Umanesimo e scienza antica: la riscoperta di Tolomeo geografo
Anche da parte di coloro che hanno sottovalutato l’importanza del periodo umanistico nella storia della scienza, non si è mai potuta negare l’evidenza: e cioè che tra Tre e Quattrocento fossero avvenute importanti scoperte di testi scientifici latini e greci. Il coinvolgimento e il contributo degli umanisti nella costruzione della nuova scienza, fondata su nuovi libri non più letti nel Medioevo, emerge forse più chiaramente se si scava in un campo specifico, quello degli studi geografici, che fu oggetto di particolari attenzioni da circa la metà del Trecento in poi.
Tra i tanti meriti da attribuire a Francesco Petrarca vi è anche quello di avere promosso questi studi, sia scoprendo e rimettendo in circolazione opere di autori latini come il De chorographia (44 ca.) di Pomponio Mela, il De fluminibus fontibus lacubus nemoribus paludibus montibus gentibus per litteras (4° o 5° sec.) di Vibio Sequestre e la Naturalis historia (77) di Plinio il Vecchio, sia dedicandosi a studi di toponomastica antica, per i quali egli impiegò anche i Collectanea rerum memorabilium (metà del 3° sec.) di Gaio Giulio Solino, la sezione geografica delle Etymologiae (fine del 6° sec. o inizio del 7°) di Isidoro di Siviglia, e persino un testo particolare come la Topographia Hibernica (1186) dell’inglese Giraldo Cambrense (o di Cambrai, noto anche come Giraud de Barri), di cui Petrarca si servì nel tentativo vano di identificare la Thule degli antichi. Ma Petrarca fece ricorso anche a una fonte di tipo diverso, quelle carte geografiche, alcune considerate molto antiche, che divennero per lui, con l’avanzare dell’età e con la stanchezza di tanto peregrinare, il mezzo preferito per viaggiare.
Gli strumenti della toponomastica petrarchesca furono dunque i testi degli antichi e le carte geografiche. E Petrarca ritenne di indicare quali fossero la difficoltà e il carattere particolare di questo genere di studi in una nota contenuta nei margini del celebre Virgilio Ambrosiano (Milano, Biblioteca Ambrosiana, cod. A 79 inf., ff. 98v-99r, ad Aen. III 531), dove elenca le ragioni che inducono così di sovente in errore i lettori e persino i commentatori quando si imbattono in un nome di località non immediatamente identificabile con il corrispondente moderno. La pigrizia, la segnities di chi non ricerca quale sia il luogo indicato dal poeta, va combattuta con la curiositas erudita, con una ricerca condotta sui libri dei cosmografi, e sulle antiche carte geografiche; in definitiva il testo antico andava spiegato con tutte le armi filologiche a disposizione, nessuna esclusa, per evitare fraintendimenti anche gravi (F. Petrarca, Le postille al Virgilio Ambrosiano, a cura di M. Baglio, A. Nebuloni Testa, M. Petoletti, 1° vol., 2006, pp. 301-303; cfr. anche Firenze e la scoperta dell’America, 1992, pp. 50-53).
Questo interesse per la toponomastica Petrarca lo trasmise al suo amico Giovanni Boccaccio, che dedicò a questo genere di indagine il De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus et de nominibus maris (1362-1366). In particolare, nell’epilogo dell’operetta Boccaccio si sofferma sul grave stato di corruzione delle opere geografiche, in cui è praticamente impossibile, se non divinando, correggere un testo composto quasi esclusivamente da nomi propri.
Ci proveranno altri umanisti, e soprattutto, più di un secolo dopo, Ermolao Barbaro con le Castigationes Plinianae et in Pomponium Melam, uscite a stampa nel 1492-1493. L’opera di Barbaro rappresenta il culmine di un lunghissimo lavoro esegetico sul testo pliniano, che vide coinvolte generazioni di umanisti da Petrarca in poi, e che divenne un vero e proprio «laboratorio filologico» (come l’ha definito efficacemente Vincenzo Fera nel titolo di un suo saggio edito nel 1995).
Intanto aveva fatto la sua comparsa in Occidente un nuovo testo che avrebbe dato un contributo notevole agli studi di toponomastica, e non solo a questi: la Geographia di Claudio Tolomeo (100 ca.-175 ca.), portata a Firenze dal dotto bizantino Manuele Crisolora quando nel 1397 vi giunse per insegnare il greco allo Studio. La vediamo citata infatti due volte da Coluccio Salutati: in una lettera del 21 luglio 1403, per chiarire all’amico Domenico di Bandino quale fosse il nome antico di Città di Castello, e poi nel IV libro del De laboribus Herculis (interrotto dalla morte dell’umanista, avvenuta nel 1406), a proposito del nome corretto degli abitanti della città di Eraclea, i mariandini.
La versione latina della Geographia fu iniziata dallo stesso Crisolora – che, a quanto ci è dato sapere, altro non tradusse durante il suo soggiorno fiorentino (1397-1400) – e fu completata da un suo allievo, Iacopo Angeli da Scarperia. Per la prima parte della sua versione quest’ultimo utilizzò il testo contenuto in un grosso miscellaneo di opere scientifiche (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, cod. Vaticano gr. 191), che proprio Crisolora aveva portato con sé in Italia assieme a molti altri codici greci.
È possibile che il dotto bizantino a Firenze sia stato indotto a tradurre la Geographia per venire incontro agli interessi di toponomastica del cancelliere fiorentino, che probabilmente conosceva appena l’opera del geografo alessandrino. Gli studi di Patrick Gautier Dalché (1999 e 2009, pp. 87-142) hanno mostrato come in alcune opere tardoantiche – quali i Getica (metà del 6° sec.) di Giordane, le Institutiones divinarum et saecularum litterarum (560 ca.-580 ca.) di Cassiodoro e il De nuptiis Mercurii et Philologiae (inizio del 5° sec.) di Marziano Capella –, in alcuni autori carolingi e in alcune opere astrologiche tradotte in latino dall’arabo – come il De iudiciis astrorum, cioè il Kitāb al-bāri‛ fi aḥkām an-nujūm (Libro completo sui giudizi delle stelle), composto tra il 1036 e il 1062 dal tunisino Abū ’l-Ḥasan ‛Alī ibn Abī ’r-Riǧāl aš-Šaibānī (noto in Occidente come Albohazen Haly filius Abenragel o come Haly Abenragel), oppure il commento al Quadripartito (Tetrabiblos) di Tolomeo scritto intorno alla metà dell’11° sec. dall’egiziano Abū ’l-Ḥasan ‛Alī ibn Riḍwān al-Misri (noto in Occidente come Haly Abenrudian) – fosse ricordata l’opera geografica di Tolomeo, sotto vari nomi.
Ai testi astrologici appena ricordati si può aggiungere un’altra opera dello stesso Tolomeo di cui circolavano a Firenze fra Tre e Quattrocento almeno due versioni latine risalenti al 12° sec., quella dall’arabo di Gherardo da Cremona, la più diffusa, e quella dal greco di un anonimo che l’avrebbe effettuata in Sicilia. Mi riferisco all’Almagesto, in cui Tolomeo, alla fine del II libro (cap. 13), preannunzia la composizione della sua opera geografica, indicandone per sommi capi i contenuti. Anche se il titolo dell’opera non vi compare, una nota in margine in un manoscritto del 13° sec. della versione di Gherardo non esita a identificarla con il suo nome ‘arabo’: «facit mentionem de libro Algerafie» (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 89 sup. cod. 45, f. 44v).
Salutati conosceva queste opere, che utilizza, per es., nel De fato et fortuna (1396-1399). Tuttavia gli accenni che esse contengono potevano far pensare a un’opera sì geografica, ma la cui importanza sarebbe stata soprattutto nell’indicazione di longitudine e latitudine dei diversi luoghi, particolarità su cui insiste Tolomeo stesso nell’Almagesto. Poteva pertanto apparire come un’opera utile soprattutto per gli astrologi e della quale forse non si riusciva a cogliere la straordinaria novità.
La novità ancora più eclatante, rispetto al semplice testo e ai suoi elenchi di coordinate geografiche, era però costituita dalle tavole; assenti nel citato codice Vaticano, illustrano invece un altro manoscritto della Geographia che riteniamo Crisolora avesse portato con sé a Firenze (oggi Biblioteca Apostolica Vaticana, cod. Urbinate gr. 82).
Dal testamento di Palla di Nofri Strozzi, vergato nel 1462 a Padova – dove il nobile fiorentino si era ritirato sin dal 1434, dopo la condanna all’esilio –, apprendiamo che il maestro bizantino gli avrebbe lasciato due codici illustrati della Geographia, entrambi dichiarati inalienabili in ricordo del loro donatore: il primo, che va identificato con l’Urbinate, antico capostipite di tutti i Tolomei dotati di tavole che vennero poi confezionati in Italia, alcuni dei quali, scrive Palla Strozzi, furono persino esportati «fuor d’Italia» (Gentile, Speranzi 2010, p. 13); il secondo dovuto a Crisolora stesso, il quale però non poté completarlo.
Effettivamente tutti i manoscritti latini della Geographia illustrati nella maniera più ‘classica’, con il mappamondo e le ventisei carte regionali, discendono dall’Urbinate, anche se soltanto due direttamente, a quanto ci è dato sapere. Il primo è un manoscritto Vaticano (Biblioteca Apostolica Vaticana, cod. Vaticano lat. 5698) che comprende le sole tavole con i toponimi volti in latino, attribuito agli anni a cavallo tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento, e all’ambiente di Salutati. Il secondo, una copia del testo greco e delle tavole, anch’essa sovrapponibile all’Urbinate, conservato a Firenze (Biblioteca Medicea Laurenziana, cod. Conventi soppressi 626), da cui discesero tutti i grandi Tolomei latini illustrati prodotti nelle botteghe fiorentine. A questi due manoscritti si aggiunge il planisfero tolemaico contenuto nell’atlante di Andrea Bianco, che il cartografo veneziano confezionò nel 1436, approfittando della presenza del codice Urbinate nella casa padovana di Palla Strozzi.
Tra i manoscritti più fedeli al modello vi è il 44 del Topkapı Sarayı Müzesi di Istanbul. Questo potrebbe essere tra quei manoscritti, discesi dall’Urbinate gr. 82, che secondo il testamento di Strozzi sarebbero andati «fuor d’Italia». Molto vicini al modello greco sono anche i manoscritti dovuti a Piero del Massaio, attivo come pittore nel duomo fiorentino negli anni 1463-73, ma che si fece soprattutto un nome come «dipintore» di Tolomei. Anche nel suo caso abbiamo una copia destinata all’estero: nel 1460-61 egli approntò infatti un manoscritto con quest’opera per il portoghese Álvaro Afonso, vescovo di Silves, che si trovava allora a Firenze (Firenze e la scoperta dell’America, 1992, pp. 200-202). I manoscritti di Piero rimasero sempre fedeli al modello originale, costituito dal testo più le ventisette tavole. A un dato momento, tuttavia, egli li arricchì con l’aggiunta delle cosiddette carte novelle, cioè di nuove carte, opera di cartografi moderni, di alcuni Paesi (quelli della penisola iberica, la Francia, l’Italia) e di piante di città, tra le quali famosissima quella di Firenze.
Quella delle piante cittadine fu una caratteristica esclusiva di Piero del Massaio. Per quanto concerne invece le carte novelle, il primo a introdurle fu probabilmente il tedesco noto come Niccolò Germano, un personaggio sulla cui identità si è molto discusso. Adesso, grazie agli studi di Lorenz Böninger (2006), i contorni della sua figura e di quella dell’altro cartografo tedesco attivo a Firenze nell’ultimo quarto del secolo, Enrico Martello o Martelli, hanno assunto una connotazione più precisa. Niccolò Germano andrebbe infatti identificato con un Nicolaus Bleymint, già monaco di Reichenbach, centro rinomato per gli studi astronomici e geografici, che lasciò la Germania per l’Italia, dove fu cappellano del cardinale Prospero Colonna (Schuchard 2007). Alla morte di questi, nel 1463, Niccolò Germano si trasferì probabilmente a Firenze, dalla quale si mosse nella primavera del 1466 per recarsi a Ferrara, per offrire a Borso d’Este, duca di Modena, Reggio e Ferrara, una copia della ‘sua’ Geographia di Tolomeo, che il duca avrebbe sottoposto all’esame del suo referendario e consigliere Ludovico Casella e degli astronomi Giovanni Bianchini e Pietro Bono Avogaro.
Sarà poi da identificarsi con il cartografo il Niccolò che nel 1476 avrebbe chiesto a Bernardo Machiavelli di redigere a pagamento una lista dei toponimi presenti nell’opera di Tito Livio, episodio questo da tempo noto; come pure il «donnus Nicolaus Germanus astrologus» che il 4 aprile 1477 ricevette a Roma dal bibliotecario papale Bartolomeo Platina duecento ducati per la costruzione di due globi, uno terrestre e uno celeste, che si potevano vedere nella Biblioteca Vaticana.
Le altre notizie relative a Niccolò Germano rivelano i suoi legami con Enrico Martello, o piuttosto Martelli, dal momento che (come Böninger ha mostrato) quest’ultimo fu domestico, tra il 1448 e il 1496, dapprima di Domenico Martelli e, successivamente, del figlio Braccio, svelando così il segreto del suo cognome, che non derivava da un tedesco Hammer, come era stato pensato, ma da quello della famiglia fiorentina.
Nel gennaio del 1480 Enrico consegnò al cancelliere della Repubblica fiorentina Bartolomeo Scala un’altra coppia di globi, sempre opera di Niccolò Germano, che questi aveva lasciato in deposito presso l’ospedale di San Matteo, come proprietà della figlia; infine, in un documento del 1° febbraio Enrico risulta creditore di una somma di ventotto fiorini che gli spettavano per aver tradotto in tedesco, per conto di Niccolò, il Decameron, che poi aveva inviato in Germania affidandolo a un suo nipote di nome Leonardo. Quest’ultimo non sarebbe stato, come mostrano i documenti scoperti da Böninger, altri che Lienhart Holl, il tipografo che nel 1482 avrebbe dato alle stampe a Ulm la Geographia nella cosiddetta terza redazione di Niccolò Germano. Questi, a differenza di Piero del Massaio e di quanti si limitarono a riprodurre l’antico modello tolemaico, ne modificò le tavole. Innanzi tutto introdusse per il mappamondo la proiezione conica arrotondata o omeotera, scegliendo il secondo tipo di proiezione illustrato da Tolomeo, che con i suoi meridiani curvi restituisce la rotondità della Terra meglio di quanto non faccia la proiezione conica semplice.
Niccolò Germano si fondò sulle istruzioni di Tolomeo per la costruzione di questo tipo di planisfero, che pure il geografo alessandrino dichiara di preferire, di cui però non conosceva modelli antichi; ottenne comunque un risultato molto vicino all’unico esemplare greco ai giorni nostri noto, vale a dire il manoscritto 57 del Topkapı Sarayı Müzesi, coevo dell’Urbinate. Ma Niccolò andò oltre, introducendo una proiezione trapezoidale per le tavole regionali, di cui non possediamo esemplari antichi, e che egli costruì forzando il testo tolemaico, attribuendo a Tolomeo l’intenzione di rendere meglio, anche per le tavole regionali, la rotondità della Terra, mentre il geografo antico aveva esplicitamente affermato che per le carte regionali (Geographia, VIII, 1), vista la minore estensione che coprivano, non era necessario rendere con linee curve paralleli e meridiani, ma era sufficiente riprodurli con linee rette.
Il cartografo tedesco introdusse anche altre novità nei suoi codici, aggiungendo, accanto ai gradi che indicavano la distanza tra i vari paralleli, il corrispettivo in miglia; riducendo il formato, pur mantenendo le proporzioni, di modo da rendere l’opera più maneggevole; e infine delimitando i confini di regioni e province. Nella dedica a Borso d’Este, egli si sofferma su queste novità del suo Tolomeo; nella dedica al papa Paolo II, che accompagna i codici della cosiddetta seconda redazione, aggiunge altri particolari, relativi all’inserzione delle cosiddette carte novelle di Spagna, Italia ed Europa del Nord.
Firenze, anche in seguito alla partenza di Crisolora, era rimasta il centro degli studi geografici. Questo grazie a un gruppo di umanisti che frequentava il monastero di Santa Maria degli Angeli, di cui era priore Ambrogio Traversari.
Di tale circolo il personaggio più rappresentativo era Niccolò Niccoli, stravagante figura di dotto bibliofilo e antiquario, di cui il fiorentino Vespasiano da Bisticci ci ha lasciato un celebre ritratto (nel suo Le vite, 1482-1498, ed. critica a cura di A. Greco, 2° vol., 1976, pp. 225-42). Vespasiano sottolinea la perizia di Niccoli in geografia, che lo mostrava più dotto in materia sulle regioni lontane anche rispetto ai viaggiatori che ne provenivano e che venivano da lui interrogati. Su questa sua perizia insistono anche Poggio Bracciolini nella sua orazione funebre e Giannozzo Manetti nella vita di Niccoli.
Accanto a Niccoli vi erano Paolo dal Pozzo Toscanelli – suo grandissimo amico, molto più giovane ma destinato a gran fama – e ser Filippo di Ugolino Pieruzzi. Se il primo è conosciuto soprattutto per la celebre lettera che il 24 giugno 1474 scrisse al canonico di Lisbona Ferdinando Martins sulla via occidentale per raggiungere le Indie, il secondo possedeva la più ricca raccolta di testi scientifici accessibili in latino. Entrambi figurano come esecutori testamentari di Niccoli, e con loro, e con altri esponenti della Firenze umanistica, troviamo anche Francesco Lapaccini e Domenico Buoninsegni che, stando a Vespasiano da Bisticci (Le vite, cit., pp. 375-76, 406-407), avrebbero tradotto in latino i toponimi della Geographia.
In particolare, le fonti indicano in Niccoli il massimo esperto del testo di Tolomeo. Ricordiamo l’accenno fatto da Ambrogio Traversari a proposito del veneziano Pietro Tommasi, che gli avrebbe manifestato il suo proposito di correggere i molti e manifesti errori presenti nella Geographia di Tolomeo: Traversari aveva rimpianto che non ci fosse Niccoli, l’unico in grado di distoglierlo da un proposito così difficile e gravoso. Ma lo stesso Niccoli s’interessò anche di far arrivare a Firenze le nuove carte geografiche che di lì a poco avrebbero integrato i magnifici codici della Geographia. È lui che scrive, molto probabilmente a Cosimo di Giovanni de’ Medici detto il Vecchio, per far ricercare a Parigi una carta della Francia («del sito di Gallia») il cui autore gli risultava essere Pietro Sacchi da Verona (Firenze e la scoperta dell’America, 1992, pp. 103-104).
Nel 1437 Niccoli morì. Due anni dopo Firenze diventò, in occasione del Concilio che si era lì trasferito da Ferrara, un crocevia di delegazioni e pellegrini provenienti dalle regioni più lontane: dall’India, dall’Etiopia, dalle regioni caucasiche. Così Poggio Bracciolini poté registrare nel IV libro (1448) del suo De varietate fortunae i racconti delle peregrinazioni del veneziano Niccolò de’ Conti, e quanto la delegazione etiope gli raccontò a proposito delle misteriose sorgenti del Nilo; così Biondo Flavio ci ha potuto lasciare il racconto dell’esame a cui un collegio di cardinali sottopose, Tolomeo alla mano, la stessa delegazione etiope: i cardinali non potevano credere che gli etiopi venissero da una regione che secondo la Geographia doveva essere disabitata. Biondo osservò poi che non si trattava di un caso isolato, e che erano arrivate altre delegazioni provenienti dalle isole che si trovavano oltre la Britannia, popolatissime, malgrado Tolomeo avesse dichiarato quelle regioni «terra incognita».
Al centro di queste indagini geografiche ritroviamo poi Toscanelli: nel 1438 egli incontrò un etiope che era ospitato presso il monastero degli Angeli, e gli affidò una lettera da portare al pontefice, che era allora a Ferrara; Cristoforo Landino nel suo commento virgiliano narra del colloquio svoltosi tra Toscanelli e alcuni viaggiatori provenienti dalle regioni in cui nasceva il Tanai (Don), colloquio che avrebbe smentito la credenza degli antichi secondo cui la mitica Thule era l’isola in assoluto più al Nord. Così Giorgio Gemisto detto Pletone, filosofo bizantino e unico laico venuto in Italia per il Concilio al seguito dell’imperatore Giovanni VIII Palelologo, narra nella sua Correctio quarundam Strabonis notitiarum (dopo il 1439) di avere avuto una carta dell’Europa del Nord da un Paolo fiorentino, che altri non era se non Toscanelli.
Quest’ultima notizia è preziosa, perché ci informa della presenza a Firenze, già all’epoca del Concilio, della famosa carta dell’Europa del Nord dovuta al danese Claudius Claussøn Swart, poi inserita in alcuni manoscritti illustrati della Geographia, per es. da Niccolò Germano.
Sia questa notizia sia quella sulla carta della Francia ricercata da Niccoli ci fanno comprendere come nella Firenze che aveva visto il ritorno di Tolomeo si stesse raccogliendo un fondo cartografico destinato a integrare e correggere l’opera dell’Alessandrino. I cui molti errori erano divenuti ben presto evidenti, come testimonia Traversari, riferendo il tentativo di correggerli effettuato da Pietro Tommasi.
Alla cartografia tolemaica si contrapponeva una nuova cartografia, che per i contorni delle coste si basava sulle carte nautiche, le quali avevano già raggiunto da tempo una precisione stupefacente. Ci si era poi resi conto che alcune delle concezioni geografiche di Tolomeo – relativamente all’estensione dell’ecumene e alla chiusura dell’Oceano Indiano, che precludeva la possibilità di raggiungere le Indie navigando verso Occidente – erano in contrasto con quelle di altri autori, anche vissuti prima del geografo alessandrino.
Allo stesso tempo ci si era accorti delle inesattezze presenti nei dati di latitudine e di longitudine su cui Tolomeo aveva progettato le sue carte, che a loro volta si scontravano con i dati che emergevano dalle esperienze sul campo degli astronomi. E su questo punto sono di particolare interesse le notazioni di un astronomo fiorentino della seconda metà del Trecento, da identificarsi con il celeberrimo Paolo Dagomari, i cui dati portarono alla stesura di un lungo elenco di coordinate di città delle più svariate parti del mondo, che poi finirono come una sorta d’eredità nelle mani di Toscanelli.
Malgrado il poco che di lui direttamente ci è pervenuto, Toscanelli fu il faro degli studi scientifici nel Quattrocento. Il contemporaneo Ugolino Verino nei suoi versi sottolineava come egli conoscesse «terram et astra», la geografia e l’astronomia, facendone un novello Tolomeo, che avrebbe anche scritto un commento all’Almagesto (Firenze e la scoperta dell’America, 1992, p. 156). Una conoscenza della geografia che fu evidentemente all’origine del suo incontro a Firenze nel 1458 con gli ambasciatori del re di Portogallo di fronte al mappamondo che gli era stato prestato dal mercante Francesco Castellani. Si ricorderanno le lodi che gli tributò Giovanni Regiomontano (il tedesco Johann Müller da Königsberg) per la sua opera di correzione, fondata sul testo greco, di un somnolentus traduttore di Archimede (Gentile 2007, p. 127).
Ma egli non fu solo uno scienziato e un astronomo. Del grande medico, che curava soprattutto gli amici ammalati, del magister Paulus de Florentia, che aveva studiato a Padova con Niccolò Cusano (Gentile 2007, p. 125 nota 22), conosciamo oggi alcuni codici greci – uno di Arato di Soli e due di Galeno, tutti poi passati ad Angelo Ambrogini detto il Poliziano –, e anche un De plantis di Teofrasto di Ereso (371-287 a.C.), sempre greco, che egli avrebbe copiato per Niccoli.
Toscanelli fu prima compagno di studi e poi amico di Cusano, filosofo, scopritore delle dodici nuove commedie di Plauto e autore di una nuova carta della Germania; ma fu anche al centro della discussione che animò l’ambiente romano degli anni Cinquanta e Sessanta del Quattrocento sul celebre problema della quadratura del cerchio. Problema che vide coinvolto anche Lorenzo Valla, a conferma di quanto fossero permeabili i confini tra le varie discipline nel Quattrocento (Davies 1986, pp. 99-100, 102, 104-05). Valla era all’epoca al servizio di papa Niccolò V, in quella Roma dove vivevano i suoi protettori e sostenitori, il cardinale Bessarione e Cusano. La città vide riuniti negli stessi anni Leon Battista Alberti, Regiomontano, che vi era giunto da Vienna nel 1461 al seguito di Bessarione, il bizantino Teodoro Gaza e lo stesso Toscanelli, che vi giunse nel 1461 per curare l’amico Cusano, al cui capezzale si trovava ancora il 6 agosto del 1464 a Todi, come firmatario del testamento del cardinale assieme al citato Martins.
In quel cenacolo romano, i cui interessi spaziavano dalla geografia all’astronomia e all’astrologia – Regiomontano rammenterà i calcoli di Toscanelli e Alberti sulla declinazione del Sole rispetto all’eclittica, e due oroscopi elaborati dall’astrologo del duca di Urbino Federico da Montefeltro, Jacob von Speier, che gli aveva mostrato Alberti –, si toccavano verosimilmente tutti i campi dello scibile, così come era accaduto una trentina d’anni prima nelle riunioni che si tenevano all’ombra del monastero di Santa Maria degli Angeli. Di quelle riunioni, unico sopravvissuto era rimasto Toscanelli, che non per caso ritroviamo come interlocutore nel Dialogus de quadratura circuli (1457) di Cusano e come destinatario di uno degli opuscoli di Regiomontano sull’argomento.
Fu proprio Regiomontano ad affrontare un problema ormai evidente nel campo degli studi geografici, e cioè l’inadeguatezza della traduzione latina di Angeli della Geographia di Tolomeo, che continuò comunque a essere copiata per tutto il secolo, divenendo di fatto l’unico veicolo per la diffusione nel mondo latino di questo testo. Gli interventi visibili nei codici riguardavano piuttosto le carte, come testimoniato dall’introduzione di carte novelle nei manoscritti di Niccolò Germano e di Piero del Massaio, oppure dal caso isolato, ma non perciò meno significativo, costituito da un codice della Geographia, scoperto e illustrato nel 1996 da Marica Milanesi (London, British Library, cod. Harley 3686), databile tra il 1436 e il 1450, di origine veneziana, in cui in luogo delle tavole originali troviamo diciotto carte di origine nautica per le coste e di origine tolemaica per i toponimi.
Il più celebre tentativo di rivedere il testo della traduzione di Angeli fu quello operato da Domizio Calderini, che negli ultimi anni della sua vita lavorò a un’edizione della Geographia. Essendo questi morto prima di completarla (pare nel giugno del 1478), il volume fu stampato da Arnold Buckinck il 10 ottobre 1478, con un corredo cartografico che comprendeva il mappamondo in proiezione conica e le ventisei tavole regionali nella versione trapezoidale inventata da Niccolò Germano, che era a Roma nel 1477 e che forse collaborò a questa edizione.
Il volume si apre con una prefazione anonima rivolta al papa Sisto IV, che si rifaceva a quella che Calderini aveva preparato e che si conserva in un unico manoscritto (Verona, Biblioteca Capitolare, cod. CCVII). In quest’ultima l’umanista veronese si era soffermato sul lavoro di emendazione da lui effettuato: sull’incisione delle ventisei tavole regionali, per le quali «multa ex mathematicis disciplinis sumenda fuerunt»; sulla rettifica dei dati di longitudine e latitudine, spesso confusi tra loro o invertiti dai copisti; sulla collazione dei codici della traduzione latina con i manoscritti greci, in particolare con uno antichissimo appartenuto a Pletone; sulla correzione del testo latino, sia pure limitata, scrive Calderini, agli errori sostanziali, tralasciando quelli di stile, che pure potevano risultare fastidiosi (Firenze e la scoperta dell’America, 1992, pp. 219-20).
Ma se il lavoro di Calderini si limitò a una revisione solo parziale della traduzione di Angeli, ben più radicale fu l’impegno profuso da Regiomontano, che portò di fatto a una nuova traduzione della Geographia. Questo suo lavoro, della cui esistenza si è a lungo dubitato, si conserva a Basilea (Universitätsbibliothek, cod. O. IV. 32). La traduzione è completa ed è corredata nei margini da un fitto apparato di postille in cui Regiomontano annotò le varianti dei codici greci che aveva potuto consultare e delle traduzioni latine. Questo grande e innovativo impegno filologico da parte di Regiomontano attende ancora di essere studiato, anche in rapporto alla traduzione della Geographia pubblicata nel 1525 da Wilibald Pirkheimer, a cui il codice di Basilea appartenne e che tuttavia non è da lui menzionato. Pirkheimer ricorda invece, e pubblica nella sua edizione, i Fragmenta quaedam annotationum in errores quos Iacobus Angelus in translatione Ptolemaei commisit, in cui Regiomontano analizza, con spunti notevoli anche dal punto di vista della critica del testo, gli errori che Angeli avrebbe commesso nella sua versione.
Lo stesso Regiomontano pubblicò attorno al 1473 a Norimberga l’elenco delle opere che dovevano costituire il catalogo della sua tipografia: vi troviamo, tra l’altro, sia una nuova traduzione della Geographia sia l’opuscolo contro la traduzione di Angeli. La nuova traduzione era sembrata necessaria a Regiomontano per sopperire ai molti difetti di quella di Angeli, originati dalla sua scarsa padronanza sia della lingua greca sia della matematica; e a garanzia del suo lavoro di correzione Regiomontano nomina arbitri Toscanelli, per la sua eccellenza nel campo della matematica e la sua conoscenza del greco, e Gaza, dottissimo in greco e in latino. Egli avrebbe poi voluto pubblicare una «descriptio totius habitabilis notae», volgarmente chiamata mappa mundi, e delle carte, evidentemente novelle, di Italia, Spagna, Gallia, Grecia e Germania, accompagnate da introduzioni storiche tratte da vari autori; e avrebbe completato la sua opera geografica con i Commentaria magna in Cosmographiam Ptolemaei, in cui intendeva illustrare la costruzione e l’uso del meteoroscopium, lo strumento di cui Tolomeo si sarebbe servito per stabilire la latitudine e la longitudine delle diverse località (Malpangotto 2008, pp. 151-53).
Poco dopo, verso il 1475, Regiomontano pubblicò, sempre a Norimberga, le sue Disputationes contra Cremonensia in planetarum theoricas deliramenta, nella cui prefazione accenna alla Geographia di Tolomeo: da un lato attacca la traduzione di Angeli e dall’altro accusa un homo famelicus di avervi inserito un’innovazione frivola e inutile, che aveva cambiato l’aspetto delle ventisei tavole regionali. In questo personaggio va riconosciuto Niccolò Germano, con la sua proiezione trapezoidale delle carte regionali. In sostanza, Angeli e Niccolò Germano sono attaccati per aver tradito il testo tolemaico; il cartografo, in particolare, per avere attribuito a Tolomeo una preferenza per i meridiani inclinati nelle carte regionali che contraddiceva, come abbiamo visto, quanto prescritto dal geografo antico.
L’innovazione di Niccolò Germano doveva avere da subito suscitato reazioni negative, inducendo il cartografo a recarsi alla corte di Borso d’Este, dedicatario della sua edizione, per ottenere l’approvazione del suo operato. Pare evidente che la sua innovazione sia stata contestata proprio a Firenze, verosimilmente da Toscanelli stesso.
Non è poi un caso che le tavole che illustrano le Septe giornate della Geographia del fiorentino Francesco Berlinghieri, vale a dire la rielaborazione in terzine volgari del testo tolemaico, sia nei manoscritti sia nelle edizioni a stampa (Firenze 1482), presentino le tavole regionali nella tradizionale proiezione cilindrica, con l’aggiunta di quattro carte novelle. Malgrado Niccolò Germano vivesse e lavorasse a Firenze, è evidente che qui si preferì seguire la tradizione tolemaica più genuina, per quanto concerne le tavole, accettando soltanto la proiezione cosiddetta omeotera del mappamondo, poiché di fatto consigliata dal geografo alessandrino.
Si può dire quindi che nella Firenze ‘toscanelliana’ si optò per la fedeltà ai modelli antichi, seguendo in ciò la linea filologica esplicitata da Regiomontano, ma evidentemente approvata dai suoi arbitri, Toscanelli e Gaza. Una conferma di questa scelta ci viene non soltanto dai manoscritti della Geographia della tradizione più puramente fiorentina, ma anche e soprattutto dall’opera cartografica di quel Martelli che fu assai vicino a Germano, curandone gli interessi anche dopo la morte.
Il primo manoscritto della Geographia attribuito a Enrico Martelli (Biblioteca Apostolica Vaticana, cod. Vaticano lat. 7289), datato con fondati argomenti al 1480, è nella tradizione dei codici più antichi di Germano, con il mappamondo nella seconda proiezione e ventisei carte regionali in proiezione trapezoidale. Di Enrico conosciamo poi tre splendidi ‘isolari’ illustrati, che ampliano e integrano un’altra opera tipicamente fiorentina, il Liber insularum Archipelagi (1410- 1420) di Cristoforo Buondelmonti, nonché un celeberrimo e monumentale manoscritto della Geographia (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, cod. Magliabechiano XIII 16).
Del cartografo tedesco possediamo anche un manoscritto di lavoro (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 29. cod. 25) che contiene materiali preparatori, e inoltre, prima delle carte non comprese nel Liber di Buondelmonti, alcune introduzioni storico-geografiche il cui testo è tratto sia da autori antichi (Tacito, Plinio, Solino, Isidoro di Siviglia) sia da un’opera del papa Pio II, l’incompiuta Historia rerum ubique gestarum locorumque descriptio (più nota come Cosmographia; 1458-1461). Lo stesso accade nel grande manoscritto tolemaico della Nazionale di Firenze, dove le carte novelle, ben quattordici più una carta nautica, sono pure accompagnate da introduzioni. Questo aspetto dell’opera di Martelli si può ricondurre a una delle intenzioni manifestate da Regiomontano nel suo ‘programma’ del 1473-74, quello cioè di corredare le carte novelle con historiae tratte ex auctoribus plurimis (Malpangotto 2008, p. 152), una scelta che si colloca nella più squisita tradizione umanistica.
Ma soprattutto vanno sottolineate le caratteristiche del particolare planisfero, in una proiezione omeotera modificata, che figura all’interno del manoscritto Laurenziano e negli altri codici degli isolari. Questo planisfero si allontana da quelli tolemaici per l’inclusione della Groenlandia a Nord-Ovest della Norvegia, seguendo la carta di Claussøn Swart; per la conformazione dell’Asia, le cui coste settentrionali e orientali sono bagnate dal mare; per la conformazione del Mediterraneo, d’impronta nautica; e per la circumnavigabilità e i contorni costieri del continente africano.
Ancor più notevole, come aveva segnalato Roberto Almagià (1940, pp. 306-11), è la maggiore estensione in longitudine dell’ecumene, che dai 180° stabiliti da Tolomeo passa a circa 225°. La stima è approssimativa, mancando in questi planisferi l’indicazione dei gradi, ma è significativo che la longitudine dell’ecumene venga a raggiungere la misura in gradi fissata per la stessa da Marino di Tiro, un geografo di poco anteriore a Tolomeo, e da quest’ultimo criticata nella Geographia. Ma Martelli è andato oltre: nel celebre planisfero di Yale, una carta di grande formato conservata in un unico esemplare, vi è una cornice graduata che si estende fino a 270° di longitudine.
I mappamondi di Martelli, e in particolare quello di Yale, aumentando la longitudine dell’ecumene e riducendo di conseguenza il tratto di Oceano Atlantico da attraversare navigando verso Occidente, rendevano teoricamente possibile la traversata atlantica compiuta per la prima volta da Cristoforo Colombo. Sono le stesse premesse teoriche che pochi anni dopo avrebbero indotto ad affrontare l’Atlantico Amerigo Vespucci, forte delle conoscenze cartografiche a cui lo aveva introdotto lo zio, Giorgio Antonio Vespucci, e che saranno alla base della sua fortuna in terra iberica.
Tuttavia, se è vero che era già stato ipotizzato, sulla base di fonti antiche, scritturali (o pseudoscritturali) e medievali, un oceano che lambisse le coste dell’Africa e quelle dell’India – in modo particolare dal francese Pierre d’Ailly, il quale era giunto alla conclusione che la longitudine dell’ecumene fosse stata sottostimata da Tolomeo, tanto per citare un autore letto e postillato da Colombo –, è pur vero che fino al planisfero di Yale non era mai stata data una misura al tratto di mare da percorrere. Con un’eccezione, precedente l’opera cartografica di Martelli, vale a dire la già citata lettera di Toscanelli a Martins del 1474: qui la distanza da percorrere è esplicitata e si indicano anche le miglia che avrebbero diviso il Cipangu (Giappone) dalla città di Quinsay (Hangchou). Anche se si è molto discusso sulla corrispondenza miglio/grado della lettera di Toscanelli, certo è che la distanza da percorrere verso Occidente, una volta sottratta ai 360° della sfera terrestre la longitudine dell’ecumene, era drasticamente diminuita.
Ma soprattutto va sottolineato che questa maggiorazione della longitudine dell’ecumene e la sua circumnavigabilità non sono invenzioni quattrocentesche, ma tengono conto delle fonti antiche, di fonti più antiche dello stesso Tolomeo, come il Marino di Tiro da lui denigrato, e soprattutto Plinio (Naturalis historia, 2, 66-67). Si capisce allora come la crisi e il superamento della concezione tolemaica non potesse che nascere in ambiente umanistico, in virtù di quello stesso culto per l’antico che aveva portato alla riscoperta di Tolomeo. Ma ogni autore, secondo la migliore tradizione della filologia umanistica, deve essere confrontato con altre fonti, per saggiarne la veridicità. E in questo caso Tolomeo si era trovato isolato, proprio grazie ad autori, si pensi in particolare a Plinio, che in età umanistica vennero letti, riletti e vagliati pagina per pagina.
Allo stesso tempo non si potrà dimenticare come questo culto dell’antico non sia mai stato fine a se stesso. Lo studio della geografia a Firenze lascia trasparire sullo sfondo la ricerca di una via marina che unisca l’Occidente alle Indie delle spezie e delle gemme; così anche un famoso e fantomatico Archimede, il codice appartenuto a Rinuccio Aretino che fu in assoluto il più ricercato dagli umanisti agli inizi del 15° sec., non doveva contenere teoremi matematici, ma qualcosa di molto più pratico, visto il suo titolo (De instrumentis bellicis et aquaticis). E infine gli studi di botanica di un Ermolao Barbaro e di un Niccolò Leoniceno miravano dichiaratamente a una più corretta traduzione dei termini greci, per evitare di cadere in errori che potevano avere conseguenze anche fatali. In senso più lato, dietro la filologia umanistica spesso si scorgono fini pratici, si pensi soltanto alle battaglie di Valla contro i giuristi o al suo opuscolo sulla donazione dell’imperatore Costantino.
La riscoperta e la successiva critica a Tolomeo sono dunque entrambe figlie dell’Umanesimo. E forse non vi può essere esempio migliore di questo per comprendere l’essenza di una cultura nella quale le diverse discipline e i diversi autori venivano continuamente discussi e messi a confronto da personaggi che univano competenze attualmente ritenute tra loro lontane, portati come siamo a vedere la storia dal nostro punto di vista, giudicando e interpretando il passato con il metro del presente.
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Si veda inoltre:
Ch. Schuchard, Rezension von L. Böninger, Die deutsche Einwanderung nach Florenz im Spätmittelalter (2006), «Sehepunkte», 2007, 12, 7, http://sehepunkte.de/2007/ 12/13231.html (23 genn. 2013).