Umanesimo
Termine italiano forse ricalcato sul tedesco Humanismus, nell’accezione di privilegio riconosciuto agli studi classici (studia humanitatis) per l’educazione dell’uomo. In Germania la parola fu introdotta in questo senso, sembra, nel 1808, da Friedrich Emmanuel Niethammer, il grande amico di Hegel, riformatore dell’istruzione in Baviera, nel suo piano di studi intitolato Der Streit des Philanthropinismus und Humanismus in der Theorie des Erziehungsunterrichts unserer Zeit. Niethammer contrapponeva nel suo scritto la formazione classica come Philanthropinismus e Humanismus alla barbarie come Animalismus e Vandalismus. Il termine fu ripreso qualche decennio più tardi, con valore periodizzante, per indicare, nel Rinascimento, l’epoca specifica della ricerca e della scoperta del mondo antico, e più in partic. il ritrovamento e l’imitazione degli antichi soprattutto in sede letteraria. Compare, infatti, nel 1859, nella prima stesura del libro di Georg Voigt, Die Wiederbelebung des classischen Alterthums, oder das erste Jahrhundert des Humanismus, la cui seconda edizione ampliata (1880-81), tradotta in italiano da Diego Valbusa (Il Risorgimento dell’antichità classica ovvero il primo secolo dell’umanismo, 1888-90), rese familiare non solo la parola, ma il concetto che l’U. come fatto letterario ed erudito, ossia come scoperta degli scrittori greco-romani, dovesse considerarsi il momento iniziale, e la causa, del Rinascimento (inteso con Michelet e Burckhardt come scoperta del mondo e dell’uomo). Ben presto, tuttavia, con l’approfondimento e la critica delle impostazioni storiografiche dell’Ottocento, il termine è divenuto sempre più elastico ed equivoco.
Inteso genericamente come presenza dei classici e metodo educativo ispirato alla παιδεία antica (Aulo Gellio, Noctes Atticae, XIII, 57, aveva mostrato la corrispondenza di humanitas con παιδεία), non fu difficile ritrovare più di un ‘umanesimo’ medievale, dall’ordinamento delle scuole di Alcuino nell’età carolingia, al fiorire di interessi umanistici nel 12° sec., specialmente con la scuola di Chartres e con Giovanni di Salisbury. Anche i cosiddetti «secoli bui» e «barbari», infatti, leggevano Virgilio, Ovidio, Cicerone e Seneca; l’antichità fu sempre presente nel Medioevo, compresi gli dei pagani, la mitologia e tutte le favole antiche, sia pure in varie metamorfosi e travestimenti. Né è mancato chi, come Gilson (Humanisme médiéval et Renaissance, in Les idées et les lettres, 1932), ha rifiutato anche la riduzione dell’U. a puro fatto letterario («si mutila crudelmente l’U. quando si riduce al culto della forma per la forma, o quando si elimina il culto delle idee, da cui non è mai stato separato»). In tal modo l’U., in quanto concezione filosofica volta a rivendicare il valore dell’uomo sulla base delle posizioni metafisiche ed etico-politiche della Grecia classica, trova il suo coronamento proprio nel cristianesimo, pervade la patristica e trionfa nel 13° sec. con la ripresa di Aristotele e le nuove traduzioni dal greco. Perciò umanista sarebbe stato Tommaso d’Aquino (Jaeger, Humanism and theology, 1943), umanista Dante (A. Renaudet, Dante humaniste, 1952), U. la scolastica. La cosiddetta «rivolta dei medievalisti» (W.K. Ferguson, The Renaissance in historical thought, 1948), più ancora che la continuità, ha sottolineato una specie di U. eterno, variamente scandito secondo i rapporti stabiliti con la tradizione classica. L’antitesi con la scolastica non sussisterebbe in alcun modo: i temi tradizionalmente attribuiti all’U. (scoperta dell’uomo e della natura, dignità dell’uomo) si troverebbero già tutti nel Medioevo; la scienza e il pensiero moderno si ricollegherebbero solo al Medioevo saltando l’U. e il Rinascimento, inconsistenti sul piano teoretico, mentre, viceversa, sotto il profilo filosofico, l’U. sarebbe pervaso da elementi della scolastica (Kristeller) di cui proseguirebbe non solo l’aristotelismo, ma anche la tradizione platonica (Klibansky, The continuity of the platonic tradition during the middle ages, 1939).
Contemporaneamente allo spostamento dell’U. dal piano letterario a quello filosofico, e alla sua conseguente dilatazione, da più parti si è insistito sul carattere meramente retorico dell’U., anche se di una retorica ricca di temi e variamente interpretata, dalle opere di G. Toffanin fino a Rhetoric and phiosophy in Renaissance humanism (1968) di J.E. Seigel. Altri, invece, ha sottolineato come gli studia humanitatis indicassero le arti sermocinali, ossia lo studio linguistico e l’esegesi letteraria dei testi antichi, cosa ben diversa, anche sul piano dell’ordinamento degli studi, dalla filosofia naturale e dalla teologia (Kristeller). Proprio di qui, anzi, l’esigenza di dissipare sul piano storiografico gli equivoci provocati da posizioni filosofiche contemporanee, umanistiche perché rigorosamente immanentistiche, ricollocando in più esatta prospettiva la problematica dell’U. rinascimentale, facendo giustizia della stessa tendenza, già ottocentesca, a sopravvalutare spinte eretiche o, in genere, di critica religiosa (l’U. pagano di L. Pastor; l’U. antiscolastico e antichiesastico della storiografia italiana di matrice risorgimentale e di orientamento idealistico, da Gentile a Saitta). Non è mancato peraltro chi, riconoscendo la necessità di un uso preciso e differenziato del termine in sede storica, ha insistito altresì sulla complessità dei caratteri distintivi dell’U. rinascimentale. Col Trecento, con F. Petrarca, non varia solo il numero dei classici noti (opere oltre che latine, greche, e poi ebraiche e orientali in genere), né l’estensione dei campi (arti figurative, architettura, urbanistica, tecniche e scienze); varia il tipo del rapporto in cui ci si pone con l’antico, con i classici (che possono essere anche Dante o Petrarca); varia la funzione che si assegna al recupero e alla lettura; varia il modo di intendere l’imitazione. Questo U., insomma, non è da intendersi come il momento iniziale che determina il Rinascimento; esso, piuttosto, si colloca in una globale «metamorfosi» (E. Panofsky) che è assai più di un cambiamento di stati d’animo. Il fatto stesso che questo U. investa sempre più a fondo le arti, le scienze e il costume, dimostra che trascende di molto i confini di una riforma dell’ars dictandi, a cui qualcuno ha cercato di ricondurlo, almeno negli inizi, per presentarsi come una concezione generale, e originale, della realtà e della vita, anche se, nelle sue radici, resta collegato alla trasformazione, e alla crisi, delle città italiane, che negli ideali della πόλις credono di trovare un modello (che è poi lo spunto del concetto dell’U. civile svolto da H. Baron specialmente in The crisis of the early Italian Renaissance, 1955; ma non si dovranno dimenticare certi spunti sociologici di A. von Martin, nella sua Soziologie der Renaissance, 1932). Proprio per questo l’U. rinascimentale non può ridursi a un fatto ‘grammaticale’ e ‘retorico’, o all’esegesi dei testi latini e greci, o a una tentata restaurazione del latino ciceroniano contro il volgare (ciò, fra l’altro, non è vero sul terreno dei fatti). Sarà invece lecito parlare di un U. volgare, quale l’U. attivo di Machiavelli, di cui diceva L. Olschki nel suo Machiavelli the scientist (1943); e così pure di un U. pittorico, architettonico, filosofico: manifestazioni, tutte, del rinnovamento della cultura rinascimentale. Del resto, che l’U. rinascimentale non possa né ridursi ai concetti generici di senso dei valori umani, di individualismo e laicismo, e neppure confondersi con i preumanismi o i protoumanismi, ma consapevolmente si configuri assai presto «come uno specifico ideale culturale ed educativo» (Panofsky, Renaissance and renascences in Western art, 1960) risulta già a proposito del termine che lo designa, e per il quale, non a caso, conviene qui osservare qualcosa di analogo a quanto è stato rilevato a proposito di Rinascimento. Se la parola, infatti, non compare fino dal 15° sec. nella forma attuale, molto presto si incontrano espressioni che attestano la consapevolezza di programmi e di ideali precisi. Non è vero, cioè, quello che ebbe a dire ancora nel 1943 Jaeger, che si tratta di «un nome foggiato dagli storici ottocenteschi che studiarono gli umanisti del 15° e 16° sec.». A. Campana nel 1946, Kristeller nel 1950, e altri variamente, hanno documentato l’origine, l’uso e la diffusione del termine humanista già fra Quattrocento e Cinquecento. I maestri di ‘umanità’ si danno un nome parallelo ai maestri di diritto, delle arti, e così via, dimostrando una presa di coscienza della dignità propria e delle discipline che insegnano. Le dispute sulla dignità delle arti, fitte nella produzione umanistica soprattutto dei primi tempi, e impegnate in genere a rivendicare l’importanza delle arti del discorso, e più in generale di quelle che diremmo le scienze morali, mirano a sottolineare il significato, non solo della retorica e della dialettica, ma della morale e della politica, nonché della poesia. Significativamente insistono su un argomento che Galileo farà suo: la dignità di una disciplina non deriva dalla nobiltà del suo oggetto (la teologia da Dio), bensì dal rigore dei suoi procedimenti e dal grado di certezza che raggiunge. È chiaro che si delinea così un nuovo modo di concepire il sapere, che porterà, alla fine, a collocare non solo la matematica e la logica, ma anche la poesia e le arti, ben al di sopra della metafisica e della teologia. Ed è per questo che, già alla fine del 15° sec., troviamo l’orgogliosa affermazione essere l’umanista «homo universale» più del filosofo. Come si vede, anche sotto questo profilo, l’U., lungi dall’esserne l’avvio filologico, si innesta sul moto della Rinascita, di cui alimenta e caratterizza i valori ideali. La polemica, la prima di molte, di Albertino Mussato con fra Giovannino da Mantova, che nel primo Trecento pone a confronto poesia e teologia, di pagani e di cristiani, indica in realtà significativamente la priorità di orientamenti generali e di ideologie rispetto al recupero e allo studio dei testi, ossia all’U. filologico in senso proprio. Quest’ultimo, nato nel 14° sec., nel Nord, fra Padova, Verona e Vicenza, e in Toscana fra Arezzo e Firenze, esprimerà in Petrarca, esemplarmente, il suo nucleo ispiratore centrale: e cioè la consapevolezza che il nostro rapporto con il mondo – uomini, cose, eventi, idee – per cui siamo e ci facciamo, passa attraverso una somma di esperienze umane che si sostanzia: è mediato da altri. Di Petrarca è stato detto: «quel che scrive non si riveste solo di cultura, ma nasce dalla cultura: la letteratura ... è il tramite necessario attraverso il quale l’esperienza gli si tramuta in pensiero e in sentimento» (U. Bosco, Francesco Petrarca, 3ª ed. 1968). L’U. rinascimentale è in questa scoperta: che la natura dell’uomo è cultura. Scoperta non di un giorno, ma lenta e progressiva: attraverso la storicizzazione degli antichi (la scoperta dei codici, lo studio dei monumenti, l’analisi della lingua), la loro ‘imitazione’, il confronto con i moderni, la difesa dei moderni, il ritorno alla natura e alla realtà. È come una serie di cerchi concentrici nell’acqua, che si allargano sempre di più. È l’U. dai forti umori letterari che insegue i codici latini nei monasteri del Nord, fra i Concili di Costanza e Basilea (dopo Petrarca, G. Boccaccio e Salutati, P. Bracciolini, N. Niccoli, L. Bruni, A. Traversari e molti altri); è l’U. filologico che si alimenta del pensiero greco e della cognizione del greco, e che rigorizza la conoscenza critica dell’antico, mentre la filologia tende a una posizione egemonica fra le discipline umane, quasi assorbendole in sé (da Valla ad A. Poliziano, a Erasmo). È l’U. civile dei cancellieri, ed è l’U. pedagogico dei fondatori di scuole (quali Barzizza, Vittorino da Feltre, G. Guarini) e dei trattatisti (da P.P. Vergerio, F. Barbaro, M. Vegio a Erasmo, a Montaigne), che vogliono spiegare come le humanae litterae costruiscano l’uomo, e le arti liberali lo facciano libero: come l’imitazione del modello ‘umano’ (Bruni) determini una elaborazione originale e autonoma di sé a sé. È l’U. di F. Brunelleschi, e poi da L.B. Alberti a Palladio (R. Wittkower, Architectural principles in the age of Humanism, 1962); è I’U. dei pittori e degli scultori che comincia con lo studio delle «anticaglie», e dei trattati classici, per esprimere meglio sé medesimi, la realtà e la natura. È l’U. filosofico che è costretto a elaborare una teoria dell’uomo, e non solo della dignitas hominis (da G. Manetti a Pico della Mirandola, a Ch. de Bovelles), ma della sua costituzione, del suo posto nel cosmo, del suo rapporto con Dio (Cusano, Ficino, L. Vives), del suo destino e della sua funzione nella società. È l’U. di Montaigne che si fruga dentro («je suis moymesme la matjère de mon livre»), e trova sempre gli altri, e le voci degli antichi, che gli danno il senso della storia e della vanità della storia, della cultura e della sua varietà e fragilità, finché impara a vedere e ad apprezzare anche i cannibali, con i loro riti e la loro virtù, la loro natura che è anch’essa una cultura (Essais, I 31).Con questo non si è affatto dilatato di nuovo l’U. rinascimentale fino a svuotarlo di senso; si è mostrata, invece, una cosa tutta diversa, e cioè che l’U., ossia il senso della umanità della cultura e della storia conquistato nel confronto con le opere del passato, in tutta la loro varietà e i loro contrasti, in tutte le loro lacerazioni e i loro drammi, è un punto di partenza universale per un accesso razionalmente critico alla realtà intera. La dialettica natura-cultura che emerge dall’analisi del rapporto fra individuo e cosmo, fra macrocosmo e microcosmo, mostra nell’U. la inscindibilità dei due termini, rivelandone insieme la tensione, e il rischio ricorrente di privilegiare l’uno a danno dell’altro. Questo è stato il destino dell’idealismo, che dall’U. rinascimentale ha tratto origine, e delle conseguenti interpretazioni idealistiche di tanta moderna storiografia; così come è stato anche il destino del naturalismo, che pure ne è scaturito, e che ne ha alimentato altrettante visioni storiche. Lungo l’arco del suo sviluppo, e nei toni che assunse nei vari luoghi e tempi, l’U. rinascimentale si tinse di colori diversi. Già in Italia, alle origini, dove a Firenze e in Toscana fu diverso dal Veneto, da Bologna, dalla Lombardia, da Napoli. E fu diverso negli accenti in Erasmo, in Moro, in Montaigne, nella Germania agitata dalla Riforma. Così come si ridusse tanto spesso a U. retorico fra la fine del Cinquecento e il Seicento, pur conservando ancora tanta forza nelle istituzioni scolastiche e nelle discussioni retoriche, e non solo retoriche, dell’Europa moderna. La sua ispirazione, la sua influenza culturale, i suoi temi, avrebbero raggiunto in più campi – secondo la tesi di D. Cantimori e di D. Hay – il sec. 18°.