Umanesimo e Rinascimento, lingua dell’
Assumiamo convenzionalmente che l’età umanistica e rinascimentale coincida con i secoli XV e XVI. È questa l’epoca, in Italia come negli altri paesi dell’Europa occidentale, dell’emergere delle lingue nazionali: l’italiano, il francese, lo spagnolo, il portoghese, l’inglese e il tedesco si affermano – ognuno con dinamiche storiche diverse – come lingue di cultura competitive con il latino e, attraverso un processo di codificazione grammaticale, conseguono una uniformazione che supera i particolarismi regionali ereditati dal medioevo. Questo processo qualifica queste lingue come ‘nazionali’ anche dove ciò avviene, come in Italia, in assenza di unità politica del Paese (Tavoni 2005).
Il singolo evento storico che più di ogni altro ha dato impulso a questo processo è stato l’invenzione e l’affermazione della stampa (➔ editoria e lingua). Ciò è vero in tutti i paesi dell’Europa occidentale, ma lo è particolarmente in Italia, dove il fattore stampa ha supplito la mancanza dell’altro potente fattore oggettivo che nelle monarchie nazionali spingeva per il conguaglio e la codificazione della norma: e cioè lo Stato, con la sua forza centripeta, con la sua capacità di irradiare il modello linguistico della capitale (Parigi, Londra, Madrid, ecc.) all’intero territorio, attraverso i legami economici, amministrativi, culturali che collegavano la provincia alla capitale. Nell’Italia del Cinquecento, policentrica e sotto dominazione straniera, è la stampa che agisce come motore di unificazione linguistica, perché fa cadere i confini di diffusione del libro manoscritto, che coincidevano con quelli delle lingue di ➔ koinè regionali, impone che il mercato unificato del libro si estenda sull’intero territorio «dove il sì suona», e con ciò obbliga il volgare di «sì» a diventare lingua italiana (Trovato 1991; Richardson 2004) (➔ storia della lingua italiana).
A distanza di una trentina d’anni l’uno dall’altro, due eventi traumatici cambiano la condizione politica della Penisola e la sua percezione da parte delle classi dirigenti e degli uomini di cultura italiani: la discesa di Carlo VIII (1494) e il Sacco di Roma (1527). La discesa di Carlo VIII, che quasi senza colpo ferire si impadronisce dell’Italia, squarcia l’illusione di chi credeva di vivere ancora nel quattrocentesco equilibrio di potere degli autonomi Stati italiani, e rende evidente che l’Italia è alla mercè delle potenze straniere. Il Sacco di Roma, con i lanzichenecchi di Carlo V che fanno scempio del centro del cattolicesimo, ha una risonanza simbolica enorme. Un’altra trentina di anni più tardi, il trattato di Cateau-Cambrésis (1559) sancisce definitivamente il dominio spagnolo, diretto o indiretto, su tutta la Penisola, esclusa la Repubblica di Venezia. Il sistema policentrico dell’Italia del Quattrocento, nel quale era fiorito lo straordinario sviluppo economico, mercantile, culturale, letterario e artistico dell’Italia, è distrutto. L’egemonia culturale dell’Italia in Europa persiste per molti decenni dopo che le sue basi materiali sono state spazzate via.
L’Italia ha una tradizione letteraria illustre inarrivabile, che si riassume in volgare nei nomi di ➔ Dante, ➔ Francesco Petrarca e ➔ Giovanni Boccaccio e in latino nel movimento umanistico, fondato dallo stesso Petrarca, che ha rinnovato la cultura di tutta l’Europa. Il prestigio linguistico dell’italiano, che consegue a quello letterario, è altrettanto vivo, mentre politicamente l’Italia non esiste. La soluzione normativa vincente della ➔ questione della lingua, classicistica e rifuggente dall’uso vivo, affonda le sue radici in questa combinazione tipicamente italiana di eccellenza letteraria e irrilevanza politica.
Il Concilio di Trento (1545-1563) ha effetti diretti sulla storia linguistica perché, vietando la traduzione in volgare della Scrittura e della liturgia, fa mancare un importantissimo impulso, attivo invece nei paesi protestanti, all’alfabetizzazione volgare di massa e al conguaglio linguistico su scala nazionale (Librandi 1993; ➔ Chiesa e lingua). Che nello stesso anno 1525 il cardinale ➔ Pietro Bembo (1470-1547) pubblichi le Prose della volgar lingua e Martin Lutero (1483-1546) La Messa tedesca è emblematico dei modi opposti in cui l’italiano e il tedesco conseguono la propria standardizzazione, e più in generale dei diversi destini linguistici e civili dei due paesi.
Le principali ‘agenzie’ che nel corso del Quattrocento, in ambito extraletterario, operano espandendo gli ambiti di uso del volgare, con ciò consolidandolo, sono le cancellerie degli Stati regionali, intese nel senso più comprensivo di apparati legislativi, governativi, amministrativi e giudiziari interni allo Stato, e di ambascerie e uffici per le relazioni diplomatiche (➔ cancellerie, lingua delle); la Chiesa e i movimenti religiosi, produttori e consumatori di scritture devozionali e propagatori di educazione linguistica orale al popolo attraverso la predicazione (➔ predicazione e lingua); i mercanti (➔ mercanti e lingua) e, collegati ad essi da un’affine identità culturale, gli artigiani e i tecnici, anch’essi portatori di una cultura esclusivamente volgare, quella delle «scuole di abbaco» che tramandano di generazione in generazione l’alfabetizzazione in volgare (Tavoni 1992: 21-55).
Le azioni linguistiche compiute da ognuna di queste agenzie sono molto diverse. Le cancellerie sono formate da notai e umanisti (➔ notai e lingua), dotati di cultura latina, spesso alta, e a volte essi stessi rimatori o comunque scrittori di cose letterarie in volgare. Quando si trovano a scrivere lettere o relazioni o atti ufficiali in volgare, si tratta di un volgare al livello più alto di conguaglio sul modello del latino e/o del toscano. La scrittura delle cancellerie è la punta più avanzata della smunicipalizzazione del volgare in ambito extraletterario. All’effetto prodotto dalla cultura degli scriventi si somma, nel caso della corrispondenza diplomatica, quello del tendenziale avvicinamento alla lingua dell’interlocutore: per cui la lingua di koinè lombarda, o emiliana, o generalmente padana, che ha nelle scritture cancelleresche la sua più ampia documentazione, è a sua volta aperta a conguagli interregionali quando si indirizzi a uffici nelle cancellerie di Roma, di Urbino o di Napoli (ricchissima la documentazione di Venezia; Tomasin 2001). Si assiste, nel corso del Quattrocento e del Cinquecento, in corrispondenza al consolidamento degli Stati regionali, a una esplosione di scrittura amministrativa, una vera e propria presa di controllo del territorio attraverso la scrittura, che contribuisce all’espansione e al consolidamento dell’uso del volgare (Petrucci 1993b).
Le scritture agiografiche o le laudi che circolano per tutta la Penisola all’interno di movimenti penitenziali come l’Osservanza, di registro inferiore, sono aperte a contatti con il latino della Chiesa ma non con la tradizione letteraria volgare, e dunque danno luogo a forme di conguaglio interregionale indifferenti al prestigio del toscano. Lo stesso vale per i predicatori itineranti, che dovevano necessariamente sviluppare la capacità di farsi capire ovunque, e talvolta svolgevano un’azione di vera acculturazione in volgare, talvolta puntavano più alla popolarità e giocosità, sviluppando anche forme giullaresche di mescidazione col latino (Coletti 1983).
I mercanti producono enormi quantità di lettere (➔ lettere e epistolografia), nonché libri di memoria familiare, in una scrittura loro propria, detta mercantesca, esclusivamente volgare, che si contrappone alla scrittura detta italica, propria dei ceti educati alle arti liberali che è invece bilingue, latina e volgare. L’ingente uso scritto del volgare dei mercanti, tendente al conguaglio interregionale per funzionalità pratica, resta ai margini del processo di unificazione cinquecentesca, così come la scrittura mercantesca si estingue, mentre l’italica costituisce il prototipo dei caratteri a stampa.
Nel corso del Cinquecento si aggiungono altre agenzie di promozione e codificazione del volgare, le accademie, che si affiancano alle università dominate dal latino come luoghi di elaborazione di una cultura volgare (➔ accademie nella storia della lingua).
Il Quattrocento è segnato dall’egemonia del movimento umanistico, che esalta il latino e deprime il volgare come lingua di cultura. Solo gli umanisti operanti a Firenze, dato che le Tre Corone trecentesche, Dante, Petrarca e Boccaccio, sono sentite come un patrimonio patriottico, si misurano con esso dando vita a un umanesimo volgare che ha i suoi prodromi in ➔ Leon Battista Alberti negli anni Trenta-Quaranta e culmina con Cristoforo Landino e ➔ Angelo Poliziano alla corte di Lorenzo il Magnifico negli anni Settanta-Ottanta. Beninteso, il volgare continua a essere usato in tutte le occasioni della vita reale, e anzi il suo uso scritto si espande in ambito commerciale, amministrativo, religioso, pervadendo la società.
La battuta d’arresto riguarda solo la cultura alta, la lingua letteraria. Qui il prestigio del latino rinnovato dalla riscoperta dei classici, che dall’Italia si espande in tutta Europa, schiaccia quello del volgare, che per gli umanisti più oltranzisti non è altro che la varietà bassa, non grammaticale, del latino (Tavoni 1992: 57-83). In questo stesso periodo nascono anche esperimenti linguistici che si possono considerare a cavallo tra latino e volgare come il ➔ latino macaronico e la lingua pedantesca (➔ pedantesca, lingua).
La crisi del volgare nel Quattrocento consiste nella sua polimorfia regionale, nella sua mancanza di codificazione, insomma nel suo essere lasciato a sé stesso, in uno stato di dispersione, di inferiorità rispetto al latino e di disinteresse da parte dei letterati. Il quadro cambia nel giro di pochi decenni a cavallo fra Quattrocento e Cinquecento, in parte per effetto della stampa che moltiplica i lettori, in parte per altre cause non ben chiare, tanto che dagli anni Venti-Trenta del Cinquecento il volgare imbocca una strada ascendente, attira grandi scrittori in versi e in prosa e catalizza un interesse teorico addirittura ipertrofico, con produzione di centinaia di grammatiche e di trattati in sua difesa, che mobilitano i più grandi letterati del secolo, mentre quelli del secolo precedente erano rimasti ammaliati dal latino (Trovato 1994). Nel corso di questo processo, gradualmente il volgare diventa l’italiano. Il nome da dare alla lingua – volgare, fiorentino, toscano, italiano – è il tema canonico della questione della lingua ai suoi esordi, ed è il portato del policentrismo culturale e linguistico e della mancanza di unità politica della Penisola. Fatto sta che il volgare polimorfo del Quattrocento si trasforma, nel giro di un secolo, nell’italiano unificato del secondo Cinquecento: unificato dalla teoria bembiana, dalla prassi editoriale, dalla generale convergenza dei letterati sul modello dei grandi trecentisti.
La progressiva affermazione del volgare a scapito del latino va di pari passo con la sua codificazione, ovvero con la sua trasformazione in italiano, che lo fa assurgere a lingua di pari regolarità e pari dignità. Le accademie, che sorgono dalla metà del Cinquecento in poi, sono l’istituzione emblematica del nuovo statuto culturale conquistato dall’italiano. Da quel momento in poi il latino regredì, perse sempre più ambiti d’uso a vantaggio dell’italiano, ma non si deve dimenticare che restò ancora per secoli, in tutta Europa e anzi ormai in tutto il mondo, la lingua internazionale della scienza, dell’università, della Chiesa e anche della formazione delle classi dirigenti (basti pensare alla Ratio studiorum dei Gesuiti), e che il numero di testi scritti in latino fra il XVI e il XVIII secolo è un multiplo di quelli scritti nell’antichità classica (Olschki 1922; Marazzini 1993: 19-42; Giovanardi 1994; Waquet 2004).
Nel Quattrocento lo sviluppo letterario del volgare si divide nettamente in due filoni: ciò che accade in Toscana e ciò che accade nel resto dell’Italia, a nord e a sud.
In Toscana il volgare letterario si identifica con la lingua materna degli scrittori. Nella prosa, i Libri della famiglia di Leon Battista Alberti e la Vita civile di Matteo Palmieri (1406-1475), dediti a teorizzare un modello politico fondato sull’economia mercantile, rappresentano una sublimazione umanistica di scritture quali i libri di famiglia, nei quali si sedimentava la memoria e l’etica delle grandi famiglie di mercanti. In particolare Alberti è una straordinaria figura mista di umanista-artista, che tenta invano, attraverso varie iniziative militanti, di legittimare la lingua viva dei ceti operosi presso l’ambiente umanistico. La prosa della Famiglia assume in presa diretta il fiorentino quattrocentesco, notevolmente diversificatosi da quello ‘classico’ del primo Trecento (articolo el, forme verbali come disputaréno, trovorno, ecc.: cfr. § 8), iniettandovi un alto tasso di latinismo, così nel lessico e nella fonetica (occecato, elimata, polita, ecc.) come nella sintassi e nelle figure di costruzione (infinitive come «dicono non poter credere», iperbati come «la nostra oggi toscana»), con un singolare disinteresse per il modello delle Tre Corone.
La poesia narrativa in ottave sviluppa una linea popolaresca nella quale la naturalità del fiorentino si esalta. Così nel poema cavalleresco Morgante di Luigi Pulci (1460-1470 circa): lessico basso, comico, espressionistico, gergale (truogo «trogolo», scuffiare «sbruffare», ciuffalmosto «ubriacone»); fonomorfologia popolare quattrocentesca (avàno «avevamo», impazzerebbono «impazzirebbero»). Nel circolo di Lorenzo il Magnifico si produce una poesia ‘dialettale riflessa’ in ottave, la Nencia da Barberino (prima del 1470) che ostenta fonetica rusticale-popolaresca (migghiaio «migliaio», capegli «capelli», drento «dentro»). Ed è ben significativo che la poesia volgare iperdotta del filologo umanista Angelo Poliziano, le Stanze per la giostra (prima del 1480), innesti, in un tessuto di raffinate allusioni letterarie, non solo forme latineggianti (condutto, auro : lauro : tesauro, iulio) ma anche forme fiorentine contemporanee, popolari, come gli per «le», suo indeclinabile, dua per «due» (Tavoni 1992: 175-205).
Nelle corti del Nord (Ferrara, Bologna, Milano, Mantova, ecc.), del Centro (Urbino), del Sud (Napoli) si sviluppa invece, sul terreno privilegiato della poesia, particolarmente quella lirica, una dialettica fra tre ingredienti linguistici: il volgare locale, il modello latino e il modello toscano, quest’ultimo a sua volta divaricato fra toscano trecentesco e toscano vivo contemporaneo. È la stessa dialettica che, sul piano della lingua di comunicazione, si sviluppa nell’ambito delle cancellerie, contigue a quelle stesse corti signorili, ma che sul piano della lingua poetica viene portata più avanti, verso esiti più smunicipalizzati (Tavoni 1992: 47-57; 85-105). Due autori sono emblematici di questo processo: a Ferrara, ➔ Matteo Maria Boiardo, a Napoli Jacopo Sannazaro. Il primo, passando dalla scrittura privata dell’epistolario alla poesia narrativa dell’Orlando innamorato e alla poesia lirica degli Amorum libri, presenta un sempre più forte abbandono di forme padane come gionto «giunto», lanza «lancia», tuto «tutto». Il secondo, nella ventennale rielaborazione dell’Arcadia (‘romanzo’ composto di egloghe e di prosa), dal 1480 circa al 1504, riduce il tasso originario di plurilinguismo e pluristilismo a vantaggio di una omologazione classicistica che sarà compiutamente teorizzata, vent’anni più tardi, nelle Prose della volgar lingua di Pietro Bembo (cfr. § 6), che prescrivono l’imitazione di Petrarca in poesia e di Boccaccio in prosa (Tavoni 1992: 227-249, 311-331).
Le Prose rappresentano idealmente il discrimine fra l’età del volgare e l’età dell’italiano. La ricetta bembiana, che era già anticipata dalla prassi editoriale, trova l’adesione di grandi letterati che ne corroborano il successo. È emblematico il caso di ➔ Ludovico Ariosto, che dopo le edizioni 1516 e 1521 dell’Orlando furioso (già molto ‘de-padanizzate’ rispetto all’Orlando innamorato), licenzia l’edizione 1532 in veste linguistica del tutto ‘bembizzata’. Nel 1530 escono le Rime dello stesso Bembo e quelle del Sannazaro, modelli di petrarchismo linguistico ortodosso. E fin dal 1526 le Stanze del Poliziano erano state pubblicate rimuovendo le forme fiorentine quattrocentesche (Trovato 1994: 75-132).
Il successo dell’unificazione linguistico-letteraria determina progressivamente una situazione nuova, in cui si fa sempre più debole il collegamento fra l’origine regionale dello scrittore e il tipo di italiano che egli scrive. Il grande poligrafo Pietro Aretino, attivo prima a Roma poi a Venezia fra il 1517 e il 1556, scrive un italiano composito, brillante e libero. ➔ Torquato Tasso, di origine campana, poi formatosi in vari centri settentrionali, scrive a Ferrara la Gerusalemme liberata (1575) in un italiano ‘alto’ indipendente da condizionamenti locali. Al culmine di questo processo, nel poema barocco L’Adone, pubblicato a Parigi nel 1623 dal più rinomato letterato italiano, Giambattista Marino, non resta nessuna traccia né dell’origine napoletana né del lungo soggiorno torinese del suo autore.
Un altro settore nel quale si misura il progresso della lingua italiana nel Rinascimento è quello della scienza e della tecnica.
Per tutto il Quattrocento e il primo Cinquecento si dispiega ancora la «scienza volgare», nel senso del «sapere di mestiere» (Maccagni 1993) di artisti, artigiani e tecnici vari (dalla meccanica all’idraulica all’agrimensura alla cartografia, ecc.) di formazione puramente empirica, altrettanto privi di teoria scientifica che di educazione letteraria. Il sommo rappresentante di questa tradizione si può considerare ➔ Leonardo da Vinci, «omo sanza lettere». Un secolo più tardi ➔ Galileo Galilei, fondatore della fisica moderna e professore universitario a Pisa e Padova, rinunciò al latino lingua internazionale della scienza per scrivere in volgare il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), lasciando l’esempio di una prosa razionale di mirabile architettura e la prova della piena capacità di argomentazione scientifica posseduta dall’italiano (Marazzini 1993: 55-65).
La ➔ questione della lingua, cioè la secolare discussione su quale dovesse essere il modello della lingua letteraria, è tipicamente italiana: un profluvio di soggettività determinato dalla mancanza di unità politica, cioè di quei fattori oggettivi che negli Stati nazionali imponevano con la forza delle cose il modello linguistico della capitale.
All’inizio del Cinquecento si fronteggiavano la teoria cortigiana (➔ cortigiana, lingua), poi detta anche italianista, che auspicava un conguaglio fondato sugli usi della conversazione civile nelle varie corti italiane; le teorie fiorentiniste o toscaniste, che identificavano la lingua letteraria esistente nell’uso vivo fiorentino o toscano (un illustre esponente è ➔ Niccolò Machiavelli); e la teoria bembiana (cfr. § 4), classicistica, che imponeva l’imitazione linguistica rigorosa dei grandi modelli trecenteschi, Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa (Vitale 1978: 39-153).
La teoria bembiana prevalse – se pure nella versione, rivista e parzialmente corretta, di ➔ Benedetto Varchi e di ➔ Lionardo Salviati – perché era fondata sulla tradizione letteraria illustre, che costituiva la ricchezza incontestabile dell’Italia, e perché dava certezze, potendosi tradurre in una normativa fonologica e morfologica perfettamente chiara. Il costo da pagare era la rinuncia alla dimensione dell’oralità e all’uso vivo, e lo stigma di lingua letteraria, elitaria, conservativa e non pratica che l’italiano mantenne per molti secoli. La norma venne diffusa attraverso centinaia di libri di grammatica nell’arco del Cinquecento, una produzione libraria ipertrofica unica fra i paesi d’Europa (Patota 1993; ➔ grammatica; ➔ norma linguistica). Alla fine del secolo, una lingua letteraria italiana condivisa esisteva.
Non deve essere sottovalutata l’enorme produzione scrittoria rappresentata dalle lettere dei mercanti del Quattrocento e da altre scritture dei ceti artigianali che coi mercanti condividevano la formazione esclusivamente volgare delle scuole d’abbaco. Ma questa lingua volgare di carattere pratico viene tenuta fuori dalla codificazione cinquecentesca, strettamente letteraria.
Da allora in poi, le scritture dei semicolti e degli incolti appaiono decisamente marginali: per es., i quaderni di Maddalena pizzicarola trasteverina del primo Cinquecento, del mugnaio friulano Menocchio, i diari di un prete dell’Appennino emiliano: tutte esili tracce che preludono all’exploit, fra Ottocento e Novecento, del cosiddetto ➔ italiano popolare (D’Achille 1994; Trovato 1994: 32-44; Marazzini 1993: 42-54).
L’esigenza di rendere pienamente fonetica l’➔ortografia del volgare introducendo caratteri distinti per e e o aperte e chiuse, u e v, c e g palatali e velari, è già nell’antesignana Grammatica della lingua volgare (1437) di Leon Battista Alberti; e l’ortografia è poi, logicamente, il primo settore nel quale l’avvento della stampa pone un’esigenza di standardizzazione, con la proposta di riforma ortografica avanzata nel 1524 dal letterato vicentino ➔ Gian Giorgio Trissino e le immediate risposte di parte toscana.
I vari tentativi di riforma su base fonetica che si susseguirono fino agli anni Ottanta restarono però lettera morta, e il sistema ortografico dell’italiano si assestò sulla norma ancor oggi in vigore, imperfettamente fonetica e ragionevolmente economica, perché evita di imporre decisioni ortoepiche in punti critici in cui le pronunce regionali dell’italiano divergono (Maraschio 1993: 173-227).
La fonetica e la morfologia che si impongono con la svolta bembiana sono quelle fiorentine del Trecento, scartando le forme fiorentine quattrocentesche o latineggianti o toscane periferiche: dittongazione toscana tipo cuore piuttosto che monottongazione latineggiante o poetica tipo core, anche dopo nessi consonantici come in prieghi, truova; anafonesi fiorentina punto e lingua, non ponto e lengua; i protonica fiorentina tipo migliore, ritorno; preposizione di e non de; er atona fiorentina, non ar, in meraviglia, cercherò; plurali le torri non le torre; articolo il-i non el-e’; due non duo; mio declinabile (mie, miei, ecc.) non mia indeclinabile. Morfologia verbale ‘classica’, non la pletora di forme fiorentine argentee (di origine toscana occidentale o sud-orientale) come portono, amorono, furno, arebbono «avrebbero», ecc.; prima persona plurale del presente in -iamo (forma innovativa, analogica sul congiuntivo): amiamo, non amemo; prima persona singolare dell’imperfetto in -a (forma etimologica, contro la forma analogica innovativa in -o): amava, non amavo (Manni 1994; Trovato 1994: 75-121). Come si vede, si tratta nella maggioranza dei casi delle forme in uso ancor oggi.
Nella sintassi, ridimensionata l’invadenza oltranzistica del modello latino riscontrabile nella prosa di Leon Battista Alberti e di altri umanisti volgari, prevale tuttavia il modello dell’ampio e sostenuto periodare boccacciano, a sua volta esemplato da Cicerone: modello promosso dal Bembo, a cominciare dalla sua propria prosa degli Asolani (1505, 1530).
Nei due secoli qui trattati gli ambiti d’uso del volgare si estendono e di conseguenza il lessico si amplia, attraverso vari canali. Da parte degli scriventi toscani si ha un ininterrotto ricorso alla propria competenza nativa, che porta a legittimare nell’uso scritto, via via che ne insorga la necessità, il patrimonio orale popolare.
In età umanistica entrano latinismi in quantità, e anche quando dopo Bembo prevale un filtro a tutela dell’autonomia del volgare, il ricorso al latino rimane insostituibile, determinando fra l’altro la coesistenza di ➔ allotropi, doppioni costituiti da una forma popolare e una forma dotta risalenti alla stessa base latina (Scavuzzo 1994). Il lessico autorizzato dai grandi trecentisti, Petrarca e Boccaccio (Dante appare censurabile nella sua escursione stilistica verso il basso) viene riusato in modo preferenziale. La scelta per il lessico trecentesco viene sancita sul piano lessicografico (➔ lessicografia) dal Vocabolario degli Accademici della Crusca (prima ed. 1612), che fu per secoli l’autorità indiscussa in fatto di lingua e anzitutto di lessico, all’insegna del motto «il più bel fior ne coglie» che ne definisce bene il programma selettivo-discriminatorio (Marazzini 1993: 169-192).
Ma intanto in italiano entrano numerosi forestierismi, dalle lingue iberiche per via dell’egemonia spagnola su gran parte dell’Italia (D’Agostino 1994; ➔ ispanismi), dal francese (Morgana 1994; ➔ francesismi), dal tedesco (Arcamone 1994; ➔ germanismi) e anche, grazie ai viaggi e alle esplorazioni geografiche, da lingue esotiche (Mancini 1994; ➔ orientalismi).
La lingua italiana, forte della sua tradizione letteraria illustre, gode di grande prestigio in Europa, dove si avvia a essere la lingua internazionale della musica e dell’arte (➔ immagine dell’italiano). I teorici italiani della lingua, come Pietro Bembo o ➔ Baldassarre Castiglione ereditano l’autorevolezza degli umanisti italiani e appaiono punti di riferimento per teorie e azioni a sostegno delle lingue nazionali che si sviluppano in tutte le monarchie europee.
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