Umanesimo e Rinascimento
La storiografia umanistico-rinascimentale, come del resto la storiografia di ogni età, non può essere sintetizzata in un’unica definizione, o comunque descritta secondo una successione omogenea di nomi e di opere. Se, inoltre, per ‘umanesimo’ si intende l’influsso diretto degli autori dell’antichità (particolarmente, tra i latini, autori quali Sallustio, Tito Livio, Valerio Massimo), il modello vale indifferentemente perlomeno a partire dal 13° sec., in particolare riferimento alla produzione cronistica cittadina della civiltà comunale italiana. Il discorso muta se, abbandonando la pretesa di vecchi stereotipi, ci si cala nel tessuto concreto della cultura storiografica, e in particolare della cultura storiografica dell’Italia centro-settentrionale del 14° secolo.
Senza alcun dubbio il testo storico esplicitamente o implicitamente più presente è la trattazione enciclopedica, per l’appunto dedicata appositamente alla storia, Speculum historiale, dell’enciclopedista francese del 13° sec., Vincent de Beauvais. La storia, nell’accezione più ampia del termine di narrazione delle vicende umane, è ivi saldamente incorporata nella dottrina e nell’organizzazione della ‘scuola’. Il presupposto è che ogni narrazione che la buona tradizione abbia trasmesso racchiuda in sé, sia pure in gradi diversi, la sua esemplarità, e cioè la sua capacità di insegnamento morale. È questa non per nulla l’epoca che solleva al rango dei più grandi storici il retore latino della prima età imperiale Valerio Massimo, l’autore che, con la vasta fortuna medievale dei suoi Factorum ac dictorum memorabilium, più ha operato per la riduzione della storia a exemplum, anzi per la formulazione stessa della dottrina dell’exemplum nella retorica edificante della predicazione religiosa, particolarmente degli ordini mendicanti. Non per nulla domenicano è Vincent de Beauvais, così come l’impronta domenicana reca il progetto, già dallo Speculum maius di Vincent de Beauvais al Mare historiarum di Giovanni Colonna (13°-14° sec.), fino al Chronicon di sant’Antonino (1389-1459) e oltre, di una storia universale, che rappresenti in una sintesi simbolica il primato della Chiesa e della sua dottrina, alla quale il ‘tutto’ sia riferito. La ‘totalità’ è, infatti, concetto portante dell’enciclopedismo nella sua tipica mescolanza delle più diverse fonti, non facendo naturalmente eccezione l’enciclopedismo storico. Così si esprime nel suo proemio al Memoriale temporum (una compilazione preparatoria allo Speculum) Vincent de Beauvais (cfr. Fubini 2003a, p. 42):
Mi sono proposto di ripercorrere entro l’intera serie delle generazioni trascorse gli eventi degni di nota di tutto quanto il mondo, e di riunire in un solo volume i fatti raccolti dai più diversi storiografi e compilatori, là dove sia raccolta in sommario la serie intera delle epoche, e sia contenuta la memoria breve di tutti i tempi
[…] in quo totam seriem temporum summatim perstringere […], eo quod omnium temporum memoriam brevem contineat.
Al concetto della totalità si lega strettamente – in tali tipiche scritture della scolastica medievale – quello della tradizione del testo e, di qui, della sua trasmissione attraverso il metodo istituzionalmente definito della compilazione. Sempre nel linguaggio di Vincent de Beauvais, all’auctor, lo storico testimone più o meno attendibile di una vicenda, subentra la figura impersonale, e perciò oggettiva, dell’actor, il compilatore, che dalla varietà delle fonti trae il succo istruttivo del racconto. La storia, in altri termini, è ridotta a testo, e quest’ultimo misurato secondo la sua capacità di trasmettere un ammaestramento morale. Sono concetti essenziali per comprendere la diretta reazione di Francesco Petrarca (1304-1374) nella sua opera sugli eroi della romanità, De viris illustribus, che percorre a guisa di un programma la sua intera carriera, e che tuttavia non ebbe mai compimento e pubblicazione. Ciò non avvenne sicuramente per scrupolo di perfezione letteraria, ma per non aver trovato l’autore un punto d’appoggio conveniente per avallarne la critica dirompente alla cultura istituzionale del tempo: una cultura adiacente a Petrarca stesso, almeno per il tempo in cui egli soggiornò ad Avignone nel circolo del cardinale Giovanni Colonna (basti pensare all’omonimo autore del Mare historiarum, corrispondente del poeta, che ripete inalterati i concetti di Vincent de Beauvais).
Il proemio al De viris illustribus di Petrarca (strano proemio a un’opera mai completata e licenziata) è, alla guisa di un manifesto culturale, la contrapposizione esatta a quanto si è esposto. Egli non aveva infatti mirato «a seguire in modo pedissequo le tracce degli scrittori più illustri» (scriptorum clarissimorum vestigiis insistere), avendo come obiettivo, «non già le parole, ma i fatti» (nec tamen verba transcribere sed res ipsas). E ancora meno egli intendeva emulare la
temeraria e inutile diligenza di coloro, che, nel ripercorrere le parole di tutti quanti gli storici, nel timore che nulla, in alcun modo, venga tralasciato, mentre gli uni si contraddicono con gli altri, avvolgono l’intreccio della loro storia di nebulose ambagi e nodi inestricabili
[…] qui omnium historicorum verba relegentes, ne quid omnino pretermisisse videantur, dum unus alteri adversatur, omnem historie sue textum nebulosis ambagibus et inenodablibus laqueis involverunt.
Petrarca, infatti, non si presenta quale artefice di una compilazione atta a concordare tutti gli storici (neque pacificator historicorum neque collector omnium), ma come chi ambisce a valutare l’attendibilità della fonte: «come imitatore di coloro, che posseggono un grado più certo di verisimiglianza, o una maggiore autorità» (sed eorum imitator quibus vel verisimilitudo certior, vel auctoritas maior est), dove è da notare l’ossimoro della verisimilitudo certior, il criterio retorico della verisimiglianza che tende al giudizio di ragione. E, tuttavia, nemmeno tali scrittori valevano a costituire autorità indiscussa, notando, per es., nel resoconto di Tito Livio un’inevitabile discordanza di versioni (que tanto rebus propinquiorem T. Livium dubium tenuit).
Infine, pur mantenendo, sulle tracce di Livio, la tradizionale finalità moralistica della storia, Petrarca non si sottrae a valutazioni ispirate a criteri di giudizio indipendenti, non senza una vena, che i suoi seguaci umanisti del 15° sec. avrebbero ripreso e radicalizzato, di utilitarismo ‘epicureo’. Tipica al riguardo è la discussione, nella biografia De gestis Cesaris, sul suicidio di Catone Uticense. Esso era stato altamente celebrato da Cicerone e Seneca, mentre Agostino lo aveva biasimato; Petrarca gli si associa, ma per diverse ragioni. Catone era stato sicuramente d’animo alto e coerente, e tuttavia la sua decisione ultima fu precipitosa e futile. Qual male gli sarebbe potuto provenire da una mera sconfitta politica? ([…] sed in finem, si de tanto viro loqui ausim, inconsulti precipitisque et, ut vere dicam, vani animi fuisse […] Cui quid mali potuerit accidere non invenio).
Dagli assunti qui sintetizzati di Petrarca derivano i seguenti punti principali della storiografia umanistica che ne sarebbe derivata: 1) l’affrancamento della storia, in quanto rivolta ai fatti politici, dalle discipline di scuola, a cominciare dalle tradizioni della retorica; 2) la rottura netta del principio di continuità storica: Petrarca, infatti, risale alle fonti al di là della tradizione e della dottrina cristiana, e la fiducia che accorda loro è di natura culturale e razionale, ben distinta dal dottrinarismo dell’istituzione; 3) secondo un tendenziale rovesciamento del principio antico della Historia magistra vitae, l’aprirsi di una nuova visuale storica autonoma rispetto alla tradizione del testo implica inseparabilmente una revisione dei criteri della valutazione morale. Per cominciare, la storia è per definizione dominio della secolarità.
In una privata annotazione in margine alla formulazione della dottrina patristica secondo cui l’impero romano avrebbe preparato l’unità mistica delle genti in Cristo, così reagisce Petrarca: devote potius dictum quam ystorice («è affermazione che riguarda piuttosto il dominio della fede che non quello della conoscenza storica»). Siffatto criterio di valutazione antidottrinario si estende agli stessi testi antichi, come si è sopra veduto a proposito dello stoicismo di Cicerone e Seneca, mentre nei Rerum memorandarum libri, nel nome di un sano criterio di vita utilitaristico, Petrarca non teme di rivendicare apertamente la filosofia calunniata di Epicuro. Si tratta, in altri termini, di uno studiato rovesciamento della dottrina retorico-moralistica dell’exemplum: a una visione disincantata della storia corrisponde strettamente una revisione al limite radicale del paradigma morale, come nel secolo seguente avrebbero dimostrato ampiamente autori come Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini, e, con particolare radicalità, Lorenzo Valla, l’autore del dialogo epicureo De vero bono (sul titolo esatto cfr. Fubini 1990, p. 340), nonché dello scritto che, con la falsità della donazione di Costantino, mette sotto accusa l’intera tradizione dottrinale, giuridica e leggendaria della Chiesa (De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio).
Tra i seguaci di Petrarca nel nuovo secolo per primo viene l’aretino e fiorentino di adozione, Leonardo Bruni (1370 ca.-1444). Per scrivere le Historiarum Florentini populi libri duodecim egli fu gratificato fin dal 1416 dagli uomini del reggimento cittadino del privilegio della cittadinanza e, al compimento dell’opera nel 1442, la Signoria di Firenze provvide all’acquisto dell’esemplare autentico nella previsione del suo volgarizzamento, che di fatto avvenne solo per opera di Donato Acciaiuoli nel 1473.
Con Bruni i postulati culturali di Petrarca si traducono, a tacere della sua varia produzione ‘umanistica’, in storia politica. Di fatto, dal punto di vista della classe dirigente, si era rotta la continuità con il vecchio comune cittadino anche dal punto di vista politico-istituzionale. A partire dalla crisi del 1378 e dai successivi ‘Parlamenti’ (veri e propri plebisciti forzosi per introdurre innovazioni costituzionali) del 1382 e 1393, gli equilibri cittadini si erano spostati dalla base rappresentativa delle Arti e dei due Consigli ‘opportuni’ – nell’ordine di priorità quello del capitano e del popolo e quello del podestà e del Comune di Firenze – ai vertici del cosiddetto reggimento, vale a dire dell’insieme dei cittadini destinati nello scrutinio elettorale a essere sorteggiati per i ‘Tre maggiori uffici’, gli otto priori delle Arti e il gonfaloniere di giustizia, affiancati dai collegi consulenti e deliberanti dei sedici gonfalonieri di compagnia e dai dodici buonomini.
Il 1396 segna una data importante nella storia degli ordinamenti cittadini, in quanto gli ufficiali esterni esercitanti giurisdizione, il capitano del popolo e il podestà, furono bruscamente esautorati, a favore della Signoria, dalla prerogativa che assegnava loro la dottrina giurisprudenziale di presiedere i Consigli, con visibile indebolimento del potere dei Consigli medesimi. In altri termini, la Signoria aveva anche simbolicamente rivendicato un trasgressivo privilegio di sovranità che dal suo vertice si estendeva all’intero organismo politico, non più di città, ma di Stato. Nel linguaggio politico-cancelleresco tale concetto era espresso con i termini di res publica, ma anche di populus, sul modello del populus romanus, quale detentore privilegiato della sovranità secondo la vigente dottrina giuspubblicistica di Bartolo da Sassoferrato e Baldo degli Ubaldi. Già nel titolo prescelto per le sue Historiae, per l’appunto del ‘popolo’, non già della ‘città’ di Firenze, Bruni si pone in simile prospettiva, e cioè dell’ascesa di Firenze da città soggetta all’impero di Roma a repubblica sovrana, non senza celebrare nel proemio lo «smisurato aumento di potere» con l’assoggettamento del territorio e, in particolare, con la recente conquista di Pisa.
La nuova situazione politica vale a indirizzare la prospettiva storica di Bruni. Ciò ha il significato di calare nella storia politica quello spirito antiscolastico e antitradizionale che Petrarca aveva trasmesso attraverso la rarefatta, quasi clandestina, atmosfera del De viris illustribus e più in genere dei suoi vari scritti. Petrarca, come già si è detto, aveva polemizzato contro i presupposti stessi dell’enciclopedismo scolastico, ispirato alla fiducia che la verità, che per definizione è una e una sola, si facesse strada attraverso la sovrapposizione delle proposizioni ‘probabili’, e cioè degli autori ‘approvati’, che il compilatore, custode delle buone tradizioni, diligentemente elencava, affidandosi alla discrezione del lettore. Ciò era particolarmente vero per la storia dove, nell’invisibilità delle vicende trascorse e nell’assenza di testimoni sicuri – così come ancora osservava il cancelliere di Firenze Coluccio Salutati nel 1405, scrivendo al cronista genovese Giorgio Stella –, ci si sarebbe accontentati «che perlomeno la verisimiglianza non manchi, a mezza strada tra l’invenzione favolosa e la certissima verità». Il cronista doveva dunque badare a che non fosse mai tralasciato quanto gli appariva verosimile, e al tempo stesso mai affermare qualcosa per certo, «ma sempre attribuirlo all’autorità del testo che lo riferiva» (Epistolario di Coluccio Salutati, a cura di F. Novati, 4° vol., parte 1, 1905, p. 129).
Circa dieci anni più tardi Bruni rompe bruscamente con simile criterio scolastico del probabilismo del testo; e, come Petrarca aveva contrapposto nella ricostruzione storica la res (il fatto) ai verba («le parole», e cioè il racconto degli scrittori), così Bruni comincia le Historiae bruscamente: «La città di Firenze fu fondata da quei Romani, che erano stati mandati da Silla a colonizzare Fiesole» (Florentiam urbem Romani condidere Faesulas deducti). Stabilita la fonte diretta, le altre tradizioni potevano ben essere messe da parte, compresa quella principale che voleva la città fondata da Cesare. Questa era stata narrata a profusione da Giovanni Villani (1280 ca.-1348), insieme al ciclo della leggenda virgiliana di Enea e al mito medievale della rifondazione carolingia, in virtù della quale la città ebbe riconosciuti i suoi privilegi e le sue franchigie. Tutto ciò è bollato da Bruni come «volgari e favolose opinioni» (vulgaribus fabulosisque opinionibus reiectis), rompendo in questo modo con il sentimento collettivo di identità e continuità cittadina attraverso i tempi, che un cronista come Villani aveva espresso attraverso il mito poetico delle origini, guadagnandosi una fama mai interrotta, anzi ancora rinverdita al tempo di Bruni e ben oltre in ambiente non soltanto popolano.
Al modo di come Petrarca aveva mirato a riscattare la visione di Roma dalle tradizioni patristiche e scolastiche compendiate nello Speculum historiale di Vincent de Beauvais, così Bruni mira a riscattare Firenze dalla sua tradizione e mentalità di comune medievale, dal punto di vista rinnovato di un potere che mira alla piena sovranità, e che perciò si dota di razionalità politica e capacità espansiva. Scrive Bruni nel suo Proemio: «Mi sono proposto di scrivere la storia di questa città non solo per quel che riguarda la mia età, ma per quanto la memoria può risalire nel suo passato» (Ego autem non aetatis meae solum, verum etiam supra quantum haberi memoria potest repetitam huius civitatis historiam scribere constitui). Bruni in altri termini si propone di riscrivere e sostituire Villani, a cui egli si riferisce costantemente, ma senza degnarsi di farne apertamente il nome, e cioè senza riconoscerne l’autorità. Detto in altri termini, egli si pone su di un altro piano culturale, da cui discende una diversa concezione politica.
Con Bruni si consuma l’emancipazione della storia dalle discipline scolastiche in nome delle verità di ragione. Di qui derivano una serie di distinzioni. Quella per cominciare della storia dal mito della poesia: «quanto più è aliena dagli infingimenti poetici, tanto più incorrotta e pura è la storia» (ut alienior a poetarum figmentis, sic intemeratior et purior historia), afferma Bruni nel corpo delle sue Historiae, con parole che ci rimandano piuttosto al modello greco di Tucidide (Bruni fu tra i primi ad averlo conosciuto e studiato) che non all’indulgenza di un Tito Livio per il mito patriottico. Ne consegue a maggior ragione il distacco tra storia e teologia.
In particolare, a essere respinta è l’apologetica degli Historiarum adversus paganos libri septem di Paolo Orosio (4°-5° sec.), onnipresente nei cronisti medievali e segnatamente, non occorre dire, in Villani. Mi riferisco in particolare alla menzione di Galla Placidia, la figlia di Teodosio e sorella dell’imperatore Onorio, costretta a seguire negli orridi accampamenti dei Goti uno sposo barbarico. Secondo Orosio l’episodio era esemplare per indicare l’operare nella storia della provvidenza divina, che umiliava l’orgoglio di Roma imperiale: «Come se Roma per divino decreto l’avesse consegnata ostaggio quale pegno speciale» (VII, 40, 2). Bruni, in riferimento a Orosio, sostituisce il «decreto divino» con la virgiliana «fortuna onnipotente», che agita incontrollata, oltre ogni umana previsione, le sorti di questo mondo (adeo sors cuncta etiam incredibiliter miscet). La stessa professione di repubblicanesimo, che, già annunciata nella precoce Laudatio Florentinae urbis (1404), viene amplificata nelle Historiae, secondo la quale la decadenza e la caduta di Roma erano già implicite nel trapasso dalla repubblica all’impero (massimi responsabili, Cesare e Augusto), è la più evidente professione della sopravvenuta secolarizzazione della storia. A essere confutata non era soltanto la dottrina che, come fra gli altri in Dante, affermava la provvidenzialità dell’impero universale, ma anche più sottilmente quella che è stata detta la teologia augustea, vale a dire la concezione dei Padri della Chiesa, particolarmente Orosio, secondo la quale la pace di Augusto era stata voluta da Dio per accogliere il messaggio di Cristo. Nella provocazione di Bruni, la pace di Augusto non era altro che un esaurirsi delle proscrizioni, frutto queste ultime delle ‘necessità’ del potere.
Entro un tale radicale secolarismo le tradizionali concezioni etiche, politiche, giuridiche risultano dislocate. La finalità moralistica della storia (che Villani, introducendo la sua Cronaca, additava ai lettori, «acciò ch’eglino si essercitino adoperando le virtù e schifando i vizi») è sostituita dalla funzione della storia a spronare le virtù ‘pubbliche’, in quanto distinte da quelle meramente private. La distinzione della sfera ‘pubblica’ rispetto a quella ‘privata’ è tipica di quest’età di precoci e innovative formazioni statali e si ritrova, per es., nei nuovi Statuti fiorentini del 1409-1415. La separazione delle due sfere è in Bruni calata dalle concezioni giuridiche a quelle morali. In tal senso l’opposto della ‘virtù’ non è il ‘vizio’, ma l’‘ozio’, e cioè l’inazione politica. Assoggettata a Roma, per es., l’Etruria fu «oppressa da ozio snervante» (marcescente otio oppugnata). Al polo opposto Firenze si sviluppò in città-Stato solo quando da municipio sottoposto a Roma, città capitale, si liberò – per riprendere l’immagine di Bruni – dall’ombra della grande pianta. Il trapasso dall’una all’altra condizione non è rappresentato in termini giuridici, ma politici e psicologici. Si tratta in altri termini di un’emancipazione da una condizione comunale, dove era il dominio delle virtù private a prevalere. Una volta fondata la città
questi habitatori inpararono a stare contenti alle cose loro proprie et non cercare nuovi dictatori et nuove guerre […] (V)olti e’ loro pensieri a uno quieto vivere, subitamente si mutorono e’ costumi. Peroché cominciorono a spaventare de’ debiti et mettere diligentia nelle cose loro, et regolare la vita delle superflue spese, et riputare che la luxuria et la prodigalità fussi dannosa alla republica, et quella medesima regola poseno a’ loro figluoli et a tutte le loro famigle. Di che la città ne venne a cresciere et molta gente di fuori […] venneno ad habitare in quella. Et per questa via la terra si venne a diventare populosa et a ornarsi ogni dì di moltitudine di case e di edificii (si cita, come poi in seguito, dalla versione coeva di Donato Acciaiuoli, ora in L. Bruni, P. Bracciolini, Storie fiorentine, presentazione di E. Garin, 1984 [rist. anast. dell’ed. del 1476, senza numerazione di pagine]).
E tuttavia l’accrescimento non equivaleva a effettiva grandezza, che soltanto la sovranità politica vale a garantire:
Ma non haveva facultà di crescere molto in potentia per la vicinità et grandeza del Romano imperio […] Et non solamente la tene adrieto che non si potessino sollevare in potentia, ma se ve n’era state alcune [scil. città] alquante potenti, per la grandezza di quella erano diminuite et venute al basso. Et però non poteva questa nuova città distendere e’ suoi confini, né accresciere la reputazione de’ magistrati, havendo el suo territorio rinchiuso in brevi termini, et quella tanta giurisditione ch’ella havea era soctoposta al dominio romano. Appresso, se alcuno giudica le mercatantie appartenersi allo accrescimento della città, non era luogo alcuno dove più commodamente si potessi exercitare in quel tempo che a Roma. Quivi era la frequentia degli huomini; quivi la facultà del vendere […]; di loro erano e’ porti et le isole et i luoghi commodi agli exercitii.
[Il testo latino prosegue a questo punto, censurato nella traduzione dell’Acciaiuoli: ibi gratia, ibi publicanorum favor; alibi neque gratia, neque potentia par («qui stava la protezione politica, qui il favore del fisco: altrove si sarebbe desiderato invano un simile favore, o la protezione di un simile potere»)].
Et pertanto se alcuno nascieva nelle città vicine di buono ingegno […], facilmente se n’andava a Roma; et a questo modo venia a fiorire Roma, et l’altre città di Italia venivano a mancare in ogni facultà di huomini excellenti […].
Il passo, si è detto, è posto come antefatto alla vera e propria storia ‘del popolo fiorentino’, nella digressione sulle origini della città, fra le altre città d’Italia soggette a Roma. In realtà, Bruni rappresenta il trapasso dal comune cittadino all’avvento recentissimo dello Stato territoriale: i concetti qui adombrati della necessità dell’«ampliare» (o «crescere in potenza»), o della dovuta «reputazione de’ magistrati», adombrano argomenti che ritroveremo ampiamente svolti negli scritti storici e politici di Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini. E come poi in costoro, già si propone qui una trasformazione di concetti morali che mai i cronisti cittadini avrebbero osato arrischiare nella trasformazione dal privato al pubblico. Una siffatta distinzione già era stata adombrata in Bruni nella Laudatio Florentinae urbis, nella difesa delle guerre di conquista, in realtà avversatissime in larghi strati della cittadinanza, e quivi giustificate dall’eredità di Roma.
Nelle Historiae, abbandonata la retorica celebrativa, lo sguardo dello storico non va tanto al modello di Roma, quanto alla vicenda moderna delle città d’Italia, e fra di queste della potenza (parola chiave!) rivendicata da Firenze. È in tale ottica che l’etica pubblica si dissocia da quella privata, che il comune cittadino aveva gelosamente custodito quale presidio emblematico della coesione sociale. Eminente tra tali principi era la parsimonia (va al riguardo per inciso ricordato che nella prassi comunale i camerlenghi, custodi della ricchezza comune, erano sottratti all’autorità politica del Priorato, e le proposte di spesa sottoposte ai Consigli dovevano direttamente provenire da loro). Diversamente si esprime sul principio del libro VI delle Historiae di Bruni un personaggio, l’autorevole Pino della Tosa, che nel 1329 propugna dinanzi alla cittadinanza renitente l’acquisto di Lucca: un dibattito che prefigura quelli nell’età di Bruni accesissimi sull’espansione territoriale.
Io son mosso – egli ammette – da ciò che nell’opinione umana è reputato bene: estendere il territorio, aumentare il dominio, esaltare la gloria e il lustro della città, mirare alla sua sicurezza e utilità
Come qui si vede, la visione politica della storia reca inseparabilmente con sé una concezione utilitaristica dell’etica, che non è quella formalistica della dimensione sociale ‘privata’, ma quella che si appella alle inclinazioni più generali dell’uomo. In altri termini, la realtà vissuta era privilegiata sulla dottrina della scuola, Tucidide era elevato sopra la dottrina di Aristotele e Cicerone.
Dopo l’ampia discussione sulle origini, le Historiae in senso proprio partono dal 1250: esse travalicano le ‘antichità’ cittadine, e si rivolgono particolarmente alla modernità, a partire dalla morte di Federico II e alla progressiva acquisizione di autonomia, da parte di Firenze, dall’autorità imperiale. In tale ottica l’emanazione dei cosiddetti Ordinamenti di giustizia nel 1293-95 ha una sua funzione centrale. L’orazione attribuita a Giano della Bella nel libro IV delle Historiae è a buon diritto uno dei punti nodali del racconto. Quel che particolarmente è posto in risalto, in spirito sicuramente non più medievale, è la natura costituzionale dei provvedimenti. Giano esordisce:
A me pare che la libertà del popolo consista in due cose: nelle leggi et ne’ giudicii. Quando queste due cose possono più nella città che alcuni cittadini, allora si mantiene la libertà. Ma quando e’ si truova chi spreza le leggi et e’ giudicii sanza alcuna punitione, allora si debba stimare che la libertà sia perduta […] Voi havete molte leggi che pongono freno alle violentie, alle uccisioni, a’ latrocinii, alle ingiurie et agli altri maleficii. Queste tali leggi giudico che contro a’ potenti si debbono innovare et aggiugnere ancora delle altre: però che crescendo ogni dì la perversità degli huomini è di bisogno fare nuove provisioni […] Questi nostri giudicii due cose maximamente gli sogliono impedire: la difficultà delle pruove et il mancamento di metergli ad executione, però che e’ testimoni ànno paura degli huomini potenti, et per questo timore periscono e’ giudicii, e se pure le pruove si danno, el magistrato teme di giudicare. Se a queste cose non provedete, sappiate che la vostra città non si potrà chiamare republica.
Se il primo ‘rimedio’ è di giustizia penale («non s’affatichi el giudice di cercare altre pruove […] la fama solamente gli sia a sufficienza»), il secondo, la creazione del gonfaloniere di giustizia, è di carattere schiettamente costituzionale, riguardando la rappresentanza del popolo al potere:
[…] Alla altra difficultà di mectere ad executione e’ giudicii, notate el rimedio che mi pare da tenere, però che questa mi pare maggiore cosa che gli huomini non stimano. Et parmi che questo rimedio dipenda non tanto dal magistrato, quanto dalle forze del popolo, el quale se vorrà intendere la sua degnità nella republica, facilmente si mecterano ad effecto e’ giudicii contro agli huomini potenti […] Io adunque giudico che l’auctorità del Gonfaloniere della giustizia si debba grandemente afforzare et stabilire. […] Appresso mi pare che el Gonfaloniere della giustizia debba fare residentia insieme co’ Priori, acciò che possa al presente sentire le querimonie de’ cittadini et provedere alle necessità della republica.
Il terzo provvedimento era che «nessuno de’ potenti», pur matricolati in un’arte, potesse essere nominato al Priorato. In tal modo Bruni, pur senza in tutto alterare la verità storica, riduce a un semplice cenno, al limite oscurandola, la creazione della categoria discriminata dei ‘magnati’, allora un residuo ormai anacronistico del passato comunale. Vi è un altro luogo nel libro VII delle Historiae dove, in ciò anticipando Machiavelli, Bruni deplora la discriminazione dei ‘nobili’ da parte del ‘popolo’. A proposito della nuova (ed effimera) forma di governo che per volontà del vescovo Angelo Acciaiuoli seguì immediatamente nel 1343 la cacciata del duca di Atene (Gualtieri VI di Brienne) che, in contraddizione degli Ordinamenti di giustizia, ripristinava i ‘magnati’ nel governo, così egli scrive:
Placati e ormai volti alla pace gli animi, i cittadini ritennero che il pubblico ordinamento si sarebbe volto alla concordia, se nessuna delle parti, fosse stata indotta per esclusione dal governo ad odiare il reggimento cittadino
Un’altra, per certi riguardi opposta, considerazione si legge a proposito delle ‘ammonizioni’ della Parte guelfa nel 1378, l’anno della pacificazione con papa Gregorio XI e del tumulto dei Ciompi. Per meglio spiegare, occorre una breve digressione. La discriminazione dei ‘magnati’ nel 1293 era avvenuta, al di là dei motivi addotti della prepotenza nobiliare sul ‘popolo’, per stabilire un controllo su quei cittadini altolocati che, per meriti militari o per altri servizi, erano stati insigniti della dignità cavalleresca da potentati esterni (in modo particolare, dalla dinastia angioina insediata nel Regno di Napoli) e che, per questo, dovevano loro fedeltà feudale, a scapito della ‘fede’ che il Comune esigeva dai concittadini. Fallito il tentativo (filoangioino) del vescovo Acciaiuoli nel 1343, il Priorato delle arti era andato rafforzando il suo potere (come è palese nella nuova redazione degli Statuti del 1355). La seconda metà del secolo è segnata dal conflitto sempre più palese del Comune, monopolizzato ormai dalla comunità delle Arti, e la Parte guelfa, vera e propria comunità (o universitas) dentro la comunità, dotata di poteri di governo e rappresentanza che, per tutelare i tradizionali legami con la Chiesa e la corona di Napoli, si era dotata di un nuovo, particolare strumento giuridico, quello dell’«ammonizione». Se il Priorato poteva neutralizzare un elemento infido, sanzionandolo come «magnate», in senso simmetrico e contrario la Parte aveva facoltà di «ammonire», escludendolo dalle cariche politiche, chi si fosse dimostrato ostile al tradizionale guelfismo. Di qui appunto derivano le «ammonizioni», delle quali, come a rivalsa, gli uomini della Parte gratificarono coloro (i cosiddetti Otto Santi, e seguaci) che essi indicavano come responsabili della guerra al papa (1375-78), e sui quali così si esprime Bruni sul principio del libro IX, secondo la traduzione dell’Acciaiuoli:
El continuare del magistrato prolungato più volte nelle medesime persone haveva cresciuto loro invidia […]; et non manchava chi apertamente riprehendeva et loro et loro portamenti et tucte le administrationi di quella guerra. D’altra parte la moltitudine favoriva gli Octo et le cose facte da lloro. E’ cittadini adunque di credito et di riputatione [optimates, nel latino di Bruni] per abbattere la potentia degli Octo della Balìa et loro seguaci rinovorono l’antica contesa della città, et pel mezo de’ Capitani della Parte guelfa cominciorono a rimuovere alcuni, come se e’ loro antichi fussino stati di parte ghibellina, dagli honori della republica. Havevano a questa opera unita la volontà de’ nobili [e cioè ‘magnati’], e’ quali trovandosi nel numero de’ Capitani di Parte guelfa, promptamente correvano a admunire gli huomini popolari senza alcuna misura o discrezione, perché parimenti e’ nocenti et gli innocenti punivano.
Bruni non sta né con i ‘nobili’ né con il ‘popolo’. Le sue Historiae riflettono la nuova età segnata dalla costituzione del ‘reggimento’ cittadino, nel senso del governo come espressione dell’ampia rappresentanza dei casati cittadini, che nelle segrete operazioni del periodico ‘scrutinio generale’ (a partire soprattutto dal 1382) erano stati abilitati a essere inseriti nella ‘borsa’ da cui sarebbero stati volta per volta estratti a sorte i cittadini qualificati a ricoprire i ‘Tre maggiori uffici’, la Signoria e i due Collegi consulenti e deliberanti, rappresentanti delle Arti, ma soprattutto dei Quartieri e circoscrizioni amministrative della città. L’ideologia di tale configurazione di regime era quella dell’unità, capace di superare le divisioni faziose del lontano e recente passato (la Parte guelfa era stata infatti incorporata a far parte del regime, con funzioni amministrative e di rappresentanza). E tuttavia non a torto Machiavelli nelle sue Istorie fiorentine avrebbe visto in tali governi il fomite di nuove divisioni settarie. Il governo di reggimento infatti richiedeva un’élite che ne assumesse stabilmente la guida al di là dell’avvicendarsi dell’ufficio, sicché le vecchie divisioni si riprodussero in quelle fra Alberti e Albizzi, Albizzi e Medici, fino alla definitiva vittoria di Cosimo de’ Medici nel 1434.
Le Historiae di Bruni hanno dunque il loro punto di riferimento essenziale nel recente impianto unitario del governo di reggimento. Quale suo inevitabile corollario non manca di trovare espressione la rivendicazione delle élites di ergersi a guida politica del governo, che ha fatto sì che tali governi fossero definiti dagli storici come oligarchici (ancorché appoggiati da una base di consenso – quella del ‘reggimento’ appunto – notevolmente ampia). Tale rivendicazione trova in Bruni espressione in una eloquente orazione attribuita al cittadino eminente Rinaldo Gianfigliazzi nel 1399, nel corso delle guerre contro Giangaleazzo Visconti, nel libro XI delle Historiae. Per la verità l’orazione dilata la giustificazione cancelleresca del nuovo ufficio straordinario dei Dieci di Balia, il comitato plenipotenziario a decorrenza semestrale e rinnovabile, eletto nelle circostanze di guerra o pericolo, per la prima volta creato nel 1384, e molto inviso alla cittadinanza, come minaccia alle prerogative statutarie, in una controversia che si sarebbe protratta fino all’età di Machiavelli. In una delle sue pubbliche missive del 1387 Salutati si appella alla necessità, in determinati momenti, «della prestezza» e «del silenzio»; ragion per cui erano stati eletti «dieci uomini sapientissimi», capaci di condurre i pubblici affari senza bisogno di «consultare la moltitudine» e porre indugi alle «delibere», manifestando «a tutto quanto il popolo ciò che bisogna invece mantenere segreto» (cfr. Fubini 2009, p. 151).
Il Rinaldo Gianfigliazzi delle Historiae di Bruni generalizza come prerogativa degli excellentes viri (i «cittadini savi e da bene» di Guicciardini, che non per nulla ebbe ad apprezzare espressamente l’orazione) quelli che in specie erano gli argomenti giustificativi per la creazione dei Dieci. Così infatti egli afferma nella traduzione dell’Acciaiuoli:
Io certamente e’ pericoli che al presente s’apparechiano alla republica, benché confessi essere grandi, niente di meno non gli temo tanto per quello che sono, quanto pe’ modi nostri. Però ch’io vego, quanto mi ricordo, noi sempre per la tardità et negligentia nostra havere perduto tempo nelle cose che s’anno a fare. Di questo male è cagione che il popolo et la moltitudine non vede le cose future, che prima intende e’ pericoli ch’egli pruova. Et gli huomini excellenti, se alcuni ne sono in questa nostra republica, benché antiveghino e’ pericoli, niente di meno e’ non possono né ardiscono a obviare a quelli. Però che è tanta la licentia del biasimare in questa città, che ipso facto che uno dimostra e’ pericoli et conforta che si rimedii, subito dicono che desidera guerra et non si può quietare; et fanno leggi et prohibitioni in forma che chi volessi provedere a la salute della città, non gli resta via a poterlo fare. Di qua segue che non faccendo alcuno provedimento e’ tempi ci fughono.
Di fronte al pericolo manifesto, allora con procedure macchinose convocano i Consigli speciali dei 200 e dei 131 (un anacronismo di Bruni, perché questi in realtà furono istituiti nel 1411, per limitare il potere di Maso degli Albizzi). E tuttavia Firenze ha da fare, non con un’altra città, ma con un signore potente, libero nel suo agire:
el quale veghia continuamente pel facto suo et non teme e’ calumniatori, né impedito dalle maligne leggi, et però non è da maravigliarsi se lui perviene nelle cose che s’ànno a fare. Ma noi, poi ch’elle sono perdute, pensiamo a’ rimedii. […] Il perché non dobbiamo tanto accusare altri, quanto noi medesimi. […] Ma se noi vorremo emendare questi modi et provedere dirictamente al bisogno nostro, e’ ci resta grande speranza di conservare non solamente la libertà, ma ancora la degnità della republica. Però che noi habbiamo la città magna et riccha, el dominio amplo, molte castella, grande numero di huomini et di forteze ben guardate.
Tuttavia, per prima cosa, era sicuramente fondamentale concedere libertà di azione ai cittadini sapienti:
Sieno adunque diputati a veghiare nella republica et habbino auctorità di potere diliberare senza riferire ogni cosa alla moltitudine et aspectare la sua deliberatione; [..] cessino le calunnie di coloro che dicono male degli huomini prestanti; et ognuno intenda che e’ presenti pericoli sono grandi et hanno bisogno di virtù, di industria e di spesa a volergli fuggire. Ordinate dunque queste cose dentro, è necessario provedere di fuori et mettere in punto gente d’arme et capitani, che sieno presti a’ nostri bisogni, però che noi saremo più stimati dalli amici et similmente da’ nimici, se vedranno intorno a noi sufficienti forze; ma se le forze non ci saranno, ognuno ci sprezerà.
In questo passo delle Historiae di Bruni sta tutto il conflitto che in Firenze percorre il secolo intero. Con ciò s’intende lo spostamento degli equilibri di potere dalla sfera dei Consigli a quella della Signoria, e dalla Signoria stessa intesa come ufficio ordinario a comitati di cittadini eminenti talora formalizzati come uffici straordinari, in una perenne tensione con la base consiliare per la crescente richiesta fiscale, inerente – come sottolinea l’orazione ora citata di Gianfigliazzi – alle nuove ambizioni politiche e statalistiche, senza più freno da parte dei camerlenghi, i vecchi custodi del denaro comune. È questa, detto per inciso, l’età del grande accrescimento del debito pubblico, il Monte comune, e quindi anche del potere detenuto dai suoi maggiori contribuenti. La facoltà di distribuire ‘oneri’ e ‘onori’ – tributi e cariche pubbliche – era concentrata in un’oligarchia ristretta; e tuttavia ciò era accompagnato – e in certa misura controbilanciato – dalla concessione a un numero considerevole di famiglie a partecipare anche per quota minoritaria al ‘reggimento’, che era una garanzia anche sociale (a fine secolo si sarebbe trattato di migliaia di nomi, computati alla costituzione del Consiglio maggiore in 3500). Tutto ciò valse a mantenere la città in un sia pur precario equilibrio, ormai distante dagli ordinamenti del vecchio Comune, e alla ricerca di un nuovo, più plausibile assetto costituzionale.
Il testimone più accorato di questo stato di cose (e che, per inciso, esercitò forte influsso sulle Istorie fiorentine di Machiavelli) fu lo storico-cronista Giovanni Cavalcanti (1381-1451 ca.), autore delle Nuove historie (secondo l’intitolazione stabilita dalla ricerca recente; cfr. Fubini 2003a, p. 181), così forse chiamate in riferimento a quelle di Bruni. Rispetto a Bruni appunto, che si arresta al 1402 (la conclusione vittoriosa del conflitto con Giangaleazzo Visconti), egli tratta degli avvenimenti compresi tra il 1420 e il 1440, in particolare del regime di Rinaldo degli Albizzi e della sua caduta a opera di Cosimo de’ Medici; una Seconda opera si estende con non minore acrimonia polemica a trattare dell’impianto del regime mediceo. Basterà, di Cavalcanti, riportare le definizioni epigrammatiche dal punto di vista di un escluso degli aspetti drammatici della trasformazione politico-costituzionale in atto:
Le sustanze di Firenze dagl’impotenti ai potenti cittadini si promutavano sotto il nome di gravezze [scil. prestiti forzosi] col favore delle guerre, i quali sono, senza il reggimento, sostenitori di ingiurie e di torti […] Mi pareva che la repubblica ne dovesse seguire tirannesco e non politico vivere, […] e che il Comune era più governato alle cene e negli scrittoi che nel palagio, e che molti erano eletti agli ufici e pochi al governo (cit. in Fubini 2003a, pp. 182-83).
Siamo qui al polo opposto di Bruni; ma neanche Bruni (uomo esterno rispetto alla cittadinanza nativa di Firenze, eletto nel 1427 cancelliere della Repubblica in quanto esterno rispetto alle fazioni in conflitto) può essere detto apologeta del regime costituzionale vigente. In un luogo celebre nel libro VI delle Historiae, a proposito dell’istituzione della nomina agli uffici per sorteggio (1323 secondo Bruni), così egli si esprime con disapprovazione:
[L]a sperientia approvò questa legge essere utile a torre via le contese […], ma quanto ella giova in quello alla republica, tanto nuoce ed assai più in questo, che per la sorte molti indegni sono assumpti al magistrato, però che non si provede colla medesima diligenza agli ufici che s’ànno a trarre per lo avenire, come a quelli che si eleghono di presente; ma le cose ordinate per il tempo futuro et dubbiose se ànno a essere certamente, noi le giudichiamo con più negligentia et le presenti con più consideratione. Tal modo ancora spegne lo stimolo della virtù, però che, se gli huomini havessino a concorrere ne’ partiti et apertamente mectere in pericolo la loro fama, molto più si guarderebbero nella vita et portamenti loro. El primo modo adunque non dubito essere stato più laudabile et utile alla republica, el quale osservò sempre el popolo romano in creare e’ suoi magistrati; et niente di meno questo modo della sorte introdocto in quel tempo in Firenze è venuto insino alla età nostra et per uno certo favore popolare [popularitate quadam, nel latino di Bruni] mantenuto nella republica.
Il passo riveste un carattere, piuttosto che politico, ideologico, e rammenta la sommaria condanna, da parte di Bruni, dei ‘moderni’ nei confronti degli ‘antichi’, ciò che per lui equivaleva estensivamente al rifiuto delle tradizioni della scolastica ampiamente considerata (e, in particolare, nel campo delle istituzioni, della scolastica giuridica). Eppure un tale apprezzamento non mancò di dirette ricadute politiche. Al tempo del Consiglio maggiore, così Girolamo Savonarola, nella predica del 13 dicembre 1496, rispondeva a chi voleva reintrodurre il metodo del sorteggio per la nomina agli uffici:
Va, leggi la istoria tua che scrive messer Lionardo d’Arezzo, dove e’ dice che andò bene sempre la città mentre che si resse sanza sorte, e che poi questa sorte fu trovata da gente ambiziosa (cfr. R. Fubini, Politica e profezia in Savonarola, «Memorie domenicane», nuova serie, 1998, 29, p. 588).
E potremmo proseguire rimarcando l’analogia della critica razionalistica di Bruni alle istituzioni cittadine con il razionalismo di Guicciardini, scevro di argomentazioni giuridiche, volto negli scritti sul «reggimento di Firenze» a uscire dalle pastoie del vecchio Comune, come la condizione stessa per preservare le libertà repubblicane.
In precedenza, nel 1413, l’imperatore Sigismondo del Lussemburgo, incuriosito forse dalla Laudatio Florentinae urbis, chiese a Bruni una descrizione dell’ordinamento politico della città. Meno interessa il contenuto dell’epistola in risposta, che offre un quadro istituzionale più puntuale che non nella retorica della Laudatio (che Bruni giudicava supra veritatem, al di là del vero). Importa qui piuttosto la sorprendente conclusione. Non basta – afferma Bruni – riferirsi alle buone tradizioni (sitque aliquid in re publica maiorum auctoritate constitutum, «se qualcosa nella città è stato stabilito per ossequio alla tradizione dei progenitori»), punto di riferimento obbligato per ogni legislazione statutaria; sarebbe stato invece necessario riferirsi alle «cause», come fondamento logico del discorso, dal momento che causa […] rei scientiam facit, «la causa spiega la ragion d’essere della cosa».
La politica vigente, in altri termini, era tuttora priva di una sua dottrina. Le costituzioni dei filosofi non corrispondevano alla città reale:
La configurazione della città è di due specie: la prima è più raffinata, così come è stata pensata dai sapienti, risiedendo soltanto nelle elaborazioni della filosofia; l’altra è quale possiamo effettivamente vedere nella realtà. […] S’intende che la prima è prodotto della ragione, mentre la seconda soggiace alla debolezza umana; in quella vale la volontà del fondatore, in questa si bada piuttosto al potere
Forma vero civitatis duplex est: una limatior a sapientibus cogitata, litteris solum et ingenio constans; altera qualem usu et re vera civitetem videmus. […] Ante omnia tamen illud intelligendum est, quia primam civitatem formam ratio effecit, secunda imbecillitati subiacet humanae. In illa constituenti voluntas, in hac potestas magis attenditur.
Queste considerazioni sono tratte dall’opuscolo De militia («Sulla dignità cavalleresca», in Scritti letterari e politici, cit., pp. 649-701) che è del 1420. Si tratta di una sorta di libello antifeudale dove, alla vana onorificenza delle insegne e degli speroni d’oro, è contrapposto il vecchio buon ordine cavalleresco degli antichi Romani, distintivo dei cittadini benemeriti. Che dunque il destinatario, Rinaldo degli Albizzi (che era stato allora investito dal Comune della dignità cavalleresca), perseguisse il principio dell’eguaglianza cittadina, e non la diseguaglianza vigente in Francia, dove cavalieri e sacerdoti si innalzano al di sopra della plebe, e fosse invece obbediente all’esortazione che gli proveniva dalla stessa patria: «Prestami il tuo dovere di cavaliere, o altrimenti spogliati di queste false insegne della milizia».
Il De militia di Bruni ebbe, una decina di anni più tardi, una singolare ricaduta. Nel 1433 il giovane Lorenzo Valla, che aveva ottenuto una cattedra di retorica all’Università di Pavia, sbeffeggiò in un opuscolo il trattato De insigniis et armis (1356 ca.) di Bartolo da Sassoferrato. L’argomento in questione, gli stemmi araldici, era allora, e si sarebbe mantenuto ancora nel secolo seguente, di grande attualità, in quanto concernente la definizione giuridica della dignità nobiliare; mentre Valla, insieme alla derisione per il latino scolastico, contrapponeva alla rigidità delle prescrizioni araldiche la libertà dell’azione e dell’immaginazione umana. Lo scandalo presso i giuristi fu grande, al punto da privare Valla del suo insegnamento di retorica.
Dietro l’opuscolo antibartolista stava la precedente composizione del dialogo filosofico De vero bono, dove Valla sposta l’obiettivo della considerazione morale dalla definizione, come nella tradizione classica e cristiana di Cicerone e di sant’Agostino, dei ‘fini’ all’indicazione dell’unico movente di tutte le azioni umane, la voluptas epicurea, nel senso dell’istinto naturale al piacere e all’utile. Ora, tale utilitarismo e tale insofferenza verso le tradizioni feudali e cavalleresche – tratti, come si è veduti, non estranei a Bruni – ispireranno la storiografia di Valla quando, cacciato da Pavia, approdò alla corte di Alfonso V d’Aragona, allora impegnato nella lotta per la successione nel Regno di Napoli, con il compito di propagandista e storiografo regio. Sono questi i punti fatti paradossalmente valere nella parte che giunse a scrivere della storia del regno di Alfonso, e cioè dei fatti del padre Ferdinando: Gesta Ferdinandi regis Aragonum (1445). Tali intenti provocatori sono messi in particolare evidenza dalla polemica suscitata; a muoverla fu il competitore di Valla (nonché in seguito effettivo autore delle Storie di Alfonso), Bartolomeo Facio (1405 ca.-1457), autore di scritti polemici (o Invectivae) sul tema, a cui Valla risponde con un Antidotum. La rappresentazione in Valla dei Gesta Fernandi, accusava Facio, violava i codici cavallereschi, nella denuncia della perversità di ogni guerra: «spiegando che le guerre hanno origine per odio o rivalità, per invidia o avidità» (docens bellum aut odio, aut simultate, aut invidia, aut avaritia nasci solere). In altri termini presso le teste coronate, mosse dalla comune brama di conquista (aliena potiundi), più potevano le passioni che non il senso dell’onore. Ritorna a tale proposito la contrapposizione, che stava alla base del De vero bono, tra «utile» e «onesto»: «che vi è infatti di più stolto – così Valla risponde nel suo Antidotum agli appunti di Facio – che attribuire al criterio dell’‘onestà’ ciò che invece è di pertinenza dell’‘utile’?» (Nam quid stultius quam sententiam utilitatis retorquere ad honestatis?).
Il criterio generale ostentato dalla storiografia di Valla è quello del «vero», ancorché lesivo dei requisiti retorici della dignità (o maiestas), della convenienza, del decoro. In tal senso il racconto storico si differenzia – non diversamente che in Bruni – da quello dell’oratore o, a maggior ragione, del poeta. E così come Bruni aveva distinto la storia dall’elogio, così Valla rintuzza il suo oppositore, ligio alla precettistica di scuola e con essa all’etichetta di corte: «Forse che io mi sono dedicato a comporre un elogio, e non a narrare la verità dei fatti?» (Rem narro an in laudibus versor?). Postulato generale di Valla, ampiamente esposto in sede filosofica nella Repastinatio dialecticae et philosophiae (letteralmente «rivangatura», o «revisione» della dialettica e della filosofia, poi intitolata in redazione finale Retractatio totius dialecticae cum fundamentis universae philosophiae) è quello dell’assoluta priorità della dialettica (in quanto giudizio di verità o falsità) sui requisiti della retorica. Proprio sul controverso problema dei rapporti fra dialettica e retorica (e quindi anche su quello dei giudizi di «probabilità») così Valla aveva tagliato corto:
quasi che in filosofia noi dobbiamo imitare i poeti e gli oratori, che frequentemente ricorrono ai ‘luoghi’ della retorica, sia perché così richiedono le circostanze, sia per ornare il discorso, o infine per conferirgli una maggiore espressività? […] Tale genere di discorso è del tutto alieno da chi intenda esprimersi secondo la più rigorosa verità
quasi vero in philosophia poetas imitari debeamus aut oratores topice frequenter, aut necessitatis, aut ornatus, aut significantius exprimendi gratia loquentes […] Qui sermo procul abest ab eo qui loqui vult ad exactissimam veritatem (Repastinatio, I, 9, § 4).
Si comprende di qui l’introduzione di Valla ai Gesta, dove egli manipola la gerarchia che Aristotele aveva stabilito tra filosofia, poesia e storia. Secondo Valla il primato spetterebbe alla storia, in quanto, secondo i requisiti aristotelici, più si avvicina all’universale: un «universale», va aggiunto sulla scorta della sua Dialectica, corrisponde alla «verità», generalmente intesa come criterio veridico nella ricognizione dei fatti. Ciò vale, per tornare al contesto dei Gesta, per il rifiuto di attenersi passivamente alle tradizioni volgate: «coloro che si limitano a ricalcare ed esporre le storie scritte in passato da altri – scrive Valla nel proemio ai Gesta (cfr. Ferraù 2001, p. 20) memore forse di simili assunti in Petrarca – non sono da reputare veri storici, come certa gente vorrebbe» (qui olim ab aliis scriptas historias retractant tantum atque expediunt).
L’opera di Valla essenziale al riguardo sono naturalmente le Elegantiae latinae linguae (1441, terza e definitiva redazione 1449), il cui postulato principale è la ricerca del significato primario, e dunque più perspicuo e più chiaro, dei termini latini secondo l’uso classico, al di qua dunque dell’‘imbarbarimento’ della scolastica medievale. Ma il principio vale altresì con l’abitudine retorica di definire cose moderne con perifrasi classicistiche: a cose nuove corrisponderanno termini nuovi, in considerazione particolarmente della toponomastica. A questo riguardo Valla introduce un’importante digressione contro l’uso retorico della ethymologica figura, lungo la linea che perlomeno da Varrone conduce a Isidoro di Siviglia e di qui ampiamente ai lessici e alle esegesi medievali. Secondo i principi esposti nelle Elegantiae e precorrendo la linguistica moderna, Valla distingue l’etimologia fonetico-grammaticale da quella fantasiosa secondo il significato delle cose; e, fedele al principio che oggetto della storia sono le singole particolarità (peculiare et proprium), si scaglia appunto contro i tradizionali etimologismi: «ridicole etimologie, che mescolano insieme elementi greci, latini e barbarici» (ridiculae ethymologiae graeca latinaque ac barbara miscentes).
Una tale riduzione di retorica e linguaggio al minimo comun denominatore del ‘vero’, secondo quella logica che sottostà per comune esperienza a ogni linguaggio – e per eccellenza il linguaggio che riunisce in sé ‘uso’ e ‘ragione’, il latino colto dell’età antica –, caratterizza anche la più celebre fra le opere di Valla a soggetto storico, la polemica ed enfatica disquisizione sulla falsità storica della donazione di Costantino: De falso credita et ementita Constantini donatione. Ancor oggi si usa far credito a Valla del merito di aver smascherato l’antica contraffazione, grazie agli strumenti filologici della cultura umanistica. Ciò è per più aspetti falso. Per intanto Valla segue da vicino l’argomentazione che alla donazione appunto aveva dedicato presso il Concilio di Basilea Niccolò Cusano nel più ampio trattato De concordantia catholica (1433), nell’intento di ridurre a un primato d’onore l’assolutezza dei poteri del papa in virtù dell’investitura di Cristo a Pietro, ma anche, in sede temporale, sul precedente del riconoscimento di Costantino che, convertendosi, aveva lasciato a papa Silvestro il dominio dell’Occidente. Tale era la tesi sviluppata nella dottrina giuridica dei canonisti a partire dal 13° sec., a servizio della dottrina teocratica di Innocenzo III e dei suoi successori.
Contestata da oppositori dell’assolutismo papale come Marsilio da Padova o Guglielmo di Ockham, la dottrina era entrata in crisi con il grande scisma d’Occidente (1378), quando il cardinalato francese rifiutò di accettare l’elezione romana di Urbano VI, a cui fu contrapposta quella di Clemente VII. I potentati cristiani si divisero fra le due ‘obbedienze’ (che divennero tre con l’elezione di Alessandro V al concilio di Pisa, 1409), finché l’imperatore Sigismondo di Lussemburgo impose la convocazione del Concilio di Costanza (1414-18) che, infine, pose fine allo scisma con l’elezione di Martino V.
Fu appunto in tale periodo che emersero dottrine fortemente limitative dei poteri del papato, principale quella affermata a Costanza che sottoponeva l’autorità singola del papa a quella collettiva delle gerarchie cristiane riunite a concilio, che pertanto egli avrebbe dovuto periodicamente riconvocare. Fu appunto in tali circostanze che venne riesaminata la tradizione dottrinale e giuridica della Chiesa, secondo una serie di trattazioni che Cusano, nella sede conciliare riconvocata a Basilea, intese riprendere e conciliare con le normative fondamentali raccolte nel Decreto di Graziano (12° sec.), il ‘diritto antico’ della Chiesa, richiamato per moderare quello ‘nuovo’, e cioè le ‘decretali’ dei pontefici successivi a Innocenzo III, che avevano, come si è detto, canonizzato la dottrina della ‘donazione di Costantino’ fra i documenti a supporto del duplice potere, spirituale e temporale, del papato.
La disputa fra papa e concilio, fra poteri temporale e spirituale, tornò a radicalizzarsi a Basilea, e Valla scrisse il suo opuscolo su sollecitazione di Alfonso d’Aragona, in conflitto con papa Eugenio IV nella sua lotta per la conquista del Regno di Napoli, ma anche per lo spiccato regalismo fatto valere nei confronti del clero sottoposto alla corona. L’aspetto militante è visibile nell’opuscolo di Valla, che per questo ne vanta l’efficacia retorica («non ho mai scritto nulla di più eloquente», nihil magis oratorium scripsi, così egli annuncia l’opera a Giovanni Aurispa). E tuttavia il fondamento primo e l’originalità stessa dell’opera risiedono nel suo fondamento logico. Si è sopra accennato alla dipendenza di Valla dal De concordantia catholica di Cusano, di cui egli poteva disporre, unitamente al Defensor pacis di Marsilio da Padova (che egli implicitamente ricalca in un passo del suo scritto), grazie al suo ufficio nella cancelleria, oltre che alla commissione del re.
La parte più celebre della confutazione di Valla – l’esame linguistico del cattivo latino del presunto privilegio imperiale – è in realtà suggerita da Cusano medesimo, là dove scrive di avere esaminato il testo intero della donazione, e riconosciuto «dalla redazione stessa argomenti manifesti di contraffazione e falsità» (ex ipsamet scriptura argumenta manifesta confictionis et falsitatis). Tuttavia, non sono tali ‘argomenti’ che interessano al presente Cusano; soffermarsi sul tema, egli scrive, «sarebbe ora lungo et inutile». Quel che gli premeva era che la Chiesa dichiarasse quel testo come ‘aprocrifo’, sottraendogli cioè autorità di dottrina. Tale è, infatti, il significato del termine nella definizione istituzionale ecclesiastica a partire da Agostino ripetuto da Isidoro di Siviglia, in riferimento al canone dei libri sacri: aprocrifo è il libro «del quale non si conosce l’autore e la cui verità non è comprovata», e che per questo «non è accolto» (non recipitur) nella dottrina. Il che non significa necessariamente ‘falso’; si tratta piuttosto di un giudizio di ‘probabilità’, donde appunto la nozione di testi o autori ‘approvati’ dalla Chiesa, ovvero che, per lunga tradizione di culto o insegnamento, acquistano con il tempo ‘probabilità’.
È a questo punto che Valla sostituisce bruscamente il dilemma probabilistico di testi ‘apocrifi’ o ‘approvati’ (che ha come punto di riferimento l’autorità della Chiesa) con quello soggettivo e razionalistico di ‘verità’ e ‘falsità’. Così egli scrive a proposito della leggenda di san Silvestro, il testo del 5° sec. a cui si riferisce l’autore del falso privilegio di Costantino (8° sec.), seguendo e contestando a un tempo la disquisizione di Cusano: non si trattava di ‘storia’, ma di «impudente e poetica fandonia», indegna di essere letta. Su tale linea Valla giunge a negare la tradizionale nozione dei Vangeli apocrifi, da cui pure tanti elementi erano stati ‘recepiti’ nella tradizione devota.
E il sommo pontefice chiama questi libri ‘apocrifi’, quasi che in essi non vi sia altro vizio se non che se ne ignora l’autore: quasi che sia credibile ciò che vi viene narrato, quasi che si tratti di sacre vicende, volte alla conferma della religione: sicché non è minore la colpa di chi avalla queste falsità sciagurate, che non di chi le ha escogitate
Et summus pontifex hos libros appellat apochryphos, quasi nihil vitii sit nisi quod eorum ignoratur auctor; quasi sancta et ad confirmationem religionis pertinentia, ut iam non minus culpae sit penes hunc qui mala probat, quam penes illum qui mala excogitavit (De falso credita, hrsg. W. Setz, 1976, IV, § 78).
Ne consegue – e tale è il punto centrale dell’opera – una decisa opzione per la maggiore credibilità della storia rispetto alle tradizioni dottrinali e devote, e conseguentemente la preferenza accordata alla storiografia profana rispetto alle memorie e all’annalistica ecclesiastica. Anche per quest’aspetto vale il confronto con il passo corrispondente di Cusano. Così questi scriveva per rimarcare il silenzio sulla donazione di Costantino nelle memorie cristiane coeve:
Ho riletto per quanto ho potuto tutte le storie, le gesta imperiali e dei Romani pontefici, le storie di s. Girolamo, il più diligente di tutti nel raccogliere le notizie; ho riletto inoltre gli scritti di Agostino, Ambrogio e di tutti gli autori più accreditati; ho ripercorso infine gli atti dei sacri concili che si svolsero dopo quello di Nicea, e non trovo alcuna concordanza con ciò che si legge a proposito di tale Donazione (De concordantia catholica, III, Introduzione, § 295).
Così Valla traduce enfaticamente in termini secolari l’argomentazione di Cusano, sostituendo alla menzione delle autorità patristiche quella della storiografia greco-romana (che poi nella circostanza si riduce al solo Sommario di Eutropio):
Si ripassino tutte le storie latine e greche, si invochi la testimonianza di tutti quegli altri autori che recano memoria di quei tempi: e non troverai nessuno che in tale questione [scil. il silenzio sulla donazione] sia in contraddizione con gli altri
Evolvantur omnes Latinae Grecaeque historiae, citentur ceteri auctores, qui de illis meminere temporibus, ac neminem reperies in hac re ab alio discrepare (De falso credita, cit., II, § 31).
Secolarità equivale in Valla all’esercizio del giudizio logico, e cioè alla risoluzione del dilemma di verità o falsità sul terreno tangibile dei fatti, al di qua dell’‘autorità’ rivendicata in sede di dottrina e di tradizione. Di qui la formulazione del principio per chiunque si accinga a scrivere la storia:
Chiunque intraprenda a narrare la storia delle età trascorse, o parla per ispirazione dello Spirito Santo, ovvero segue l’autorità degli antichi scrittori o di coloro che scrissero del proprio tempo. Sicché chiunque non segua gli antichi, costui sarà da annoverare fra coloro alla cui impudenza l’antichità offra incentivo alla menzogna
Quisquis enim de superiore aetate historiam texit , aut Spiritu Sancto dictante loquitur, aut veterum scriptorum et eorum quidem qui de sua aetate scripsere sequitur auctoritatem. Quare quicumque veteres non sequitur, is de illorum numero erit, quibus vetustas praebet audaciam mentiendi (De falso credita, cit., IV, § 66).
Accantonato lo stretto canone scritturale, ma non le scritture deutero-canoniche (quelle cioè che fin dall’età patristica, per essere note solo nel testo greco e non in quello originale ebraico, furono considerate di dubbia canonicità, e che Valla disinvoltamente considera come «false»), a maggior ragione ove si tratti di leggenda agiografica, la ricognizione razionale della storia diventa in Valla professione di verità. Ut errorem a mentibus hominum convellam («per sradicare l’errore dalla mente degli uomini», De falso credita, cit., proemio, § 4), è la professione di Valla, non certo soltanto in merito alla donazione di Costantino, con parole che con secoli di anticipo paiono prefigurare l’età illuministica.
I due autori su cui ci siamo fin qui soffermati, Leonardo Bruni e Lorenzo Valla, sono essenziali per comprendere l’impresa storiografica più importante di tutto il secolo, quella di Biondo Flavio, l’umanista nato a Forlì da famiglia di fiorentini sbanditi (bisogna per questo risalire all’età di Dante), che fu a lungo segretario pontificio (dal 1434 alla morte avvenuta nel 1463). Non per nulla, autore poi dell’Italia illustrata (1447-53), egli fu figura tipicamente italiana, con legami nelle maggiori capitali (Venezia, Milano, la stessa Firenze), nonché, naturalmente, con la curia pontificia e, subordinatamente, con la corte di Napoli; egli inoltre acquisì beni e diritto di cittadinanza a Ravenna, Rimini e Ferrara. Un punto essenziale collega direttamente Biondo a Valla. La sua prima vasta opera – le Historiarum ab inclinatione Romani imperii decades di cui si dirà oltre – comprende di fatto due sezioni distinte: le Storie degli Stati d’Italia negli anni 1412-43, e quelle appunto d’ambito più generale europeo a partire dal ‘declino’ dell’impero di Roma con le invasioni barbariche fino a tutto il 14° secolo. La storia contemporanea fu la prima a essere concepita, per allargare poi lo sguardo, verso il 1443, ai secoli che noi chiamiamo Medioevo. Nel congiungere le due parti verso il 1450 Biondo scrive una digressione di raccordo, dove fa riferimento al dilemma se rispettare l’esigenza dell’‘ornato’, e cioè i requisiti retorici del genere secondo le regole correnti (quod nostri homines […] non immerito requirunt), o viceversa se mantenere le denominazioni (di luoghi e cose) moderne. Si tratta in effetti di un riferimento preciso alla controversia di pochi anni precedente di Facio e Valla, e l’opzione di Biondo, pur evitando toni polemici, è decisamente per quest’ultimo: egli, infatti, scrive
dal momento che tale è il mutamento nella denominazione delle singole cose, le quali vanno assolutamente intese così come sono, che se nell’esporle io ricorressi ai termini antichi, rileggendo non sarei io stesso in grado di comprendere
Il riferimento è ancora più trasparente nella coeva trattazione storico-geografica dell’Italia illustrata, volta non meno che le Storie all’individuazione del mutamento («faccio riferimento a ciò che è appropriato e specifico», peculiare et proprium quaero). «Lo scrittore moderno – egli scrive in sede introduttiva – sarà costretto a non utilizzare quei nomi, che invece conferirebbero grande dignità alle sue opere per il fatto che compaiono di frequente presso gli antichi scrittori» (quo fit ut nec prisca legentes intelligant neque possit novus scriptor illis uti vocabulis, magnam – vel eo ipso quod apud illustres vetustos scriptores frequentia habentur – dignitatem historiae allaturis, Historiarum […] decades, in Opera, 1559, p. 81; di qui in poi il riferimento è sempre a questa edizione degli Opera in cui le Historiae hanno numerazione autonoma).
Si è qui sottolineato il termine della dignitas historiae, la qualità che appunto Facio, nel nome dei requisiti di una buona storiografia di corte, aveva opposto al ‘realismo’ ideologico di Valla. La rinuncia alla dignitas, e cioè alla retorica, diviene ora il contrassegno metodico della nuova storiografia ed erudizione storica di Biondo. A ciò si aggiungono le finalità politiche (e non moralistiche) a cui essa è destinata. Nel primo testo che annuncia il progetto delle Storie contemporanee, l’epistola encomiastica che l’umanista Lapo di Castiglionchio rivolge a Biondo (Bologna 10 aprile 1437) enfatizzando quanto aveva udito da Biondo stesso, l’opera era diretta a mettere i potenti dinanzi alla loro responsabilità, di modo che «essi stessi potessero rendersi conto se avevano operato con coraggio e rettitudine, o al contrario in modo ingiusto e stolto» (cfr. Fubini 1968, p. 543). Più stringata ancora è la definizione del frutto che dalle storie sarebbe derivato al governante nel proemio all’Italia illustrata: «l’acquisizione della prudenza e gli opportuni esempi per governare gli Stati» (prudentia et exemplorum copia gerendis imperii rebus: è singolare che il passo citato sia sostitutivo di quello in precedenza scritto in nome di Biondo dall’amico Francesco Barbaro, più rispettoso dei buoni canoni retorici appresi alla scuola di Guarino da Verona, dove la funzione di ammaestramento della storia comprende anche le virtù private: propter singularem utilitatem quam habet privatim et publice ab bene beateque vivendum, cfr. Fubini 1968, p. 544).
La storia, più ampiamente, faceva parte per Biondo di quella scuola di incivilimento, responsabilizzazione, razionalità, che egli riconosceva alla rinascita dei buoni studi, della quale la sua età andava fiera. Nell’Italia illustrata, nella regione natale della Romandiola egli celebra in pari tempo, a proposito di Giovanni (Malpaghini) da Ravenna – il maestro che aveva trasmesso gli insegnamenti di Petrarca – gli sviluppi fino al proprio tempo della scuola umanistica, e, a proposito di Forlì, la storiografia rinnovatrice di Biondo stesso. Nelle Storie così scrive a proposito dell’errore di Filippo Maria Visconti, duca di Milano, nell’improvvido licenziamento, nel 1424, del capitano Francesco Carmagnola:
si rende qui opportuno riferire come un tale passaggio [del capitano dal servizio del duca a quello dei veneziani] sia avvenuto e per quali ragioni: noi siamo infatti avvezzi a incolpare la fortuna di innalzare o deprimere in modo sorprendente le grandi vicende di questo mondo, mentre in realtà esse sono il risultato dell’errore di qualcuno, piuttosto che non il frutto, come si suol dire, del suo cieco e instabile arbitrio
qui [Francisci Carmagnolae transitus ab Philippo] quas ob res quove pacto fuerit non ab re duxerim referre, ut qui ngentes rerum moles mirandum in modum vel attollere vel deprimere fortunam culpamus, [magis] alieno id errato quam caeco, ut ferunt versatilique illius ductu saepius fieri intelligamus (Historiarum…, cit, p. 418).
Con questo passo Biondo reagisce a quanto leggeva nella sua fonte, il cronista milanese Andrea Biglia, che così aveva premesso alla narrazione dell’episodio: «In quel medesimo tempo la fortuna diede un altro segno» (Eodem tempore fortuna aliud signum tulit: cfr. Fubini 2003, p. 217). Biondo in realtà contrappone alla nozione corrente della ‘fortuna’, esemplificata nel racconto del cronista, implicitamente parafrasando le parole poste pochi anni prima da Leon Battista Alberti a introduzione dei suoi Libri della famiglia:
[…] da molti veggo la fortuna più volte essere sanza vera cagione inculpata, e scorgo molti per loro stultizia scorsi ne’ casi sinistri biasimarsi della fortuna e dolersi d’essere agitati da quelle fluctuosissime sue unde nelle quali stolti se stessi precipitorono. E così molti inetti de’ suoi errati dicono altrui forza furne cagione (cit. in Fubini 2003a, p. 217).
Biondo, in altri termini, si sente parte di una nuova cultura rappresentata dal ceto dei litterati viri (i futuri hommes de lettres dell’Illuminismo francese), e di qui deriva i suoi metri di giudizio al di là del sentire comune. Si trattava di un’educazione alla ragione, che non avrebbe mancato di giovare nel governo della cosa pubblica, nonché nelle sue stesse emergenze. In tal senso Biondo addita il governo del suo amico Francesco Barbaro, provveditore veneziano a Brescia nel 1439 durante l’assedio dell’esercito milanese:
perché i popoli potessero intendere da quest’esempio quanta felicità rechino uomini sapienti ed istruiti nelle buone arti, qualora siano preposti ai pubblici uffici
ut intelligant hoc exemplo populi quanta sit foelicitas sapientes viros et bonis praeditos artibus publicis praefectos esse muneribus (Historiarum…, cit., p. 547).
Con le Storie contemporanee e, più ancora, con il risalire ai secoli medievali, Biondo si pone sulla via già tracciata da Bruni con le sue Historiae Florentini populi. Ciò vale sia per la parte contemporanea delle Decadi sia per la ricostruzione dei secoli successivi alla caduta dell’impero romano (ab inclinatione romani imperii). Lo differenzia da Bruni innanzitutto il fatto di aver assunto a soggetto le vicende, non di una città soltanto, ma di tutta Italia, come è del resto caratteristico della biografia dell’autore. Al pari di Bruni, viceversa, egli scarta la tradizionale cornice universalistica, in cui pure le cronache cittadine si riconoscevano. Per inciso, le «universale historie» hanno per Biondo un diverso significato: quello di abbracciare obiettivamente in sé le vicende di vari popoli, al di là del vanto di primato da parte di ciascuno di loro: «Perché la natura de li homini – come egli scrisse nei suoi ultimi anni a Francesco Sforza – è sempre stata de havere invidia et voluntiera supprimere laude d’altri, in tanto che fradelli l’uno de l’altro et figliuoli de padri occultano la gloria» (Scritti inediti e rari, con introduzione di B. Nogara, 1927, p. 211).
La storia ‘universale’ per Biondo è in realtà quella dell’eredità politica, istituzionale, culturale di Roma nei secoli succeduti alla caduta dell’impero fino agli assetti presenti. Al centro di tutto, al presente come nell’antichità, sta la vicenda degli Stati. Il primo spunto a farsi storico (storico degli Stati, ripetiamo, e non della Chiesa) fu la rovina del governo temporale della Chiesa con l’avvento di papa Eugenio IV (1431), dopo l’opera restauratrice di Martino V; ma l’opera si allargò presto a partire dalla restaurazione dello Stato milanese, con l’avvento al ducato di Filippo Maria Visconti nel 1412. Il ritmo di rovina e restaurazione (o viceversa) rimane la linea conduttrice anche delle decadi ‘medievali’. Qui si colloca uno dei passaggi più tipici e innovativi della storiografia di Biondo. A proposito della grande questione della caduta dell’impero di Roma e delle sue ragioni, egli discute, ponendole sullo stesso piano, tanto la versione apologetica di Paolo Orosio – il castigo dell’empietà dei pagani – che quella ‘repubblicana’ di Bruni – la decadenza che comincia con il soffocamento della libertà da parte di Cesare e degli altri imperatori. La prima spiegazione, secondo Biondo, riguarda piuttosto (secondo la distinzione che era già in Petrarca) la sfera della devozione che non quella della storia; mentre la seconda era smentita dal perpetuarsi, e anzi ampliarsi, del dominio romano sotto gli imperatori.
La spiegazione storica era dunque disgiunta dall’ideologia, o, tradotto nel linguaggio di Biondo, il principium di un grande evento era distinto dalle sue causae: la «decadenza» (inclinatio) dell’impero può essere fatta effettivamente incominciare dall’irruzione dei Goti a Roma nel 410 d.C. (412 secondo Biondo, Historiarum…, cit., p. 4). Decadenza non significa ancora caduta, concepita viceversa come secolare sgretolarsi dell’antica compagine statale (in una digressione dell’Italia illustrata Biondo avrebbe corretto se stesso, attribuendo la fine della civiltà antica non già ai Goti, ma ai Longobardi, così come gli era risultato dallo studio delle loro leggi, Italia illustrata, cit., p. 374; ritroviamo il brano così parafrasato da Machiavelli: «non solamente variorono il governo e il principe, ma le leggi, i costumi, il modo del vivere, la religione, la lingua, l’abito, i nomi», Istorie fiorentine, I, 5).
I termini di decadenza e caduta (imperii Romanorum non magis inclinationem quam occasum – quegli stessi che avrebbe ripreso Edward Gibbon nel 18° sec. – gli sono suggeriti della fatidica deposizione di Romolo Augustolo nel 476 (Historiarum…, cit., p. 30); mentre i contrasti tra gli imperi di Occidente e di Oriente gli paiono la causa prima della completa rovina di quel che era stato l’impero romano, sia pure in decadenza (inclinantis pridem imperii funditus evertendo, Historiarum…, cit., p. 166). È singolare che tale affermazione venga fatta dopo un evento, che pur Biondo celebra e in cui egli stesso aveva giocato parte di rilievo, come il Concilio di Firenze per l’unione delle Chiese. Che si tratti di impero d’Oriente o di Occidente, Biondo disconosce la continuità, pur affermata nella dottrina giuridica, con quello antico di Roma: giunto a trattare dell’incoronazione a Roma dell’imperatore Sigismondo nel 1433, egli giudica l’impero come ormai «estinto» (collapsum, Historiarum…, cit., p. 469). A riscontro stanno le antiche ‘provincie’, costituitesi in potentati giuridicamente autonomi (sui iuris factae, p. 100); ma sta soprattutto – riprendendo qui lo spunto di Bruni – il mirabile sviluppo delle città d’Italia prima impedite dalla grandezza di Roma, sia per l’accrescimento di quelle antiche sia per il sorgerne di nuove:
Vediamo infatti che per benevolenza di Dio, a noi tanto indulgente, si sono molto ampliate città come Venezia, Siena, Ferrara L’Aquila, Aversa, a tacere altri borghi minori, edificate fin dalle fondamenta, mentre città quali Firenze, Genova, Milano, Napoli e Bologna, un tempo di dimensioni piccole o insignificanti, come tutti possono vedere, sono cresciute in grande ampiezza. Sicché per le ricchezze e per il valore dimostrato da coloro che le abitarono, vive tuttora la dignità e la gloria d’Italia, pur privata dello Stato di Roma
Videmus nanque Dei nostri rebus Italiae indulgentissimi benignitate multum crevisse Venetam, Senensem, Ferrariensem, Aquilanam Aversamque civitates, et minora quaedam oppida ab ipsis condita fundamentis; Florentinam vero, Genuensem, Mediolanensem, ac Neapolitanam et Bononiensem, tunc parvas exilesque urbes, intelligunt omnes in magnam amplitudinem auctas esse, per quarum opes virorumque qui in illis coaluerunt virtutem et dignitas adest et gloria Italiae Romana republica destitutae (Historiarum…, cit., p. 30).
A muovere la composizione delle Decades ab inclinatione Romani imperii è – a dispetto dell’immane sciagura, che Biondo non si stanca mai di lamentare, della caduta dell’impero di Roma – un moto di ottimismo. Ottimismo innanzitutto per la capacità che egli aveva ritrovato in se stesso di dipanare il filo storico dell’età oscura, dove cessava il racconto di storici degni del nome, e per cui, dilatando il metodo di Bruni nel completare e correggere Villani, aveva fatto ricorso a tutt’altro genere di testi che non quelli propriamente storiografici («d’intendimento diverso che non quello di scrivere la storia», etiam aliud quam res gestas dicere intendentium, Historiarum…, cit., p. 4). Vale solo accennare al ricorso esteso a epistolari illustri (Gregorio I, Cassiodoro, Gregorio VII, Dante, Petrarca ecc.), al riferimento a testi e consuetudini giuridiche, o ancora all’attenzione a rappresentazioni iconografiche, come quella di Giustiniano nel mosaico di Ravenna, «il più elegante di confezione moderna o antica che l’Italia possegga» (Indicat vero pictura musivo opere facta […] caeteris elegatiore, quae Italia nunc vel novi habeat, vel vetusti operis, Historiarum…, cit., p. 44). Ma ottimistica è anche la visione del corso storico, rispetto perlomeno alle sciagure del più recente passato. Il papato vigente aveva riacquisito il controllo della cristianità, nonché della sua sede di Roma; l’Italia, grazie alla compagnia di San Giorgio costituita da Alberico da Barbiano, non doveva più temere le devastazioni di mercenari transalpini. Trattando nell’Italia illustrata del capitano, a proposito della sua signoria avita di Cunio, ripercorre la storia d’Italia che, grazie all’illustre corregionale, aveva saputo darsi armi proprie, e che, mitigata nei costumi, più non disperdeva oltralpe le proprie ricchezze, e conclude affermando che nessuno avrebbe potuto obiettargli il fatto che
il lusso nell’edificare, nel vestire, negli ornamenti, le comodità della vita, e tutti gli altri magnifici apparati certamente superiori a quelli abituali nei secoli passati, abbiano avuto altra origine che non da una tale sicurezza e protezione
[…] aedificandi, vestiendi, ornandi, et caeteram omnem vitae nostrae quam hoc saeculo vivimus luxuriam, laetitiam, caeterosque magnificos apparatus certe superioribus saeculis fieri solitos maiores, aliunde quam ab hac securitate, tutela originem habuisse (Italia illustrata, cit., p. 149).
Biondo ha soprattutto presenti le città capitali di Venezia, Milano e Firenze con i nuovi poteri statali che esse venivano costituendo; il suo disprezzo va ai residui del passato, come l’anarchia del Regno di Napoli (o, come egli la chiama, la potentatus exilitas, la pochezza del potere centrale), in preda alle baronie rivali (p. 552). Le minori signorie, d’ostacolo allo stabilimento dei poteri centrali, sono bollate con un termine del diritto romano quali latrunculi, briganti di strada, così come i glossatori definivano i «nemici del popolo romano» (quibus populus Romanus bellum indixit ; cfr. Fubini 2003, p. 23); mentre, precorrendo Machiavelli (o, per meglio dire, offrendogli spunto), Biondo deplora il costume mercenario delle battaglie incruente e mai decisive, al punto da lamentare di aver speso tanta parte della sua narrazione per una materia così avvilente (pro parva rerum dignitate, Historiarum…, cit., p. 514). Un altro punto infine che lo accora – sempre in merito alla pubblica dignità – è il perpetuarsi nel tessuto sociale dei conflitti faziosi, triste eredità del conflitto di guelfi e ghibellini introdotto dagli imperatori tedeschi (Historiarum…, cit., p. 288).
Biondo licenziò il corpo delle Decades verso il 1453, quando già aveva composto due altre opere, di carattere non più narrativo ma sistematico, come l’archeologia storica della Roma instaurata (1444-46) e la geografia storica dell’Italia illustrata (1448-53), e si accingeva al suo ultimo grande lavoro, la ricostruzione storica delle istituzioni pubbliche e private di Roma antica nella Roma triumphans (1454-60). Di ciò si dirà poi. Vale qui aggiungere che su sollecitazione dei suoi amici veneziani, quali Ermolao Barbaro il Vecchio e Ludovico Foscarini da un lato, e Francesco Sforza dall’altro, Biondo fu indotto a riprendere e completare il suo corpus storiografico, al fine di colmare il vuoto degli anni 1402-12 lasciato fra la sezione ‘medievale’ e le storie contemporanee, e insieme procedere nella narrazione della storia vissuta, perlomeno fino al trionfo dello Sforza, duca di Milano nel 1450. Questa parte, rimasta fin qui inedita, è conservata nel volgarizzamento del fiorentino Andrea Cambini (Fubini 1968, pp. 544-45).
Basterà qui dire che in quest’ultima sede più non si ritrova quell’accento ottimistico, sul proprio tempo e sulla positività della propria opera, che aveva caratterizzato al suo sorgere l’impresa storiografica di Biondo. Manca a bella posta, per cominciare, la figura di un dedicatario: la sua storia, come egli rivendica, è «universale», evita cioè di rivolgersi a un principe o popolo singolarmente. La sua confidenza nel potere politico si è esaurita; egli ora lo scorge in modo disincantato nelle vesti, potenziali se non attuali, del tiranno. Vantando in una lettera a Francesco Sforza le proprie benemerenze di storico, che aveva rinfrescato per i contemporanei la conoscenza delle età storiche trascorse, egli adduce ad arte l’esempio di Ezzelino da Romano, «crudele tiranno»: «pur mo sanno molti chi et como ello fu grande et tenuto in Italia» (Scritti inediti e rari, cit., p. 211).
Si sono nominate le opere cosiddette antiquarie di Biondo. La loro originalità sta appunto nel trascendere il genere descrittivo e catalogatorio, che denota l’antiquaria fin dalle lontane tradizioni antiche e medievali. La Roma instaurata e la Roma triumphans recano ambedue la dedica al papa, rispettivamente Eugenio IV e Pio II, ma per accreditare l’autonoma trattazione della Roma antica, pur nell’omaggio a quella cristiana. La Roma instaurata – ricostruzione topografica, archeologica, istituzionale di Roma antica – si rende così autonoma dai Mirabilia urbis Romae, guida tradizionale dei pellegrini. La Roma triumphans, compiuta ricostruzione politico-istituzionale di Roma antica, repubblicana e imperiale, a dispetto della speciosa evocazione nel proemio di sant’Agostino, costituisce una rivendicazione sulle tracce antiche di Petrarca dei valori morali che condussero all’edificazione di così imponente costruzione statale. Nel contesto interno, in senso stavolta antitetico all’apologetica agostiniana, è rivendicato l’amor laudis, lo stimolo che proviene dall’acquisto della rinomanza, come fattore costitutivo delle opere grandi. Le virtù pubbliche erano al presente professate soltanto fra i sapienti, vix solis philosophis per aetatem nostram relictae, mentre l’opinione comune era distolta dall’apprezzare la virtù in se stessa (propter se ipsam), per un pregiudizio «nella realtà dei fatti di gran lunga alieno dalla vera filosofia» (solis philosophantes verbis, cum re ipsa longe a vera absint philosophia, Roma triumphans, in Opera, 1559, p. 117).
Una lunga tradizione di studi antiquari a partire dal 16° sec. ha considerato Biondo alla stregua di un moderno Varrone, l’autore delle Antiquitates humanae et divinae, dalla cui lontana ispirazione sarebbe derivata la scienza antiquaria. Ciò è errato: antiquitates nell’accezione originaria equivale a ‘origini’, ‘tradizioni dirette’, il mos maiorum dei Romani antichi. La prospettiva di Biondo è quella opposta di un’imponente frattura (storica e ideologica) di tradizione da ricomporre attraverso un processo di conoscenza. Anche lo schema compositivo della Roma triumphans nulla deve alle Antiquitates di Varrone, per quanto possiamo conoscerle attraverso il De civitate Dei di Agostino. La successione dei libri (I-II: religione, culto, cerimonie; III-V: magistrature interne ed esterne, prassi del governo, condizione giuridica; VI-VII: esercito e conduzione della guerra; VIII-IX: istituzioni private; X: trionfi) è in realtà suggerita dalle Institutiones di Gaio: caso unico e per l’epoca assolutamente isolato di un uso storico, metodicamente distinto da quello giuridico, del diritto («non per ostentare la scienza del diritto, ciò che è del tutto estraneo al nostro proposito», come Biondo stesso precisa: Fubini 2003a, pp. 79-82).
L’Italia illustrata è forse l’opera più personale di Biondo, nonché al presente anche la più studiata. Essa tiene come suo punto di riferimento la descrizione dell’Italia augustea nella Naturalis historia di Plinio (donde la suddivisione in ‘regioni’, contrariamente alla più tradizionale denominazione di provincie). E, tuttavia, rispetto allo schema descrittivo, che si sarebbe perpetuato nell’enciclopedismo e nella letteratura geografica posteriore (Descriptio è, infatti, il termine di rito per le scritture del genere), Biondo introduce come elemento fondante il concetto di ‘mutamento’, dei cambiamenti intervenuti nella storia, tali da investire anche il campo della geografia, delle sue denominazioni e dei suoi insediamenti.
Come scrive al riguardo Lucio Gambi, che nel corso di una ricerca sull’origine del sistema regionale italiano è stato colpito da tali caratteristiche di Biondo, «la natura e la misura del tema sgretolano il rigidismo topografico dei suoi elementi, e ogni cosa a cui l’uomo partecipa diventa instabile, mobile. Il motivo della ‘trasfigurazione’, della ‘mutazione’ incalzano con notevole frequenza […]: “in tanta mutatione rerum regionumque”, “quanta autem sit facta locorum mutatio” (cit. in Fubini 2003a, p. 54). Con ciò Biondo rompe con l’indivisibile concezione cosmografica della geografia antica, a cominciare da Plinio. Per quest’ultimo, appunto, il cosmo rappresenta una realtà immobile e indivisibile, che precede e trascende la vicenda umana («ante ullas res gestas»), mentre i riferimenti alla storia non rappresentano che un complemento retorico alla descrizione enciclopedica. L’Italia illustrata di Biondo nel suo rivolgersi direttamente alle cose rompe un tale involucro retorico ed enciclopedico, e di qui deriva l’originalità della sua intitolazione. Il concetto di illustrare ha il preciso significato di ‘gettar luce’ su di un’età oscura; esso suppone cioè quello complementare di una rottura di tradizione. Come è scritto nell’introduzione, «se gli studi delle buone arti furono interrotti, in primo luogo venne meno, cessò anzi la storia» (si bonarum artium studia intermissa fuerunt, sola imprimis cessavit extinctaque est historia, Italia illustrata, cit., p. 293). E tuttavia, a differenza delle compilazioni enciclopediche, Biondo è consapevole che non tutto del passato è recuperabile. Con immagine originale egli paragona la storia trascorsa a una nave naufragata, della quale a fatica e molto parzialmente vengono recuperati i relitti: il suo merito era appunto quello «di avere tratto a riva, di tanto grande naufragio, le tavole galleggianti o semisommerse», piuttosto che non la vana pretesa «di render conto dell’intera nave» (quam de tota navi desiderata rationem exposci, Fubini 2003a, p. 47). La metafora colpì un fautore dell’empirismo moderno come Francis Bacon, che sul principio del 17° sec. così la ripeteva in The advancement of learning (libro II): «Le antichità sono la storia fatta a pezzi, o alcuni residui di storia casualmente sfuggiti al naufragio del tempo» (Antiquities are history defaced, or some remnants of history escaped the shipwrack of time), così più sotto soggiungendo in riferimento probabilmente diretto a Biondo: «as was said, ‘tanquam tabulae naufragii’».
Prima di passare alla tradizione ulteriore degli autori ora considerati – Bruni, Valla e Biondo – bisogna spendere alcune parole su di un contemporaneo, a loro del resto vicino, Poggio Bracciolini (1380-1459), che in merito alla storiografia occupa una posizione peculiare. Un’opera di storiografia sui generis è la trattazione miscellanea che egli intitolò De varietate fortunae (1448), che nel suo nucleo originario si rivolgeva particolarmente alle traversie del papato nell’età del grande scisma e dei concili di Costanza e di Basilea. Il tema è quello dell’irrazionale ‘fortuna’ che agita le vicende degli uomini, fossero pure, come si era di recente sperimentato, quelle dei papi.
Paradossalmente, nel proemio di dedica a Niccolò V, mentre l’autore esalta la capacità istruttiva della storia, magistra vitae, ne riconosce la funzione reale nel mostrare al vivo la vanità dei propositi umani nei grandi scenari dominati dalla ‘fortuna’. Poggio in ciò si ricollega al suo dialogo morale di poco precedente, De infelicitate principum, secondo cui il principato, per il suo stesso operare al di là dei limiti stretti della ragione, e quindi anche delle prescrizioni morali, era per sua natura malvagio. La storia dunque insegna a diffidare delle memorie encomiastiche, a cominciare dal tradizionale modello della retorica epidittica del biasimo e della lode, i Detti e fatti memorabili di Valerio Massimo, «fra gli scrittori adulatori, il più adulatore di tutti» (adulatorum scriptorum omnium adulantissimus, Fubini 1990, p. 262).
Una tale moralità negativa, se così possiamo chiamarla, informa dunque gli ampi scenari, secolari ed ecclesiastici, della vicenda vissuta, tale da misurare anche con occhi disincantati le tradizioni del passato. Premette dunque Poggio a precisazione del suo encomio della storia: «Se in verità una qualche storia è degna di lode, tale è la nostra, in cui si mostra l’instabile favore della fortuna, nonché la sua costanza nell’abbattere ciò che aveva innalzato» (Si qua vero commendatione historia digna est, haec nostra est profecto, in qua fortunae instabilis favor describitur, et in evertendis quae extulit pervicacia, De varietate fortunae, a cura di O. Merisalo, 1993, p. 89).
È importante che il progetto dell’opera fosse già stato annunciato fin da un’epistola del 1431 al cardinale Giuliano Cesarini, in rapporto al conflitto insorto fra la famiglia Colonna e il nuovo pontefice Eugenio IV, che gli si presentava come un punto di partenza appropriato al racconto («a quo velit exordium sumi», Fubini 1990, p. 228). Tale era stato alcuni anni più tardi anche il punto di partenza per le storie contemporanee di Biondo. Le parole del proemio al De varietate fortunae che si sono sopra riportate paiono dunque indicare un intento emulativo. L’emulazione, s’intende, dello scetticismo individualistico di Poggio, a fronte – se ci si passa l’anacronismo – dell’‘etica della responsabilità’ di Biondo, donde derivano due diversi modi di porsi di fronte alla storia, pur nel comune trascendere il moralismo tradizionale.
Qualcosa di simile può essere osservato a proposito delle Historiae Florentini populi, che Poggio intraprese in tarda età, dopo essere stato chiamato nel 1453 alla carica di cancelliere di Firenze, in passato occupata da Bruni (precedentemente egli aveva operato in curia come segretario pontificio). L’opera, naturalmente, si ricollega a quella omonima di Bruni, ma non ne rappresenta una continuazione, quanto piuttosto un termine di emulazione (a dispetto del fatto che le due Historie fiorentine furono edite insieme nell’edizione volgarizzata veneziana del 1476). Poggio, uomo di provenienza dal contado, senza salde radici cittadine, era stato gratificato da Cosimo de’ Medici nel 1434 di un privilegio di immunità fiscale, ma, ristabilito in patria, visse con disagio la situazione politica e sociale. I cittadini potenti – egli scrisse in una dissertazione sulle leggi e la medicina – nella loro ambizione politica non obbediscono alla legge. L’istituto del podestà, scrive a proposito dei primi tempi del Comune, fu istituito per ovviare all’endemica disobbedienza alla legge («essendovi poca considerazione della giustizia, sia per favoritismi che per divisioni faziose», Fubini 2003a, p. 177); quanto al tempo presente, «agli ottimati sta più a cuore il fatto privato che non la cosa pubblica», mentre la plebe è abitualmente «propensa alle decisioni deteriori». A proposito delle offerte volontarie dei cittadini durante le guerre contro Giangaleazzo Visconti, come leggeva in Bruni, Poggio le contrappone all’avidità fiscale dei presenti governanti,
che più riguardano il privato commodo che la pubblica utilità, e col danno de’ cittadini ponendo graveza arbitraria, acquistono roba e stato nella città con somma calamità d’altri, senza niuna loro molestia (secondo il volgarizzamento di Jacopo di Poggio Bracciolini, in Fubini 2003a, p. 179).
Oggetto delle Historiae, al dire dell’autore, è, sul modello di Sallustio, il ciclo di guerre che oppose Firenze alla Signoria viscontea di Milano da metà Trecento fino alla pacificazione recente della Lega italica (1455). Al suo centro in realtà stanno le considerazioni, che già si sono dette, sulla ‘varietà della fortuna’. Un passo saliente dell’opera è occupato dal dibattito fra Rinaldo degli Albizzi, che propugnava nel 1429 la guerra contro Lucca, e Niccolò da Uzzano, che invece la dissuadeva. Questi adduceva la debolezza della città («uno sforzo anche piccolo ha gravi conseguenze su di un corpo infermo», parvus labor ingens est debili corpori); le accuse in nome della libertà contro il tiranno di Lucca, Niccolò Guinigi, erano facilmente inficiabili; nessuna causa pur giusta era immune dalla detrazione, dal momento che – nella parafrasi di Machiavelli – «si viveva oggi in modo che del giusto non si aveva a tenere molto conto». Ciascuno in definitiva era libero di perseguire nei modi prescelti il proprio tornaconto: «Liberum est hominum sua administrandi arbitrium» (Fubini 2003a, p. 178).
Il caso di Bracciolini a Firenze segnala dunque la crisi che si è manifestata fra la storiografia (e la cultura in genere) e l’autorità politica. Che si fosse trattato nella fattispecie della Firenze ormai dominata dal regime dei Medici, è una spiegazione soltanto parziale. Ciò, sia pure con motivazioni diverse, è altrettanto vero per la Napoli aragonese di Valla, o la curia romana di Biondo. Il caso di Biondo è particolarmente indicativo. Con l’eccezione delle dediche dovute al pontefice in carica, rispettivamente Eugenio IV e Pio II, della Roma instaurata e della Roma triumphans, le sue grandi opere, le Historiarum decades e l’Italia illustrata non recano dedica; mentre dediche si ritrovano in anticipazioni parziali, come quella a Leonello d’Este dei primi 12 libri della Decade II, o quelle a Malatesta Novello, Piero de’ Medici, o al cardinale Prospero Colonna, rispettivamente per una prima redazione delle regioni Romandiola, Hetruria e Latium, destinate a confluire nell’Italia illustrata.
In altri termini, Biondo cercava accreditamenti e aiuti, ma non intendeva per la sua opera complessiva assumere obbligazioni di natura politica o clientelare. Ciò fu causa della sua disgrazia nella curia di Niccolò V (1447-55). Anche se poi fu riammesso in ufficio, lavorò in isolamento morendo povero. Pio II ne scrisse un acido necrologio (Biondo avrebbe mirato piuttosto alla quantità che alla qualità), e malgrado la diffusione a stampa dell’opera egli fu in seguito citato più per critiche che per riconoscimento. L’aspetto innovativo del suo programma fu ignorato, per un ritorno negli schemi tradizionali. L’Italia illustrata fu riscritta circa un secolo più tardi, nel 1549, dal domenicano Leandro Alberti (1479-1552), che recuperava l’intitolazione canonica, Descrittione di tutta l’Italia, dove – se si esclude un elogio convenzionale dell’autore a proposito della patria Forlì – nulla è detto dell’ispirazione ricevuta da Biondo, che è ricordato piuttosto, come puntigliosamente è annotato negli indici, per i suoi ‘errori’. Assente naturalmente è in Alberti il concetto dell’illustrare, del rischiaramento delle tenebre del passato, mentre al contrario sono riesumate e raccolte le leggende locali, a simbolo della continuità di tradizione.
Non diverso è il discorso sulla Roma triumphans e la sua tradizione cinquecentesca. Come già si è accennato, Biondo aveva mirato a una ricostruzione positiva delle istituzioni pubbliche e private nell’età di maggiore sviluppo civile di Roma repubblicana e imperiale (per l’appunto la ‘Roma trionfante’). Il termine varroniano di antiquitates non compare, mentre per i resti tangibili dell’antichità Biondo usa il termine non esattamente corrispondente di vetustates. Diversa è l’ispirazione della ricca antiquaria cinquecentesca, e particolarmente di uno dei suoi più prestigiosi rappresentanti, l’agostiniano Onofrio Panvinio (1530-1568). Questi progettò in due fasi, successivamente ampliandola, una raccolta enciclopedica delle ‘antichità’ romane (rispettivamente in 60 e 100 libri), Epitome Romanarum Antiquitatum, rimasta incompiuta e frammentaria allo stato di inedito, che nondimeno per la rinomanza dell’autore esercitò influenza. Ora, in un’epistola prefatoria, che ricapitola gli sviluppi della scienza antiquaria (De his qui Romanas antiquitates scripto comprehenderunt), per la prima volta come padre fondatore è riconosciuto Varrone, a cui l’autore direttamente si collega: «mi sono proposto di rinnovare questo studio delle cose antiche che i moderni hanno trascurato» (vetusta haec, quae a recentioribus praeterita sunt, renovanda suscepi, cfr. Fubini 2003a, pp. 83-89). Nel ristabilimento di una tale tradizione ideale, l’impresa di Biondo non costituisce che un primo e mal fermo passo:
Un tal genere di studio delle antichità, ancora scarso ed oscuro quando fu ripreso da Biondo, ora è divenuto ben più illustre per la fatica, lo studio e la perizia di molti uomini dotti
Quo ex genere antiquitatis studium est, quod a Blondo excitatum tenue principio et obscurum, nunc multorum doctorum hominum labore, studio, atque industria longe clarissimum factum est (cit. in Fubini 2003a, p. 89).
Di fatto, quel che in Biondo era stata indagine diretta su vario materiale documentario nell’intento ricostruttivo di una tradizione interrotta, si riconverte in Panvinio in enciclopedismo compilatorio, nella cornice di una continuità di tradizione (egli considera infatti l’impero romano prolungarsi nel vigente Sacro Romano Impero).
Ma vi è un altro aspetto di Biondo, per le Decadi e soprattutto per l’Italia illustrata, che concorse a suscitare le più vivaci reazioni: si vuol dire l’incursione esterna e critica nelle tradizioni locali. Basti menzionare alcuni dei casi più indicativi. Giorgio Merula (Merlani, 1430/1431-1494), alessandrino e maestro di retorica allo Studio di Pavia, autore su commissione ducale degli Antiquitatum Vicecomitum libri decem, accusa Biondo di seguire l’avversa tradizione guelfa di Villani, e valorizza invece le dirette tradizioni milanesi, anche soltanto orali. Il ferrarese Pellegrino Prisciani (1435 ca.-1518), un funzionario dei duchi d’Este e autore sul finire del 15° sec. delle voluminose (e tuttora inedite) Historiae Ferrarienses, risale con puntiglio di topografo alle ‘antichità’ regionali (direttamente derivate dalla «cosmographia antiquissima», al modo della vecchia enciclopedia di Plinio), e invariabilmente conclude con la deplorazione del ‘modernista’ Biondo: «male hic locutus est Blondus» (cit. in Fubini 2003a, p. 72).
Un più ampio discorso, impossibile in questa sede, andrebbe fatto sulle falsificazioni antiquarie di Annio da Viterbo (1437-1502; Commentaria super opera diversorum auctorum de antiquitatibus loquentium, 1498), per cui basti riferirci alla voce biografica su Giovanni Nanni (il suo nome reale), stesa da chi scrive per il Dizionario biografico degli Italiani (77° vol., 2012, ad vocem).
Vale in questa sede segnalare il fatto che la reazione alla storiografia positiva e politica di Biondo (ma anche con lui di Bruni) è uno dei motivi salienti delle contraffazioni, nella finalità di salvaguardare la gloria degli Etruschi, offuscata da Roma e dai suoi storici ‘menzogneri’. Particolare pietra dello scandalo è l’avere Biondo definito Viterbo «urbem parum vetustam» (Biondo definiva la qualità di ‘città’ dalla presenza della dignità vescovile, che Viterbo ebbe soltanto nel 12° sec.), mentre per Annio, anche sulla scorta di leggende medievali, era città capitale dell’Etruria, collegata a sua volta alla fondazione di Noè. Contro gli «storici mendaci» di tradizione greco-romana, nonché contro i loro prosecutori umanisti, Annio rivendicava le sacre antichità, e cioè la leggenda di un passato che stava al di qua della storia, anzi di un’antichità che stava al di qua dell’antichità stessa, di una ‘verità’ che polemicamente si riconosceva nel mito. Detto in altri termini, la presenza di Biondo e del suo massiccio razionalismo storiografico suscitò per reazione il riflusso altrettanto cospicuo di leggende ellenistiche, orientali ed ebraiche, che caratterizza le sconcertanti contraffazioni di Annio, destinate ad avere largo corso nella cultura europea del 16° sec. e oltre.
Ma bisogna ora tornare al rapporto fra politica e storiografia. Come punto di riferimento storico, per quanto approssimativo, possiamo stabilire la conclusione della Lega italica del 1455 che, in linea di principio, garantiva un assetto di pace nella penisola, fondato sul mutuo riconoscimento dei regimi vigenti, quello mediceo a Firenze, e le due nuove dinastie degli Aragonesi a Napoli e degli Sforza a Milano; mentre, dopo lo scioglimento del concilio di Basilea nel 1449, il papato era garantito dal mai sopito movimento conciliare oltralpe e, a parole almeno, era appoggiato nell’istanza della ‘crociata’ contro i turchi, che nel 1453, con la conquista di Costantinopoli, avevano abbattuto l’antico Impero Romano d’Oriente, pur sempre parte della comune eredità di Europa (e difatti da questa data il concetto d’Europa si viene affermando, come è caratteristico della varia pubblicistica di Enea Silvio Piccolomini, dal 1458 papa Pio II). La stretta correlazione di regimi comportò un’intensificazione del rapporto diplomatico e della prassi dell’ambasciatore residente. La storiografia a sua volta, strettamente controllata dal potere, divenne arma della giustificazione e della propaganda. Un episodio tipico al riguardo fu quello della spedizione angioina contro il Regno di Napoli, dove nel 1458 il figlio naturale Ferrante era succeduto a re Alfonso d’Aragona, mentre Giovanni d’Angiò, figlio di re Renato, rivendicò i diritti della sua casa alla corona, suscitando la ribellione della nobiltà del Regno. Fra i confederati papa Pio II e Francesco Sforza, recente duca di Milano, prestarono il loro soccorso, mentre Firenze e Venezia rimanevano neutrali.
Tre considerevoli opere storiche trattano dell’evento: i Commentarii di Pio II, vale a dire il resoconto apologetico del proprio pontificato; il De rebus gestis Francisci Sfortiae commentarii di Giovanni Simonetta (m. 1491 ca.), segretario del duca, dove è rielaborata la documentazione accuratamente raccolta nella cancelleria, e che furono solo più tardi pubblicati ormai sotto Ludovico il Moro; e infine il De bello neapolitano di Giovanni Pontano (1429-1503), l’umanista umbro che fece la sua carriera come segretario dei sovrani aragonesi, e insieme come difensore delle loro buone ragioni. Come è stato scritto, la «narrazione […] corre parallela nell’opera del Pontano e nelle due storie ufficiali, milanese o pontificia, gli Annali del Simonetta e i Commentarii del Piccolomini […], intese a valorizzare l’apporto di ciascuna delle parti alla lotta e alla vittoria comuni» (Ferraù 2001, p. 92), o per meglio dire a trarne le conclusioni politiche volute. S’intende che una simile storiografia di tendenza fa un largo impiego della retorica, ben lungi dalla compassata prosa di Biondo, che pure fu allora in trattativa con lo Sforza e poi con Venezia, per prestare i suoi servizi di storico.
Il caso più singolare è quello dei Commentarii di Pio II, che mira ad affermare la sovrana autorità del pontefice attraverso l’affermazione vittoriosa della propria personale volontà, con sistematica denigrazione di ogni sorta di avversario che vi si opponga, si tratti di teste coronate, di città troppo ambiziose (Firenze e Venezia in particolare), di vicari delle giurisdizioni ecclesiastiche, o ancora di rivali nel corpo stesso della Chiesa. Va aggiunto che l’opera, pur diligentemente trascritta in un esemplare di lusso, e sicuramente usata confidenzialmente nei rapporti diplomatici, non uscì mai dal possesso dell’autore e dei suoi eredi, essendo messo a stampa, non senza cospicue censure, per cura del discendente Francesco Bandini Piccolomini, arcivescovo di Siena, nel 1584.
E un pari significato politico riveste la storiografia del secondo Quattrocento anche, e particolarmente, nel suo aspetto antiquario. Vediamo così il già menzionato Merula, che scrive per conto di Ludovico il Moro, collegare, nelle Antiquitates Vicecomitum, le origini della famiglia ducale ai Longobardi, in ossequio alle ambizioni dinastiche di elevare la dignità del ducato di Milano in quella di Regnum Lombardiae. Parallelamente a Venezia il nobile Bernardo Giustinian, rielaborando un frammento di Biondo, che aveva aspirato a farsi storico della Repubblica (Populi veneti historiarum liber primus), ribadisce in De origine urbis Venetiarum il mito dell’incorrotta libertà di Venezia, mai soggetta all’autorità imperiale, fino appunto dalle sue origini (Fubini 2003, p. 28). Si tratti dunque per ragioni politiche, o scolastico-disciplinari, o etico-religiose, nel secondo Quattrocento la storia riconfluisce nella retorica, e con essa prevale il requisito primo dell’ordinata esposizione. Da un tale punto di vista il giudizio di un retore quale Merula non lasciava scampo a Biondo:
Confonde i tempi e stravolge l’ordine delle cose […] Gli argomenti stanno a malapena insieme, e il passaggio dall’uno all’altro è talmente brusco, da lasciare per tutto il corso dell’esposizione nel dubbio il lettore
Confundit tempora et rerum ordinem pervertit […]; vix res simul cohaerent, et adeo abruptus fit transitus, ut lector fere in omni expositione ambigat (cit. in Fubini 2003a, p. 28).
Che è poi il concetto che così espone sinteticamente il ciceroniano Paolo Cortesi (1465-1510) nel dialogo De hominibus doctis: «Che vale dire il vero, se poi si confonde tutto oscuramente?» (Quid attinet vera scribere, si omnia obscure perturbaveris, in Fubini 1968, p. 556). In altri termini, secondo una tale istanza disciplinare, viene riproposto il primato del testo rispetto al nudo accadimento. Bruni, secondo la Historia Florentina di Bartolomeo Scala (1428-1497) intrapresa negli anni Ottanta, aveva leso il prestigio di Villani, prezioso deposito di tradizione per i concittadini non esclusa la sua parte leggendaria, non diversamente del resto da Tito Livio per i Romani antichi.
Valla, secondo la scrittura controversistica del curiale A. Cortesi (Antonio o forse il figlio Alessandro), per negare fede alla donazione di Costantino, confermata dalla comune credenza, aveva malignamente fatto ricorso a un tale arsenale di argomenti, «da persuadere facilmente quei lettori che non sono sufficientemente periti nella storia» ([…] ut pene legentibus, his potissimum qui historiarum minus periti sint […] persuadere haud difficile videatur, cit. in Fubini 2003, p. 238). E alla Rhetorica di Aristotele faceva appello nel suo commento al Decretum Gratiani il grande canonista Juan de Torquemada (1388-1468), nella comune finalità di confermare la fede nei Sacri canoni: «Il discorso comune non è mai del tutto falso, come dice il Filosofo nel libro I della Retorica» (Sermo communis non est omnino falsus, ut Philosophus dicit primo Rhetorices, cit. in Fubini 2003a, p. 287). E un altro retore, Marcantonio Coccio detto Sabellico (1476 ca.-1506), nelle sue Enneadi (completate nel 1498), rinnovato piano di storia universale, contraddiceva gli asserti metodici di Valla. Nelle età remote in difetto di altra conferma valeva l’autorità della fonte:
Per quanto riguarda la credibilità della storia, non ho da temere critiche calunniose, in quanto tutto ciò che è narrato è antichissimo e distante dalla memoria degli uomini, e derivato da quegli scrittori, che non soltanto hanno serbato la legge della storia, ma che possono essi stessi esser detti di averla stabilita
[…] quum omnia quae scribuntur vetustissima sint et procul ab hominum memoria remota, atque ex his potissimum scriptoribus excerpta, qui historiae legem non servasse solum, sed constituisse etiam videri possunt (cit. in Fubini 2003a, p. 358).
Le Enneades (così chiamate per l’ordinamento in gruppi di 9 libri, non senza l’intento, palese nel sottotitolo, di rovesciare l’ordinamento delle Decades di Biondo: […] ab orbe condito ad inclinationem Romani imperii) furono a opera compiuta nuovamente intitolate Rapsodia historiarum, nell’intento, dichiarato nel proemio, di collegarsi alla definizione in Quintiliano della storia come «imparentata alla poesia e per così dire poema in prosa» (Est enim poeticae cognata historia ac quodammodo solutum carmen, Institutio oratoria, X, 1, 31).
La definizione quattrocentesca più compiuta di tale antico rapporto di poesia e storia è nel dialogo Actius di Pontano, definito come «la chiave di volta nel passaggio dalla speculazione quattrocentesca alla grande stagione della trattatistica nel secolo seguente» (Ferraù 2001, p. 117). Detto per inciso, un tale discorso sulla methodus nella ars historica è strettamente connesso all’esposizione e alla disposizione degli argomenti, e cioè al rivestimento retorico, non alla sostanza storiografica, che si è fin qui considerata. L’Actius infatti, trattando dei rapporti tra storia e poesia, «privilegia in maniera assoluta la prospettiva retorico-formale, in […] una summa delle più consolidate tradizioni classiche, Quintiliano, Cicerone e Gellio» (p. 118), nonché, dal punto di vista dei modelli, Tito Livio («Livius profecto regnat», p. 122).
Ma un altro aspetto va altresì notato nella teoria e prassi storica di Pontano. I personaggi, positivi o negativi, del De bello corrispondono a paradigmi di virtù o comportamento, una materia che l’autore svolge ampiamente in trattati morali (o politico-morali) appositi, come De principe, De prudentia, De immanitate, De fortuna ecc.; essi si ispirano ampiamente all’Etica aristotelica, variamente dilatata e adattata secondo esemplificazione corrente. Il discorso sulla storia, in altri termini, si collega strettamente a quello sull’etica. Non per nulla, nel recente passato i critici di Valla storico, come Facio e il Panormita, furono anche censori, nel dialogo De vitae felicitate, del De vero falsoque bono, la più ampia professione del suo utilitarismo; e lo stesso può essere detto di Bartolomeo Sacchi detto il Platina, che a Valla contrappose il suo De falso ac vero bono, e fu autore, divenuto poi prefetto della Biblioteca Vaticana, delle Vitae pontificum.
Viene a questo punto da chiedersi: come da questo ritorno alla classicità e a una, perlomeno professata, ortodossia si passa al pensiero politico e storiografico di Machiavelli e Guicciardini? Com’è – a tacere di Machiavelli – che nella Storia d’Italia e negli altri scritti di Guicciardini si ritrovano privilegiate le realtà di fatto sulla veste retorica, come in Bruni; la subordinazione della dottrina giuridica rispetto a una considerazione razionale delle istituzioni politiche, come in Biondo; una professione di utilitarismo (il celebre e malfamato «particulare») rispetto alla morale corrente, come in Valla; e infine una considerazione disincantata dell’irrazionale corso degli eventi (la ‘fortuna’), come in Poggio?
Una volta di più, è essenziale riferirsi alla realtà politica e, nella fattispecie, politico-costituzionale. Fatto saliente per spiegare la fioritura successiva del pensiero politico-storiografico fu la riforma costituzionale di Firenze, avvenuta dopo la cacciata dei Medici con l’istituzione, il 22 dicembre 1494, del Consiglio maggiore. Il nuovo organo, soppiantando i Consigli statutari del popolo e del Comune – e cioè rompendo anche formalmente con la tradizione formale del vecchio Comune –, dava un assetto legale e riconosciuto a quella realtà di fatto che era il ‘reggimento’ cittadino, e cioè la cernita dei prescelti nei periodici scrutini per occupare i ‘Tre maggiori uffici’ della Signoria e dei suoi Collegi. Inoltre, essendo i cittadini ‘beneficiati’ in virtù dei precedenti familiari per quattro generazioni (padre, avo e bisavo), era escluso nell’inclusione l’elemento fazioso. Nel nuovo Consiglio risiedeva la sovranità cittadina e i suoi membri erano tali di diritto. Ciò costituiva una rottura del vecchio principio di legittimità fondato sulla continuità di tradizione; e, infatti, fu annunciato dal suo principale ispiratore, Savonarola, nella predica del 18 dicembre 1494, come «una cosa nuova» (in base al principio profetico di anteporre alla «consuetudine» la «verità», Fubini 2009, p. 271). È precisamente da tale rivoluzionario principio che si sviluppa un pensiero politico fuori dai binari della tradizione, e dunque fuori dal legittimismo giuridico.
Anche Guicciardini, nella sua trattazione del 1512, Del modo di ordinare il governo popolare (o Discorso di Logrogno), ripropone l’intento di ridurre la città «in una forma nuova» (Fubini 2009, p. 245). Ma bisogna qui fare un passo indietro. L’impianto di un Consiglio permanente implicava per simmetria ed equilibrio costituzionali la nomina di un ‘capo’ altrettanto permanente, secondo l’intenzione di Savonarola, che fu poi realizzata dopo la sua morte nel 1502 con l’elezione di Pier Soderini a gonfaloniere perpetuo. Il nuovo ufficio, che approfondiva la frattura con il vecchio assetto comunale, mentre fu contestato dal partito ottimatizio più radicale (capeggiato da Bernardo Rucellai), fu accolto dalla maggioranza aristocratica più moderata, ma a patto che esso fosse affiancato da un organo senatorio, che fungesse da mediazione permanente tra il gonfaloniere e il Consiglio, pur riconosciuto come sede essenziale della sovranità cittadina. La proposta non fu accolta, e pertanto la riforma parve incompiuta, e questa è appunto la sostanza del Discorso di Logrogno, nonché delle precoci e incompiute Storie fiorentine di Guicciardini che, benché vertessero in larga prevalenza sui fatti contemporanei, a partire dalla cacciata di Piero de’ Medici, si riallacciavano ambiziosamente alle Storie fiorentine di Bruni e di Poggio, ristampate a Firenze nel 1491 nella loro traduzione volgare.
Il dissidio fu aggravato dalla decisione con cui il nuovo gonfaloniere prese possesso della carica, fra le altre cose con il pieno controllo della Cancelleria, e, più grave ancora, con l’istituzione della milizia nel 1506, che egli, come capo di Stato, avrebbe direttamente comandato. In ambedue queste funzioni ebbe in Machiavelli il suo esecutore diretto. Per cominciare, riprendendo un provvedimento che risaliva al tempo di Lorenzo il Magnifico, Machiavelli fu incaricato di redigere la storia cittadina, secondo la versione ufficiale del gonfaloniere (a cui probabilmente intende rispondere la storiografia di Guicciardini, ispirata dalla parte aristocratica). A tale riguardo, mentre già da tempo erano stati riconosciuti appunti e frammenti machiavelliani relativi a tale progetto, abbiamo ora la più diretta conferma dalla seguente annotazione manoscritta del coadiutore Agostino Vespucci al suo esemplare di possesso delle Ad familiares di Cicerone (il volume incunabolo, 1477, ora presso la Biblioteca universitaria di Heidelberg, c. 58v, messo on-line dal suo direttore, Veit Probst, http://digi.ub.uni-heidelberg.de/diglit/cicero1477, 29 maggio 2013). Così questi annota nel 1503 a proposito di un elogio ciceroniano della storia, nonché delle temporum varietates fortunaeque vicissitudines: «Ut vero Florentini dicere dal ’94 in qua possunt; ut vero Nicolaus domini Bernardi de Malclavellis [sic] historiam horum temporum scribens suo ordine recensebit vere et eleganter, qui multis interfuit et valet iudicio». Ed è sulla base di questo precedente che, ancora nell’ambito della Cancelleria, nel 1520 Machiavelli intraprese, stavolta su commissione medicea, le sue Istorie fiorentine.
La data saliente che mette a nudo non meno il motivo di dissenso che il rapporto reciproco che legò in modo permanente Machiavelli e Guicciardini fu quella della provvisione dell’ordinanza militare, redatta da Machiavelli per conto del gonfaloniere il 30 novembre 1506, e accompagnata da un più personale scritto propagandistico, La cagione dell’ordinanza. Ambedue i testi fanno riferimento a un precedente di grande autorevolezza, la dichiarazione di Giustiniano introduttiva al Codice, secondo la quale «armi e leggi» ([…] de stirpe duarum rerum, armorum atque legum) erano state all’origine della grandezza di Roma. Mentre il testo ufficiale della provvisione segue l’emendamento della giurisprudenza medievale, che aveva anteposto nell’ordine la «giustizia» alle «armi» («Considerato […] come tutte le republiche […] hanno sempre hauto per principal fondamento due cose, cioè la iustitia et l’arme […]; et considerato che la republica vostra è di buone et sancte leggi bene instituta et ordinata circa la administratione della iustitia, et che gli manca solo il provedersi bene dell’arme […], giudicano [scil. i Signori] essere bene armarsi d’arme proprie»), Machiavelli ribadisce nell’ordine il binomio antico, e così provocatoriamente spiega ai concittadini «la cagione dell’ordinanza»: «Voi della iustitia ne havete non molta et dell’armi non punto. Et el modo ad riavere l’uno et l’altro è solo ordinarsi all’armi per deliberatione publica, et con buono ordine et mantenerlo» (cit. in Marchand 1975, pp. 430, 432).
È precisamente da questo paradosso che prende spunto il Discorso di Logrogno di Guicciardini, che non nega già l’opportunità della milizia cittadina, ma che la vorrebbe istituita entro un saldo ordine costituzionale. Si tratta, come già si è anticipato, dello stabilimento di un senato permanente, che avrebbe posto il potere ora anche militare sotto il controllo dei più autorevoli cittadini. E tuttavia sarebbe errato contrapporre l’aristocratico Guicciardini al popolare Machiavelli. Ambedue avversano i ‘governi stretti’, vale a dire esercitati arbitrariamente, come in epoca medicea, da fazioni di ottimati, al di sopra del legittimo governo della città; ambedue sono fautori del Consiglio maggiore, fondamento della legittimità, e inoltre Guicciardini è fra i pochi del suo rango a sostenere il mantenimento della carica vitalizia per il gonfaloniere (come confermerà ancora a distanza di anni nel Dialogo del reggimento di Firenze). Questo fondamento di comuni convincimenti repubblicani permise ai due grandi scrittori il mantenimento di un dialogo che, pur nel dissenso, si prolungò per tutta la loro carriera.
Al Principe di Machiavelli, del 1513-15, rispondono, nel 1515-16, i Discorsi di Guicciardini, su Come assicurare lo stato ai Medici; ai Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio Guicciardini obietta, fra gli altri luoghi, nel Dialogo del reggimento di Firenze (1521-25); il compimento delle Istorie fiorentine, a cui del resto Guicciardini aveva cooperato, è di stimolo per Guicciardini a ritornare su di un’approfondita indagine della storia patria, nelle cosiddette Cose fiorentine, rimaste a uno stato frammentario. Motivo profondo di consenso è la necessità di pervenire a un assetto costituzionale di Firenze come condizione stessa di sussistenza della sua libertà. Inoltre, anche per via della rottura di continuità con l’antico Comune avvenuta nel 1494, i due autori considerano con pessimismo il passato cittadino, che per via delle fazioni o di altri disordini non godette mai di una libertà garantita dalle leggi. La condanna delle divisioni in ‘parti’ e ‘sette’ è motivo centrale delle Istorie di Machiavelli a proposito dei basilari sviluppi nel 14° sec.; mentre così scrive Guicciardini nelle Cose fiorentine: «Ma ha avuto [la città] questa perpetua infelicità, la quale non si può ascrivere se non a non essere mai caduta in uno governo bene ordinato» (a cura di R. Ridolfi, 1945, p. 21). Così è inoltre detto in uno dei più precoci Ricordi (Q 1-2, 11), al tempo dunque del Discorso di Logrogno:
O Dio, quante sono più le ragione che mostrano che la republica nostra abbia in breve a venire meno, che quelle che persuadono che la si abbia a conservare lungo tempo!
Machiavelli e Guicciardini sono dunque accomunati nel disincanto rispetto alla tradizione, e nella consapevolezza della ‘novità’, da accettare in tutti i suoi rischi e nelle sue possibilità. Ma il punto di netta divaricazione sta appunto nell’interpretazione del concetto essenziale di ‘novità’. Machiavelli lo fa suo in tutta la sua carica dirompente e profetica con cui lo aveva introdotto Savonarola. Alla novità della costituzione egli associa inscindibilmente quella delle armi, assegnando loro il significato forte di un primato, ove ciò si renda necessario, della volontà e della forza: non per nulla egli oppone in uno dei suoi passi più noti il «profeta armato» a quello «disarmato». All’idea di forza è strettamente connessa quella di «legge». Ancora sulla linea della giurisprudenza medievale la concezione della legge (scritta o orale) si confonde con quella della sua «osservanza»; ma smarrita l’idea confortante di una fonte profonda di legittimità nel diritto naturale («natura id est Deus», come asseriva Baldo), la storia si riduce a una sequela di fondazioni e rifondazioni violente, che sappiano dare norma al popolo riluttante.
Le violenze stesse di Cesare Borgia non valgono al fine di un mero successo politico-militare sugli avversari, ma per impiantare il tribunale di Romagna. Parimenti la metafora ciceroniana della volpe e del leone, vale a indicare, divergendo dalla fonte antica, la necessità di ricorrere alla forza dove la legge antica fosse andata corrotta (l’alternativa del De officiis era tra la «trattativa», disceptationem, e la «forza», per vim, mentre per Machiavelli, Principe, XVIII, 2-4, è fra le «leggi» e la «forza», che si rende necessaria nel difetto delle prime). Per questo vaga e sfuggente ci pare la teoria ancor oggi corrente secondo la quale Machiavelli avrebbe separato la ‘politica’ dalla ‘morale’. La politica nella sua più autentica finalità è, secondo il termine calzante della lingua inglese, enforcement della legge, fino al punto limite della rifondazione violenta; dal vigore della legge consegue il retto comportamento degli individui, sudditi o cittadini. Si pone qui il problema delle Repubbliche, vero centro, da buon fiorentino, del pensiero di Machiavelli. Esso si pone nei termini della rappresentanza e del consenso: quella rappresentanza e quel consenso che tanto avevano fatto difetto nei regimi aristocratici e medicei del recente passato di Firenze.
Nei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, Machiavelli facendo leva sul pensiero classico, e particolarmente sulla dottrina dei cicli storici in Polibio, non cerca il regime perfetto, ma quello che per organicità e forza interna offra una maggiore (sia pur relativa) garanzia di durata. Tale gli pare quello di Roma repubblicana, per avere coinvolto sotto la medesima legge forze sociali contrastanti come i patrizi e i plebei, ciascuno dei quali dotati dei loro organi politici (in riferimento al Tribunato della plebe), capaci di tutelarli contro la minaccia tirannica. Di qui anche – ed è punto per Machiavelli essenziale – l’accresciuta forza dello Stato e la sua capacità espansiva (o, come egli scrive, la sua propensione allo «ampliare»). Lo Stato espansivo è dunque opposto al vecchio modello di Stato-città, chiuso nella sua statica, perché aristocratica costituzione, al modo in cui Roma si oppone alle mitiche costituzioni di Sparta e, modernamente, di Venezia.
A tali tesi obiettò Guicciardini, principalmente nel Discorso del reggimento di Firenze, prosecuzione ideale, a un decennio di distanza, del Discorso di Logrogno. Due sono gli argomenti principali. Il primo è la difesa del principio caro ai fiorentini per lo meno da quando essi cominciarono, sulla fine del 14° sec., a emanciparsi dagli ordinamenti corporativi del Comune, vale a dire l’unità della sovranità (nel 1459 il gonfaloniere di Giustizia fu proclamato capo dello Stato, in luogo della posizione ancora simbolicamente detenuta dal vecchio podestà forestiero), e ciò naturalmente fu ancora più evidente con la nomina del gonfaloniere vitalizio, all’ufficio del quale Guicciardini si dimostra fedele. L’altro tema ha un valore anche ideale, la difesa del principio della «civilità», la vita egualitaria, morigerata e non violenta del cittadino, governato dalla legge e non dall’arbitrio del signore, entro la sfera della giurisdizione urbana, per la quale il regime repubblicano rappresenta la condizione stessa di sussistenza. «Chi togliessi alla nostra città – scrive Guicciardini nel Dialogo – la sua civilità e immagine di libertà e riducessila a forma di principato, gli torebbe la anima sua, la vita sua, e la indebolirebbe e conquasserebbe al possibile».
Guicciardini non ignora la violenza del potere, che egli oggettivamente definisce come «la ragione e uso degli stati», a cominciare da quella esercitata dalla città nella sua espansione territoriale. E tuttavia egli nutre poca fiducia, se non nel controllarla, nel dirigerla a scopi razionali. La sua ragione è volta alla comprensione degli eventi, nel loro occorrere, nei moventi di chi li produce, nel gioco imprevedibile della fortuna. Tale è il vasto campo di osservazione, per quanto possibile diretta, della cosiddetta Storia d’Italia, e cioè dello sconvolgimento rispetto alla civiltà d’Italia vigente prima della spedizione di Carlo VIII, secondo la celebre contrapposizione retorica che apre l’opera (giacché Guicciardini, che non mancava di ambizioni letterarie, un poco di retorica, secondo i buoni canoni storiografici, ce la mette egli pure).
Ma qui dobbiamo arrestarci, se non fosse per un’ultima considerazione. Mentre le opere di Machiavelli, per quanto messe a stampa postume, si comunicano direttamente al lettore, sono anzi scritte in funzione di un pubblico di ascoltatori (basti pensare alla grande, plurisecolare fortuna, anche in ambienti insospettabili, delle Storie fiorentine), alla morte di Guicciardini la sua intera opera era rimasta inedita, parte perché incompiuta, parte – e soprattutto – per scelta deliberata dell’autore. La sua immagine rimase appannata alla posterità; la fortuna della Storia d’Italia, dall’edizione censurata cinquecentesca a quella ottocentesca di Giuseppe Canestrini, contribuì a oscurare, o peggio a considerare come limite, il suo volto fiorentino, tenacemente, stoicamente repubblicano. Una tale mancata, se non alterata, trasmissione dell’opera di Guicciardini serba un valore emblematico. Essa conclude nel più maestoso dei modi una grande stagione di pensiero storiografico e politico, che non sarebbe tuttavia divenuto parte della cultura storica e politica del nostro Paese. Ma proprio ciò segnala le gravi lacune della nostra cultura storica e politica, che un grande storico come Gaetano Salvemini (incidentalmente egli era stato tra i primi ad apprezzare l’opera storica di Bruni e si mantenne sensibile alla cultura del Rinascimento) ebbe accoratamente a lamentare. Pare opportuno concludere questa rassegna della storiografia rinascimentale con la segnalazione di un problema della nostra nazione e della sua non certo lineare tradizione di cultura, che oggi, ahimè, è più vivo e cogente che mai.
Il tema trattato, per il vario genere della documentazione e della bibliografia (storica, letteraria, erudita), rende arduo distinguere fra edizioni e trattazioni critiche sui vari autori in questione. Le indicazioni che seguono si limitano a orientare sui temi toccati nel saggio.
Un’informazione complessiva è fornita da E. Cochrane, Historians and historiography in the Italian Renaissance, Chicago-London 1981.
La trattazione è fondata sui seguenti contributi di chi scrive:
R. Fubini, Storiografia dell’umanesimo in Italia da Leonardo Bruni ad Annio da Viterbo, Roma 2003a.
R. Fubini, Politica e pensiero politico nell’Italia del Rinascimento. Dallo Stato territoriale al Machiavelli, Firenze 2009.
Per quanto riguarda Francesco Petrarca, si veda, per un orientamento complessivo, Petrarch. A critical guide to the complete works, ed. V. Kirkham, A. Maggi, Chicago-London 2009.
Sull’opera storica:
De viris illustribus, Ed. nazionale delle opere di Francesco Petrarca, 1° vol., a cura di G. Martellotti, Firenze 1964.
De gestis Cesaris, a cura di G. Crevatin, Pisa 2003.
Cfr. inoltre R. Fubini, Luoghi della memoria e antiscolasticismo in Petrarca: I “Rerum memorandarum libri”, in U. Pfisterer, M. Seidel, Visuelle Topoi. Erfindung und tradiertes Wissen in den Künsten der italienischen Renaissance, München-Berlin 2003b, pp. 171-81.
Per quanto concerne Leonardo Bruni, gli Historiarum Florentini populi libri XII, pubblicati da Emilio Santini nella nuova edizione rivista e ampliata della collezione muratoriana, Rerum italicarum scriptores, t. 19, parte terza, Bologna 1926, sono stati ripresentati con traduzione inglese a fianco, History of the Florentine people, per la cura di James Hankins, Cambridge (Mass.) 2001-2007.
Il volgarizzamento di Donato Acciaiuoli, insieme a quello di Jacopo di Poggio Bracciolini, si legge in L. Bruni, P. Bracciolini, Storie fiorentine, presentazione di E. Garin, Arezzo 1984 (rist. anast. dell’ed. di Venezia 1476, senza numerazione di pagine).
Gli altri testi citati sono in L. Bruni, Scritti letterari e politici, a cura di P. Viti, Torino 1996.
Si confronti inoltre:
R. Fubini, L’immagine di Firenze in Leonardo Bruni. Intenti retorici e percezione costituzionale, in Lo Stato moderno e le sue rappresentazioni, a cura di L. Barletta, G. Galasso, San Marino 2011, pp. 91-106.
G. Ianziti, Writing history in Renaissance Italy. Leonardo Bruni and the uses of the past, Cambridge-London 2012.
Su Lorenzo Valla:
R. Fubini, Umanesimo e secolarizzazione da Petrarca a Valla, Roma 1990.
M. Regoliosi, Lorenzo Valla e la concezione della storia, in La storiografia umanistica, Atti del Convegno, Messina (22-25 ottobre 1987), 2° vol., Messina 1992, pp. 549-71.
R. Fubini, L’umanesimo italiano e i suoi storici. Origini rinascimentali - critica moderna, Milano 2001 (rispettivamente per il De vero bono e la Dialectica).
R. Fubini, Pubblicità e controllo del libro nella cultura del Rinascimento, in Humanisme et Église en Italie et en France méridionale (XVe siècle-milieu du XVIe siècle), Actes du Colloque international, Rome (3-5 février 2000), éd. P. Gilli, Roma 2004, pp. 201-37.
Si vedano inoltre:
Gesta Ferdinandi regis Aragonum, a cura di O. Besomi, Padova 1973.
L’“Epistola contra Bartolum” del Valla, a cura di M. Regoliosi, in Filologia umanistica per Gianvito Resta, a cura di V. Fera, G. Ferraù, 2° vol., Padova 1997, pp. 1501-71.
De falso credita et ementita Constantini donatione, hrsg. W. Setz, Weimar 1976; su cui cfr. R. Fubini, Conciliarismo, regalismo e Impero nelle discussioni tre-quattrocentesche sulla Donazione di Costantino, in Costantino il Grande tra medioevo ed età moderna, Atti del Convegno, Trento (22-24 aprile 2004), a cura di G. Bonamente, G. Cracco, K. Rosen, Bologna 2008, pp. 133-58.
Per quanto rigarda Biondo Flavio, gli Opera si leggono nella stampa di Basilea 1531, 1559 (con numerazione invariata di pagine).
Un’edizione moderna dell’Italia illustrata è quella di C.J. Castner, Biondo Flavio’s Italia illustrata. Text, translation, and commentary, 2° vol., Binghamton (NY) 2005.
Essenziale rimane Biondo Flavio, Scritti inediti e rari, con introduzione di B. Nogara, Roma 1927.
Raccoglie con grande diligenza la bibliografia sull’autore, Paolo Pontari, che ha intrapreso l’edizione critica dell’Italia illustrata; il lavoro preparatorio è presentato con ampia introduzione in Blondus Flavius, Italia illustrata, 1° vol., a cura di P. Pontari, Roma 2011.
Si veda inoltre R. Fubini, Biondo Flavio, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 10° vol., Roma 1968, ad vocem.
Su Poggio Bracciolini:
Opera omnia, rist. anast. a cura di R. Fubini, 4 voll., Torino 1964-1969.
De varietate fortunae, a cura di O. Merisalo, Helsinki 1993.
De infelicitate principum, a cura di D. Canfora, Roma 1998.
Si veda inoltre R. Fubini, Leon Battista Alberti, Niccolò V e il tema della ‘Infelicità del principe’, in La vita e il mondo di Leon Battista Alberti, Atti dei Convegni internazionali del Comitato nazionale VI centenario della nascita di Leon Battista Alberti, Genova (19-21 febbraio 2004), 2° vol., Firenze 2008, pp. 441-69.
Su Enea Silvio Piccolomini:
I Commentarii, a cura di L. Totaro, Milano 1984.
Si vedano inoltre:
L. Totaro, Pio II nei suoi Commentarii, Bologna 1978.
B. Baldi, Pio II e le trasformazioni dell’Europa cristiana (1457-1464), Milano 2006.
Pio II Piccolomini, il papa del Rinascimento a Siena, Atti del Convegno internazionale di studi, Siena (5-7 maggio 2005), a cura di F. Nevola, Siena 2009.
B. Baldi, Il cardinale tedesco. Enea Silvio Piccolomini fra impero, papato, Europa (1442-1455), Milano 2012.
Sull’Umanesimo napoletano, oltre i testi citati nei seguenti contributi critici, si veda ora B. Facio, Rerum gestarum Alfonsi regis libri. Testo latino, traduzione italiana, commento e introduzione, a cura di D. Pietragalla, Alessandria 2004.
Si confronti inoltre:
G.H. Bentely, Politics and culture in Renaissance Naples, Princeton (NJ) 1987.
G. Ferraù, Il tessitore di Antequera. Storiografia umanistica meridionale, Roma 2001.
Si vedano inoltre:
G. Cotroneo, I trattatisti dell’‘ars historica’, Napoli 1971.
G. Pontano, De Principe, a cura di G.M. Cappelli, Roma 2003.
G. Pontano, La fortuna, a cura di F. Tateo, Napoli 2012.
Sull’Umanesimo milanese:
G. Ianziti, Humanistic historiography under the Sforzas. Politics and propaganda in fifteenth-century Milan, Oxford 1988.
Sull’Umanesimo veneto:
P.H. Labalme, Bernardo Giustiniani. A Venetian of the Quattrocento, Roma 1969.
La storiografia veneziana fino al secolo XVI, a cura di A. Pertusi, Firenze 1970.
F. Gaeta, Storiografia, coscienza nazionale e politica culturale nella Venezia del Rinascimento, in Storia della cultura veneta dal primo Quattrocento al concilio di Trento, 3° vol., t. 1, Vicenza 1980.
Sull’Umanesimo curiale:
Bartholomaei Platynae De falso et vero bono, a cura di M.G. Blasio, Roma 1999.
S. Bauer, The censorship and fortuna of Platina’s “Lives of the popes” in the sixteenth century, Turnhout 2006.
Per quanto riguarda Niccolò Machiavelli, per un orientamento sulla straripante bibliografia ci si limita a rimandare all’ultima monografia uscita: G.M. Barbuto, Machiavelli. La vita e l’opera dell’uomo che ha cambiato per sempre il pensiero politico, Roma 2013.
Si vedano inoltre, per i punti toccati nel saggio:
J.J. Marchand, Niccolò Machiavelli. I primi scritti politici (1499-1512), Padova 1975.
A.M. Cabrini, Per una valutazione delle “Istorie fiorentine” del Machiavelli. Note sulle fonti del Secondo Libro, Firenze 1985.
G. Pieraccioni, Note su Machiavelli storico. I. Machiavelli e Giovanni di Carlo, «Archivio storico italiano», 1988, 538, pp. 635-64.
G. Pieraccioni, Note su Machiavelli storico. II. Machiavelli lettore delle “Storie fiorentine” di Guicciardini, «Archivio storico italiano», 1989, 539, pp. 63-98.
A.M. Cabrini, Interpretazione e stile in Machiavelli. Il terzo libro delle “Istorie”, Roma 1990.
Circa la datazione del Principe, cfr. H. Jaeckel, I tordi e il principe nuovo. Nota sulle dediche del “Principe” di Machiavelli a Giuliano e a Lorenzo de’ Medici, «Archivio storico italiano», 1998, 575, pp. 73-92.
Su Francesco Guicciardini:
Le cose fiorentine, a cura di R. Ridolfi, Firenze 1945.
Opere, a cura di E. Lugnani Scarano, 1° vol., Torino 1970.
Si veda inoltre:
Francesco Guicciardini, 1483-1983. Nel V centenario della nascita, Firenze 1984.
G. Cadoni, Un governo immaginato. L’universo politico di Francesco Guicciardini, Roma 1999.
G.M. Barbuto, La politica dopo la tempesta. Ordine e crisi nel pensiero di Francesco Guicciardini, Napoli 2002.
Per quanto riguarda gli emuli e i prosecutori cinquecenteschi di Biondo Flavio, su Leandro Alberti si vedano:
Descrittione di tutta Italia di F. Leandro Alberti Bolognese. Aggiuntavi la descrittione di tutte l’isole. Riproduzione anastatica dell’edizione 1568, Venezia Lodovico degli Avanzi, Bergamo 2003 (con saggi introduttivi di vari autori).
R. Fubini, Note su Leandro Alberti e l’“Italia illustrata” di Biondo Flavio, in L’Italia dell’Inquisitore. Storia e geografia dell’Italia del Cinquecento nella “Descrittione” di Leandro Alberti, Atti del Convegno internazionale di studi, Bologna (27-29 maggio 2004), a cura di M. Donattini, Bologna 2007, pp. 137-43.
Su Onofrio Panvinio si vedano:
J.-L. Ferrary, Onofrio Panvinio et les antiquités romaines, Roma 1996.
Su Carlo Sigonio si veda:
W. McCuaig, Carlo Sigonio. The changing world of the late Renaissance, Princeton (NJ) 1989.