base delle finalità programmatiche e della continuità dell’azione;
- l’art. 5, co. 1, d.lgs. n. 215/2003, con riguardo alle associazioni e gli enti inseriti in un apposito elenco approvato con decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunità ed individuati sulla base delle finalità programmatiche e della continuità dell’azione;
- l’art. 4, co. 1, d.lgs. n. 216/2003, che ammette la delega alle organizzazioni sindacali o alle altre organizzazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso;
- l’art. 4, co. 1, l. n. 67/2006, in riferimento alle associazioni e agli enti individuati con decreto del Ministero per le pari opportunità di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sulla base della finalità statutaria e della stabilità dell’organizzazione.
Riguardo alla forma dell’atto di conferimento del potere rappresentativo, le ultime tre ipotesi normative indicate dispongono che esso debba avere la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata a pena di nullità. Negli altri casi, dunque, o si propende per un’interpretazione analogica di tali norme, o si ritiene che sia sufficiente la sola forma scritta che in generale richiede l’art. 77 c.p.c.
Sempre con riferimento al giudizio individuale, le norme appena indicate prevedono anche la possibilità che gli enti esponenziali poc’anzi citati possano intervenire in giudizio.
La natura di tale intervento è controversa, ma l’orientamento prevalente ritiene che debba qualificarsi come intervento adesivo dipendente, in analogia con la posizione del p.m. ex art. 70, comma 2, c.p.c.
2.2 Nelle azioni collettive
Come visto in precedenza (v. retro, § 2.1), tutti i diversi provvedimenti legislativi in materia antidiscriminatoria contemplano, accanto all’azione individuale, un’azione collettiva inibitoria.
I soggetti legittimati sono costituiti dagli stessi soggetti rappresentativi – poc’anzi indicati – a cui è possibile delegare l’azione individuale (v. retro, § 1), ma occorre tener ben separato l’esercizio dell’azione collettiva, che spetta loro iure proprio, dall’esercizio dell’azione individuale, che è subordinata al mandato da parte del soggetto discriminato.
La legittimazione ad agire riservata a tali enti esponenziali è straordinaria e, come evidenziato in dottrina, ha natura suppletiva (Punzi, C., Repressione della condotta antisindacale: b) Profili di diritto processuale, in Commentario dello statuto dei lavoratori, diretto da Prosperetti, U., II, Milano, 1975, 973). Nel caso del consigliere di parità tale legittimazione ha carattere pubblicistico e l’esercizio del potere di azione è doveroso e non facoltativo, similmente a quel che accade in materia ambientale (Donzelli, R., La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi, Napoli, 2008, 380 s., 737 ss.).
Riguardo alle condizioni che legittimano l’esercizio dell’azione collettiva, la legge non è sempre chiara. In genere si prevede – si pensi all’art. 37, co. 1, del Codice delle pari opportunità – che l’azione collettiva possa essere esercitata quando si rilevi l’esistenza di «atti, patti o comportamenti discriminatori diretti o indiretti di carattere collettivo, anche quando non siano individuabili in modo immediato e diretto le lavoratrici o i lavoratori lesi dalle discriminazioni».
Non così gli artt. 5, co. 3, d.lgs. n. 215/2003 e 5, co. 2, d.lgs. n. 216/2003, secondo cui l’azione collettiva può essere esercitata «quando non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione».
L’irragionevolezza delle due disposizioni appena indicate ha indotto parte della dottrina ad avanzare una necessaria lettura costituzionalizzatrice, che ammetta l’azione collettiva in ogni caso, ovvero anche qualora i soggetti discriminati siano identificabili (cfr. Donzelli, R., La tutela, cit., 648 ss.).
Va, infine, aggiunto che le diverse disposizioni riguardanti le azioni collettive non precisano se debba sussistere un numero minimo di soggetti discriminati affinché ricorra il «carattere collettivo» richiesto dalla disposizione. Una cauta riflessione sulle esigenze di effettività sottese al rimedio, nonché la difficoltà di determinare quale sia l’esatto limite quantitativo oltre il quale il comportamento assume «carattere collettivo» conducono a rimarcare la portata sovraindividuale che anche un comportamento discriminatorio apparentemente unidirezionale può rivestire all’interno dell’ambiente di lavoro (Donzelli, R., La tutela, cit., 643 ss.). In questo senso è dato avvantaggiarsi dell’esperienza giurisprudenziale in materia di repressione ex art. 28 St. lav. dei comportamenti antisindacali plurioffensivi, nonché del concetto di situazione giuridica a rilevanza sovraindividuale elaborato in tale ambito di tutela (su cui, cfr. Lanfranchi, L., Situazioni giuridiche individuali a rilevanza collettiva ed attuazione della condotta alla reintegrazione del lavoratore, in Riv. giur. lav., 1977, I, 343 ss.).
3. Il rito
Riguardo alle forme del giudizio, occorre – come già anticipato – tenere distinte alcune delle azioni disciplinate dal Codice delle pari opportunità da quelle attualmente regolate dal decreto legislativo sulla semplificazione dei riti.
Nel codice delle pari opportunità, l’azione individuale di repressione delle discriminazioni subite – per dirla genericamente – in occasione del rapporto di lavoro può essere esercitata nelle forme ordinarie, oppure nelle forme sommarie previste dall’art. 38, che, come già fatto in precedenza dall’art. 15, l. 9.12.1977, n. 903, si ispira al modello processuale contemplato dall’art. 28 dello Statuto dei lavoratori per il giudizio di repressione della condotta antisindacale.
Abbiamo, quindi, una prima fase sommaria in contraddittorio che si chiude con decreto motivato immediatamente esecutivo ed una seconda fase di opposizione che conduce il procedimento in questione alla cognizione piena disciplinata con le forme del rito del lavoro. Il procedimento va, dunque, pianamente ascritto alla categoria dei procedimenti decisori sommari (su cui, v. Lanfranchi, L., Profili sistematici dei procedimenti decisori sommari, in La roccia non incrinata, Torino, 2011, 1 ss.).
Anche il giudizio collettivo può essere promosso nelle forme ordinarie o in quelle sommarie.
Nel primo caso, l’art. 37, dopo aver disciplinato le modalità con le quali il consigliere di parità può risolvere la lite mediante la richiesta di un piano di rimozione delle discriminazioni predisposto dall’autore dell’illecito, evidenzia al suo secondo comma la possibilità di esercitare l’azione nelle forme ordinarie.
Il comma 4 dell’art. 37 prevede, invece, la possibilità di ricorrere al giudice «in via d’urgenza» ed in tal caso le forme del giudizio saranno quelle poc’anzi descritte in riferimento all’azione sommaria individuale: prima fase sommaria in contraddittorio e successiva opposizione introduttiva del giudizio a cognizione piena. Anche in tal caso, dunque, il procedimento, nonostante il richiamo del requisito dell’urgenza, deve qualificarsi decisorio e non cautelare.
Per quanto riguarda il rito delle altre azioni civili contro le discriminazioni, il d.lgs. n. 150/2011, da un lato, ovvero con l’art. 38, ha abrogato la disciplina precedentemente prevista dai diversi provvedimenti legislativi addietro indicati (cfr. retro, § 2.1; sulla natura del giudizio ivi previsto prima della riforma, v. Cass., S.U., 7.3.2008, n. 6172, in Foro it., 2008, I, 2168, con nota critica di Scarselli, G., Sulla distinzione tra tutela sommaria cautelare e tutela sommaria decisoria), dall’altro, ovvero con l’art. 28, ha ritenuto opportuno applicare alle controversie in questione il rito sommario di cognizione (v. Procedimento sommario di cognizione).
Più in particolare la lettera del comma 1 dell’art. 28, nell’indicare puntualmente le diverse controversie soggette al nuovo rito, elenca solo gli articoli di legge – precedentemente ricordati – che contemplano le azioni individuali (cfr. retro, § 2); d’altro canto, le diverse norme attributive del potere di azione collettiva agli enti esponenziali rinviano anch’esse a tali articoli, sicché, attraverso detta triangolazione, il procedimento sommario di cognizione si applica tanto alle azioni individuali, quanto alle azioni collettive.
Va peraltro precisato che il procedimento che in queste ipotesi si introduce con l’esercizio del potere di azione è ben diverso da quello previsto al capo III bis del titolo I del libro quarto del c.p.c. (v. Carratta, A., La semplificazione dei diritti civili: i limiti dello schema di decreto legislativo presentato dal Governo, in www.treccani.it , 6 ss.).
Se, infatti, da un lato, l’art. 28 sancisce l’applicabilità del rito sommario di cognizione alle controversie discriminatorie, dall’altro, il primo comma dell’art. 3 prevede in generale che alle controversie disciplinate dal capo III del decreto sulla semplificazione – e dunque anche a quelle discriminatorie indicate all’art. 28 – non si applicano i commi secondo e terzo dell’art. 702 ter c.p.c.
Il comma 2 impone al giudice di dichiarare inammissibile la domanda proposta o quella riconvenzionale qualora non siano di competenza del tribunale in composizione monocratica; mentre il comma 3 – centrale negli equilibri strutturali del procedimento – attribuisce al giudice il potere-dovere di valutare le difese svolte dalle parti al fine di determinare il percorso processuale più opportuno: quello sommario disciplinato dal comma 5 dell’art. 702 ter c.p.c. o quello ordinario previsto dagli artt. 183 ss. c.p.c.
Con la mancata applicazione in questo ambito del comma 3, scelta peraltro esorbitante i limiti della legge delega (cfr. Carratta, A., op. cit., 7), si passa, dunque, da un processo elastico, in cui la sommarietà è eventuale e dipende da una valutazione giudiziale della dinamica concreta della lite, ad un processo rigido, in cui la sommarietà è necessaria ed imposta da una scelta in astratto e a priori del legislatore; scelta, quest’ultima, che desta perplessità in generale ed anche in specifico riferimento alle controversie in questione; soprattutto rispetto a quelle collettive, in cui il grado di complessità processuale può effettivamente essere elevato tanto dal punto di vista soggettivo che oggettivo. In tali casi, dunque, si avrà un iter processuale semplificato, ma non necessariamente rapido.
Il nuovo patchwork normativo che deriva dalla sovrapposizione delle diverse norme crea – però – altri problemi. Il comportamento discriminatorio potrebbe, infatti, essere stato posto in essere in danno di un lavoratore, sicché occorre chiedersi quale sia la sorte di talune disposizioni processuali particolarmente qualificanti il rito disciplinato dagli artt. 409 ss. c.p.c.; prima fra tutte quelle riguardanti i poteri istruttori del giudice del lavoro. Peraltro, l’art. 28, co. 2, d.lgs. n. 150/2011 affida la competenza al tribunale del luogo in cui il ricorrente ha il domicilio ed il comma 3 ammette che le parti possano stare in giudizio in primo grado personalmente.
Trovare una soluzione al problema non è agevole, infatti la scelta per la sommarietà – plausibile o meno che sia – ha lo scopo di accelerare il processo e non di privare la parte debole delle norme che caratterizzano in positivo la sua posizione in ambito processuale; specie in una materia – quella antidiscriminatoria – in cui è evidente il favore che la legge manifesta nei confronti del soggetto leso.
Un’indicazione può essere tratta da quanto disposto dall’art. 2, co. 1, d.lgs. n. 150/2011, che, nel prescrivere l’applicabilità del rito del lavoro alle controversie contenute nel capo II, esclude espressamente talune norme di connotazione prettamente lavoristica.
Si deve allora ritenere che il coordinato disposto degli artt. 3 e 28, d.lgs. n. 150/2011, nonché 702 bis ss. c.p.c. non possa escludere l’applicazione delle regole del processo del lavoro: a) strettamente legate alla natura della controversia; b) compatibili con l’adozione delle forme semplificate del rito; c) non espressamente derogate da specifiche disposizioni di legge (come per l’appunto i commi 2 e 3 dell’art. 28, d.lgs. n. 150/2011).
Così, ad esempio, al giudice spetta senz’altro una posizione attiva sul piano istruttorio: nelle forme semplificate e atipiche in primo grado; ai sensi e nei limiti dell’art. 421 c.p.c. in grado di appello. Parimenti, volendo ancora esemplificare, qualora ne ricorrano i presupposti, il giudice potrà – anche con l’ordinanza ex art. 702 ter, co. 5, c.p.c. – condannare con gli effetti dell’art. 429, co. 3, c.p.c.
4. La prova
L’art. 40 del codice delle pari opportunità ripropone la particolare disciplina già prevista dalla l. n. 125/91 in punto di onere della prova, prevedendo che «quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della discriminazione». Questa disposizione si applica ad ogni tipo di discriminazione, ovvero alle discriminazioni dirette e indirette, individuali e collettive. La sua corretta ricostruzione dogmatica è assai controversa in dottrina (sul tema, anche per le dovute indicazioni, v. Sassani, B., L’onere della prova, in La riforma delle istituzioni e degli strumenti delle politiche di pari opportunità, a cura di M. Barbera, in Nuove leggi civ. comm., 2003, 735 ss.).
Vagamente diverso è il tenore letterale del comma 4 dell’art. 28, d.lgs. n. 150/2011, secondo cui «quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l'onere di provare l'insussistenza della discriminazione. I dati di carattere statistico possono essere relativi anche alle assunzioni, ai regimi contributivi, all'assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti dell'azienda interessata».
Dovendosi escludere che due norme costituiscano un inutile doppione della regola generale prevista dall’art. 2729, co. 2, c.c., il loro confronto suggerisce di rimarcare la mancanza del requisito di «gravità». Il che significa che riguardo alla sussistenza del comportamento discriminatorio l’onere probatorio è asimmetrico: rimane fermo per l’attore l’onere della prova, ma l’assolvimento di tale onere richiede il conseguimento di un grado di certezza inferiore rispetto a quello consueto. Semplificando: dimostrata la probabile discriminazione, spetta alla controparte dimostrarne l’insussistenza.
5. La decisione
5.1 In generale
Come già visto in precedenza, la disciplina formale dei procedimenti antidiscriminatori è varia, sicché, secondo il tipo di azione e il rito prescelto, la decisione sarà resa con decreto, con ordinanza o con sentenza.
Dal punto di vista del contenuto rimediale, invece, accertato il carattere discriminatorio, la tutela si dirige essenzialmente in due direzioni: verso il futuro, in senso preventivo, e verso il passato, in senso repressivo.
Nella prima direzione si orientano le misure inibitorie; presenti nelle azioni individuali come in quelle collettive: sia nel caso in cui queste siano esercitate nelle forme ordinarie, sia nel caso in cui, invece, si seguano le forme sommarie. In materia di parità di trattamento occorre riferirsi agli artt. 38, commi 1 e 6, e 36, commi 3 e 4, d.lgs. n. 198/2006; negli altri casi, invece, all’art. 28, co. 5, d.lgs. n. 150/2011. L’osservanza dell’ordine giudiziale è garantita mediante l’applicazione di diverse misure coercitive che la legge espressamente disciplina.
Nella seconda direzione, invece, operano le misure ripristinatorie, restitutorie e risarcitorie. Più in particolare, è previsto che il giudice possa adottare ogni provvedimento idoneo a rimuovere gli effetti delle discriminazioni accertate e a tal riguardo è espressamente previsto che si possa, anche nel giudizio collettivo, condannare l’autore dell’illecito al risarcimento del danno, nonché ordinare al convenuto l’adozione di un piano di rimozione delle discriminazioni.
Va, infine, ricordato che in materia di lavoro il comportamento discriminatorio che assume le vesti dell’atto giuridico è comunque colpito dalla sanzione di nullità, disposta in generale dall’art. 15 St. lav. e ribadita dall’art. 4, l. n. 108/1990 con riguardo ai licenziamenti.
5.2 Le misure coercitive
Come detto, il legislatore prevede espressamente un sistema articolato di misure coercitive.
Il Codice delle pari opportunità, per le azioni individuali e collettive ex artt. 36-38, prevede che l’inottemperanza dell’ordine giudiziale comporti: l’ammenda fino a 50.000 euro o l’arresto fino a sei mesi, nonché la revoca dei benefici previsti dall’art. 41 del Codice. Se l’azione è collettiva, anche il pagamento di una somma di 51 euro per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione del provvedimento da versarsi al Fondo per le attività delle consigliere e dei consiglieri di parità. Il discorso diviene, invece, particolarmente delicato nelle azioni ora regolate dall’art. 28 d.lgs. n. 150/2011.
L’art. 44, comma 8, d.lgs. n. 286/98, anche dopo la recentissima novellazione continua a prevedere l’applicazione dell’art. 388, co. 1, c.p. Similmente, l’art. 55 quinquies, co. 9, del codice delle pari opportunità, come il poc’anzi menzionato art. 37, punisce l’inottemperanza dell’ordine giudiziale con l’ammenda fino a 50.000 euro o l’arresto fino a sei mesi.
Per le altre azioni, salvo quanto disposto dal comma 7 dell’art. 28 con riguardo alla perdita dei benefici, il comma 6 riproduce alla lettera quanto già previsto dai d.lgs. nn. 215/2003 e 216/2003, nonché dalla l. n. 67/2006, ovvero che «ai fini della liquidazione del danno, il giudice tiene conto del fatto che l’atto o il comportamento costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento».
I problemi sollevati da tale disposizione sono numerosi.
In primo luogo non si comprende se il risarcimento abbia in tale fattispecie la tradizionale funzione compensativa o viceversa sia maggiormente orientato in chiave sanzionatoria-punitiva. Solo se si seguisse la seconda lettura, non propriamente agevolata dalla lettera delle legge, la misura potrebbe trovare sempre applicazione nelle azioni collettive, nelle quali può sovente accadere che non sia individuabile un soggetto pregiudicato. Seguendo la prima opzione, invece, il comma 6 perde di significato, le azioni individuali e collettive in questione risultano sguarnite di misure propriamente coercitive e sorge il dubbio se sia applicabile quanto ora prevede in generale l’art. 614 bis c.p.c. Ma questo dubbio apre un ulteriore fronte di riflessioni problematiche, che in questa sede possono solo essere accennate.
L’art. 614 bis c.p.c., infatti, esclude l’applicazione della misura coercitiva ivi prevista alle controversie di lavoro subordinato pubblico e privato e di collaborazione coordinata e continuativa previste dall’art. 409 c.p.c. Posto che, allora, le azioni disciplinate dall’art. 28 (cfr. retro, § 2) possono essere esercitate per reprimere discriminazioni attuate anche al di fuori dei rapporti di lavoro, ne deriva che la misura coercitiva generale prevista dall’art. 614 bis c.p.c. potrà essere concessa solo nei casi in cui la tutela collettiva richiesta esorbiti i confini giuslavoristici. Risultato, quest’ultimo indicato, che pone serissimi dubbi di costituzionalità in riferimento agli artt. 3, co. 1 e 2, 24, co. 1 e 2, Cost.
5.3 Le misure di rimozione
Un’altra delicata questione interpretativa riguarda la determinazione dei poteri che spettano al giudice allo scopo di rimuovere gli effetti delle discriminazioni ed in particolare se il giudice possa procedere anche in costitutiva-determinativa senza incorrere nella previsione di tipicità ex art. 2908 c.c.
Problemi non sorgono in riferimento alle norme che attribuiscono al giudice il potere di adottare «ogni provvedimento idoneo a rimuovere gli effetti» delle violazioni accertate. Si pensi all’art. 37, comma 4, d.lgs. n. 198/2006, nonché al poc’anzi menzionato art. 28, co. 5, d.lgs. n. 150/2011, che addirittura estende tale potere anche nei confronti della pubblica amministrazione, con possibile configurabilità di una giurisdizione piena del giudice ordinario come in materia di tutela della privacy.
Si potrebbe ragionare diversamente con riguardo alle norme che dispongono che il giudice debba semplicemente ordinare al convenuto la rimozione degli effetti: così, ad esempio, dispone, l’art. 38, co. 1, d.lgs. n. 198/2006, in riferimento all’azione individuale. È evidente, tuttavia, che tale formulazione costituisce semplicemente il frutto di un richiamo non accorto di precedenti formule legislative, per la precisione dell’art. 15 l. n. 903/77, sicché un’interpretazione adeguatrice secundum Costitutionem è senz’altro doverosa (Donzelli, R., La tutela, cit., 657 ss.).
5.4 I comportamenti discriminatori complessi
Altri profili problematici sorgono in riferimento ai comportamenti discriminatori complessi, ovvero a quei comportamenti che si rivelano sfavorevoli per taluni (che ritengono di essere discriminati) e favorevoli per altri (sul tema, v. Treu, T., Atti e trattamenti discriminatori, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, 8). Si è osservato, a tal proposito, che gli effetti dell’intervento giudiziale debbano investire tutti i soggetti coinvolti dalla discriminazione, con conseguente applicazione di un regime di litisconsorzio necessario ex art. 102 c.p.c. tra gli interessati alla rimozione dell’atto discriminatorio e i soggetti (contro-)interessati alla conservazione dell’atto (v., per i dovuti riferimenti, Donzelli, R., La tutela, cit., 656 ss.).
5.5 Il c.d. piano di rimozione
Altro profilo problematico riguarda la natura del piano di rimozione, in quanto non è chiaro quale sia il rapporto tra, da un lato, le misure propriamente sanzionatorie, restitutorie e preventive, riferibili a situazioni giuridiche soggettive in appartenenza a singoli soggetti discriminati, e, dall’altro, la funzione, nonché il contenuto del piano di rimozione.
Si potrebbe pensare che il piano di rimozione sia uno strumento alternativo a tali misure con il quale il giudice funzionalizza la gestione dell’impresa in senso antidiscriminatorio, ma questo assunto può essere esatto solo nei limiti in cui siano rispettati i diritti che sorgono in capo ai soggetti che hanno subito la discriminazione, sicché tale piano va inteso quale rimedio di completamento del complessivo fronte di tutela lungo una direttrice funzionale essenzialmente preventiva, come denota la lettera dell’art. 28 d.lgs. n. 150/2011, nel contemplare detto piano «al fine di impedire la ripetizione della discriminazione» (per approfondimenti, v. Donzelli, R., La tutela, cit., 669 ss.).
5.6 Le azioni collettive
Riguardo alle azioni collettive sorgono questioni interpretative ulteriori rispetto a quelle indicate sinora e concernenti la natura di dette azioni, il loro oggetto, i loro effetti ed il coordinamento di tali rimedi con le azioni individuali.
Rinviando l’esame di detti profili alle voci dedicate all’argomento (v. Azione collettiva inibitoria), va quantomeno ricordato un problema che appartiene specificamente alle azioni collettive antidiscriminatorie, ovvero quello del coordinamento di tali azioni con quelle individuali nel caso in cui l’ente esponenziale proponga domanda di risarcimento del danno a favore dei soggetti pregiudicati. In tal caso, o si ritiene che i discriminati, in qualità di sostituiti processuali, siano litisconsorti necessari del giudizio ex art. 102 c.p.c. o più semplicemente si ritiene che possano prendervi parte in via di intervento ai sensi degli artt. 105-107 c.p.c.; in tal caso, però, per il rispetto delle loro garanzie costituzionali, occorrerebbe anche ritenere che il giudicato sfavorevole non possa pregiudicarli qualora non prendano parte al giudizio e sia al contrario rimesso alle parti e al giudice estendere il contraddittorio – e con esso l’efficacia vincolante del giudicato – ai soggetti pregiudicati (per approfondimenti, v. Donzelli, R., La tutela, cit., 660 ss.; per una non convincente applicazione giurisprudenziale, v. Trib. Roma, 27 maggio 2010, in Danno e resp., 2010, 1168 ss., con nota critica di Panetti, F.).
Fonti normative
d.lgs. 11.4.2006, n. 198, artt. 25, 36, 37, 38, 55 quinquies e 55 septies, co. 2; d.lgs. 25.8.1998, n. 286, art. 44, commi 1 e 10; d.lgs. 9.7.2003, n. 215,artt. 4 e 5; d.lgs. 9.7.2003, n. 216, artt. 4 e 5; l. 1.3.2006, n. 67, artt. 3 e 4; d.lgs. 1.9.2011, n. 150, art. 28; Statuto dei lavoratori, artt. 15 e 28.
Bibliografia essenziale
Per un quadro generale delle azioni civili contro le discriminazioni, v. Tarzia, G., Manuale del processo del lavoro, Milano, 2008, 397 ss.; con particolare riguardo alle azioni collettive, v. Donzelli, R., La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi, Napoli, 2008, 601 ss.
Con particolare riferimento alle azioni in materia di parità uomo-donna, v. Basilico, G., La tutela della parità uomo-donna nei rapporti di lavoro, in La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e/o diffusi, a cura di Lanfranchi, Torino, 2003, 513 ss.; Silvestri, E., Codice delle pari opportunità e tutela antidiscriminatoria, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, 853 ss.; Donzelli, R., Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro: II) Profili processuali, in Enc. giur. Treccani, Roma, 2008; Maruffi, R., Recenti sviluppi della tutela contro le discriminazioni di genere, in Riv. dir. proc., 2008, 1053 ss.
Con particolare riferimento all’azione civile contro le discriminazioni ex art. 44 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, v. Santagada, F., La tutela giurisdizionale dei diritti dello straniero nel testo unico sull’immigrazione, in Giusto processo civile e procedimenti decisori sommari, a cura di Lanfranchi, Torino, 2001, 341 ss.; Scarselli, G., Appunti sulla discriminazione razziale e la sua tutela giurisdizionale, in Riv. dir. civ., 2001, 805 ss.; Mantello, M., La tutela civile contro le discriminazioni, in Riv. dir. civ., 2004, 439 ss.; Curcio, L., Azione civile antidiscriminatoria e interesse ad agire, in D&L, 2009, 677 ss.; Casadonte, A.-Guariso, A., L’azione civile contro la discriminazione: rassegna giurisprudenziale dei primi dieci anni, in Dir. immigrazione e cittadinanza, 2010, 59 ss.; Pacilli, M., Riflessioni sull’azione civile contro la discriminazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, 1409 ss.
Sul d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, v. Carratta, A., La semplificazione dei diritti civili: i limiti dello schema di decreto legislativo presentato dal Governo, in www.treccani.it ; Id., La “semplificazione” dei riti e le nuove modifiche del processo civile, Torino, 2012; Sassani, B.-Tiscini, R., La semplificazione dei riti civili, Roma, 2011.
Sul rito sommario decisorio previsto dagli artt. 37 e 38, d.lgs. 11.4.2006, n. 198, v. i classici scritti di Andrioli, V., Il procedimento di repressione delle discriminazioni tra uomo e donna, in AA.VV., Le controversie di lavoro, Bologna, 1987, 1082 ss.; Fabbrini, G., Il procedimento avanti il pretore, in Il procedimento sommario a tutela della parità della lavoratrice, in Foro it., 1977, V., 328 ss.; Paolini, R., Considerazioni generali sulla legge 9 dicembre 1977, n. 903: in particolare il procedimento speciale ex art. 15, in Dir. lav., 1981, I, 365 ss., 464 ss.; Rapisarda, C., Sub. art. 15, in Legge 9 dicembre 1977, n. 903, Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, in Nuove leggi civ. comm., 1978, 828 ss.; di recente, v. Beghini, La giurisprudenza italiana sulle discriminazioni di genere, L’azione individuale sommaria contro le discriminazioni di genere in alcune pronunce di merito, in Riv. giur. lav., 2008, 813 ss.