UMANESIMO
. Con questo nome si designa quel periodo letterario, culminante nel sec. XV, che corrisponde all'aspetto peculiarmente filologico del Rinascimento (v.): determinato dalla coscienza della necessità, in contrasto con le concezioni medievali, di ritornare all'arte e al pensiero antichi, per impedire che al tutto perissero - onde l'ansiosa ricerca dei codici di materia profana dimenticati nelle biblioteche monastiche - e quindi per restituire agli autori il loro aspetto genuino alterato dal tempo e dall'esegesi scolastica. L'Umanesimo mise capo alla riconquista di un sapere che si traducesse in una concreta attività dello spirito intesa a raggiungere quel perfetto svolgimento della personalità umana, nella coerenza del pensiero libero con l'azione, della bellezza con la moralità e la dottrina, dì che gli antichi avevano lasciato un esempio nelle opere letterarie e nella storia. Humanae literae si usarono chiamare nel Quattrocento le scritture degli antichi nel loro complesso; studia humanitatis, secondo l'espressione ciceroniana, l'aspirazione dei moderni ad assimilarsene lo spirito per rendersi moralmente migliori, intendendo l'humanitas nel senso appunto di "educazione".
Il destarsi di un così ardente interesse intorno all'antichità era a sua volta una conseguenza di quel grande risveglio di volontà fattiva e di virtù creatrice operatosi dopo il Mille in ogni campo dell'attività umana. Talché non è illegittimo parlare di un umanesimo medievale, in quanto sin dal sec. XII, e in parte anche nel XIII, esistettero scuole e maestri che si fecero centro e propugnacolo della battaglia in favore dei classici. Ed è ormai assodato che un risveglio della cultura latina si manifestò per tempo, e che l'azione dell'Umanesimo, se ebbe suo pieno e conclusivo sviluppo nel secolo XV, ed elesse a suo teatro l'Italia, fu preceduta però, in questa e in altre nazioni, da una lunga preparazione.
Il preumanesimo nel secoli XIII e XIV. - Le opinioni, generalmente accolte, di G. Voigt, di J. Burckhardt, di P. De Nolhac, i quali additano nel Petrarca il grande iniziatore dell'Umanesimo, sono oggi modificate dai risultati delle indagini di R. Sabbadini, che riportano sino al principio del sec. XIV gl'inizî del rinnovamento classico nel senso filologico, e ne fissano al settentrione d'Italia e d'Europa il punto di partenza. Il che spiega come, rotti o allentati i vincoli con la Magna Grecia e con la Sicilia, dove ancora si conservava la tradizione delle lettere greche, l'erudizione classica occidentale ridiventi unicamente latina. Questo movimento maturò simultaneamente e spontaneamente in Francia, in Inghilterra, in Germania e in Italia, ma ben presto, e nello stesso sec. XIV, trovò nell'Italia il suo centro d'organizzazione e di propulsione. La Francia ebbe il grande merito di mantener vivo l'entusiasmo per la ricerca della dottrina antica, come attestano sin dal sec. XIII i nomi di Geroud d'Abbeville, di Riccardo di Fournival, di Vincenzo di Beauvais; inoltre, essa fu un crogiolo in cui si formarono alcuni latinisti italiani come Roberto de' Bardi e Dionigi da S. Sepolcro, e dove confluirono, per il tramite della curia avignonese o di quella regia di Parigi, altri, come Raimondo Soprano, Giovanni Cavallini, Giovanni Colonna e Ambrogio de Miliis, che, iniziatisi agli studî in Italia, li ritemprarono a contatto della cultura francese, dandole a loro volta novello impulso. E tutti costoro erano ricercatori di codici, emendatori e postillatori, e alcuno di essi già palesava doti di critico avveduto delle sue fonti. La Francia può vantare in questo sec. XIV un Giovanni di Montreuil (1354-1418), filologo appassionato e instancabile, nonché fortunato ricercatore di codici ciceroniani, e un Nicola di Clémangis (1360-1437), che accoppiò a una estesa conoscenza della letteratura latina anche una certa sua virtuosità di stilista elegante. Anche in Inghilterra si ridestò per tempo, e indipendentemente, l'amore della cultura classica. Riccardo da Bury (1286-1345) è infatti una delle figure più importanti nella cultura europea di questo periodo, come infaticabile ricercatore di codici e come precorritore di quell'Umanesimo cristiano che la lettura dei classici difese, come mezzo per meglio combattere le dottrine del paganesimo. Non diversamente la Germania, che possedette un suo tesoro di libri antichi, e produsse bibliofili animati dal desiderio umanistico di rimetterli in valore. Insigne scopritore di codici fu Amplonio Ratinck (1365-1435), che faceva acquisto d'intere biblioteche, teneva a stipendio amanuensi proprî, e fece dono nel 1412 al collegio universitario di Erfurt della sua preziosa raccolta contenente anche classici greci tradotti e rarissimi codici di poeti latini. Lo superò, pur continuandone l'opera di raccoglitore, Niccolò da Cusa, che dal suo soggiorno in Padova nel 1423 ricevette forse l'impulso a più attive ricerche, e che ben presto felicemente scoprina i tesori bibliografici del duomo di Colonia, tra i quali il Plauto Orsiniano, proseguendo in seguito esplorazioni più vaste e rivelando al mondo umanistico opere antiche e medievali fino allora ignorate.
Anche in Italia il movimento partì dapprima dal settentrione. Tra il sec. XII e il XIV vissero in Verona alcuni oscuri bibliofili che rintracciarono e trascrissero autori allora ignoti e ricondussero in patria il conterraneo Catullo. Sopra tutti si eleva la figura di Guglielmo da Pastrengo (morto nel 1363), che dalla biblioteca capitolare di Verona trasse in luce una schiera di libri non facilmente allora accessibili o interamente nuovi, come le lettere di Plinio il Giovane, il De re rustica di Varrone e l'Historia Augusta. Nella vicina Padova, il giurista Lovato de' Lovati scrive un commento metrico alle tragedie di Seneca, e un notaio, Albertino Mussato, assomma nell'opera sua di poeta e di storico geniale i frutti dell'operosità costante della scuola padovana. Anche Milano e Pavia, allora centri della comune dominazione viscontea, vantarono un certo primato umanistico nella seconda metà del sec. XIV, quando Gian Galeazzo Visconti, spogliandone capitoli e archivî di altre città suddite o sottomesse, arricchì le sue biblioteche di rare collezioni. Appartiene alla scuola lombarda quel Benzo d'Alessandria (morto nel 1329) compilatore di una vasta enciclopedia storica concepita con criterî nuovi e materiata di una dottrina attinta di prima mano da fonti antiche. Egli può essere considerato il più genuino precursore italiano del Petrarca e di Poggio, non solo per la sete della ricerca, ma anche per la critica da lui esercitata sui documenti raccolti. Bologna ci presenta un canonista di vasta cultura letteraria, Giovanni d'Andrea, ma essa ebbe il merito d'incoraggiare l'attività di Giovanni del Virgilio, che all'opera di primo biografo, nel senso umanistico, e di pubblico espositore di Ovidio, accoppia un'alta consapevolezza della poesia latina come meta di vagheggiata perfezione da riconquistare. Questi primi umanisti appaiono ancora legati alla civiltà medievale, ma gradatamente si fa esplicita in essi quella consapevolezza del distacco tra il presente e l'antico che in Italia, favorita dall'avvento del laicato nella civiltà comunale, maturò più rapidamente che altrove.
L'avvento dell'Umanesimo italiano. - Nella grande individualità del Petrarca il movimento si polarizza: le idealità, una volta separatamente e quasi frammentariamente perseguite, trovano espressione intera, e si traducono in vivente realtà. Vero iniziatore della letteratura umanistica nell'epopea latina, nell'epistolografia in versi e in prosa, nella biografia, nella poesia bucolica, il Petrarca fu anche grande filologo e ricercatore di codici. Se come scopritore i suoi successi forse si limitano a due orazioni e alle epistole Ad Atticum di Cicerone, come bibliofilo egli riuscì a radunare la più ricca biblioteca classica dei suoi tempi. Circondato così dagli autori prediletti, il Petrarca col suo entusiasmo li accostava al suo spirito quasi fossero vivi, apprezzandone le virtù ma non risparmiando il biasimo alle loro umane debolezze. E una vera società si forma intorno a lui, della quale fanno parte Barbato di Sulmona, Giovanni Barrili, Moggio dei Moggi parmense, i toscani Donato Albanzani, Francesco Nelli, Zanobi da Strada, Lapo da Castiglionchio il Vecchio; Giovanni Conversino da Ravenna, Pellegrino Zambeccari bolognese, Paolo de Bernardo veneziano, e anche molti stranieri. Nel seno di essa una figura emerge: quella del Boccaccio. Se il Petrarca gli fu maestro nell'indagine filologica, egli ne superò di gran lunga i meriti come scopritore di codici e come promotore di studî greci. Possedette Marziale con integro probabilmente il libro degli Spectacula, scoprì il codice di Tacito (Mediceo II) da lui sottratto alla biblioteca di Montecassino, un Ausonio completo, e il De lingua latina di Varrone, e inoltre il commento staziano di Lattanzio Placido, l'Ibis di Ovidio, l'Expositio di Fulgenzio, alcuni poemetti dell'Appendix Virgiliana, la collezione degli 80 Priapeia, e forse l'intero corpo delle Verrine di Cicerone. Nel campo ellenico, se poco di greco riuscì ad apprendere, pure non badò a sacrifici per avere da Leonzio Pilato una traduzione latina d'Omero; ma quello che più importa è l'atteggiamento suo verso la grecità, ben differente da quello del Petrarca, il quale era persuaso, sulla fede di Cicerone, dell'assoluta superiorità della letteratura latina sulla greca, mentre il Boccaccio era convinto che i Latini non erano riusciti ad assimilarsi e a trasmettere tutto il sapere ellenico.
Lo spirito rinnovatore dalle sfere umanistiche scorre e si diffonde nella scuola: Benvenuto da Imola, se ancora è intriso di modi medievali, già nella sua individualità palesa uno spirito di autonomia critica, di polemica, di revisionismo della tradizione che soprattutto appare nei suoi commenti antiserviani alle Bucoliche e Georgiche di Virgilio. Certo egli non fu filologo e umanista intero come l'amico suo Coluccio Salutati, il quale trasse preziosi apografi da codici rarissimi, e ne possedette per primo, come le epistole Ad Familiares di Cicerone, il De Agricultura di Catone e gli Aratea di Germanico. Ma col Salutati si può dire comincino a farsi sentire nella vita gli effetti della risuscitata educazione umanistica. Egli stesso, cancelliere fiorentino, introduce l'eloquenza antica nella politica, mentre Luigi Marsili, opinando che i detti degli antichi siano altrettanto utili delle massime dei santi a rafforzare la fede, la porta sul pulpito, donde risuona non diversamente che nelle aule dello Studio dove già la professava Giovanni Malpaghini. Le polemiche contro le opposizioni dei circoli religiosi sono vittoriosamente superate dagli umanisti. L'antichità non diventa una moda, ma una regola e una legge. Dal breve orizzonte comunale le menti corrono al confronto con l'universalità dell'impero romano, dall'idioma volgare, ristretto alla cerchia delle mura, alla regale armonia del latino, il linguaggio che dovunque s'estende e che dura in eterno. La sete di ricerca si fa più ardente, perché tutte le antichità sono considerate tesori: i libri soprattutto, ma anche le medaglie, le monete, i frammenti marmorei e le iscrizioni antiche. Si aprono biblioteche e si fondano nuove cattedre di studî profani a cui accorrono indistintamente giovani e vecchi. Nel 1396 s'inaugura con Manuele Crisolora l'insegnamento ufficiale del greco in Firenze. L'Italia riprende il perduto prestigio nelle lettere classiche. Nel suo convento di Santo Spirito, il pio Marsili raduna in una libera scuola tutti coloro che desiderano discutere, tra i primi Giannozzo Manetti; e nella villa di Antonio Alberti chiamata il Paradiso si conversa di cose antiche, alternando i canti, i giuochi e il dolce novellare.
L'Umanesimo fiorentino trovò il suo patrono in Cosimo de' Medici; Niccolò Niccoli, mercante, ne divenne l'antiquario impareggiabile. L'aretino Leonardo Bruni per i suoi meriti di scrittore sale a cancelliere della repubblica, di cui sarà lo storiografo latino più eloquente e insieme più serenamente critico. Gli succederà nella carica l'amico Carlo Marsuppini, mentre Ambrogio Traversari indirizza le ricerche ai monasteri: lo aiuta un giovane entusiasta, Tommaso Parentucelli, futuro papa Niccolò V. Ma il principe degli scopritori e degli umanisti di questo tempo fu Poggio Bracciolini, che dalle biblioteche dei monasteri di Cluny e di San Gallo trasse in luce molte orazioni di Cicerone affatto nuove, l'Argonautica di Flacco, le Silvae di Stazio, un Quintiliano integro; e rintracciò in Inghilterra frammenti di Petronio. L'Umanesimo intorno a Poggio si espande in una vita rigogliosa; gli umanisti sono chiamati agli uffici della repubblica, i loro tratti immortalati da pittori e scultori. A Firenze accorre anche Ciriaco d'Ancona, vero scopritore della scienza antiquaria, che da mercante si fece umanista e nei suoi ripetuti viaggi in Grecia, in Egitto, registrò ruderi, monumenti e iscrizioni in gran numero, acquistando in Oriente, per sovvenzioni di Cosimo, tesori di libri da spedire in Italia. La cultura umanistica si diffonde, e, se prima i dotti erano anche copisti, poi si resero necessarie officine di trascrittori; di grandissima fama tra esse quella di Vespasiano da Bisticci.
Milano, la città dove il Petrarca aveva lasciato un'orma non passeggera, conobbe anch'essa splendori umanistici. Vi troviamo Antonio Loschi, Uberto Decembrio, suo figlio Pier Candido, Maffeo Vegio - i quali due ultimi rivaleggiano nell'ambizioso appunto di farsi continuatori di Virgilio -, Gasparino Barzizza che dalla cattedra di Pavia legge i Latini, mentre il Crisolora i suoi Greci. Nel 1429 viene chiamato il Panormita, e nel '31 il Valla. E nel 1439 arriva anche Francesco Filelfo, che eserciterà un profondo influsso sulla cultura lombarda: per suo impulso il prestigio del sapere si apre il varco tra le rozze consuetudini militaresche, e la corte di Ludovico il Moro vede fiorire una numerosa schiera di letterati, tra i quali emerge Giorgio Merula, commentatore di Cicerone, editore di Marziale, di Plinio, di Virgilio, di Plauto, scrittore fecondo e ammirato; il suo nome va legato alla clamorosa scoperta dei codici di Bobbio nel 1493, che restituì un numero cospicuo di opere antiche.
In Venezia, se vi è una classe dirigente che s'intende solo dei suoi negozî, ve n'ha un'altra nella quale la dottrina è un retaggio di famiglia: sono le case degli Zeno, dei Foscarini, dei Giustinian, dei Barbaro, dalla quale ultima sorge Ermolao, che leggeva Aristotele alla gioventù patrizia, criticava il testo di Plinio, e serviva anche la repubblica come ambasciatore. Ma certo la caratteristica saliente dell'Umanesimo veneziano è nella funzione pratica che assegnò alle lettere, facendone un mezzo perfetto di educazione. E veneti sono tutti i più insigni educatori del tempo, da P. P. Vergerio il Vecchio a Guarino Guarini, che allevò una generazione intera di umanisti e fece di Ferrara un centro di studî e di poesia, al suo discepolo Vittorino da Feltre che in Mantova alimentò una nuova vita letteraria.
Quando l'Umanesimo, fatto adulto, entrò a Roma, la città giaceva ancora in preda alla desolazione del lungo abbandono. La Chiesa, finalmente reduce da Avignone, ritorna alle sue pompe, e apre le porte al latino umanistico, chiama alla Curia l'un dopo l'altro tutti gli umanisti più eloquenti. Sorge così l'archeologia romana nel De varietate fortunae di Poggio, nella Descriptio urbis Romae di L. B. Alberti, nella Roma instaurata e nella Roma triumphans di Fl. Biondo, nel De antiquitatibus Romae di P. Leto. Il mecenatismo dei papi concedeva la maggiore autonomia ai suoi letterati, onde si comprende come in questo ambiente potesse affermarsi la personalità più dialettica e indipendente di tutto l'Umanesimo: quella di Lorenzo Valla, che a Roma spende tutto il suo multiforme ingegno e sapere nelle focose polemiche, nelle pubbliche lezioni alla Sapienza, e nelle traduzioni di testi greci e latini. Regnando Pio II, il Bessarione apre un'accademia nel suo palazzo, cui confluisce la vita dei profughi greci; nel 1467 una prima stamperia trova asilo nel palazzo dei Massimo. Al Valla, morto nel 1458, succede Pomponio Leto, che tutto rapito nel gran fascino di Roma, circondato da una schiera di discepoli e quasi d'iniziati, vive in spirito con un passato eroico, e nella sua Accademia Romana ripristina riti e costumanze antiche che gli attirano sospetti e persecuzioni. Ma Roma era ormai permeata di spirito pagano, e l'Umanesimo non tarderà a diventare strumento del papato.
A Napoli presso re Alfonso d'Aragona, che non badava a spese pur di circondarsi di libri e di letterati, il Valla e altri trovarono leale appoggio, e gli elogi al principe magnanimo risonavano nel bel latino dei suoi numerosi protetti. Tra i quali è Antonio Beccadelli, il Panormita, che fece della corte un convegno di umanisti, e creò la gloriosa accademia destinata a prendere il nome da un astro che allora sorgeva: Giovanni Pontano. Questi darà vita poetica alle concezioni più paganamente sorridenti e plastiche della risorta lirica; mentre Iacopo Sannazzaro canterà virgilianamente gl'incanti del golfo. Così Napoli può dire di aver dato i natali alla più bella poesia umanistica del secolo. Poesia ben superiore per ispirazione a quella che nella corte di Rimini incensava Sigismondo Malatesta per opera di Basinio Basini e del Porcellio.
Firenze fu, come abbiamo visto, la prima ad accogliere gli studî ellenici. L'arrivo del Crisolora suscitò una vera febbre in tutti i latinisti: Salutati, Bruni, Poggio, Traversari accorrono alle sue lezioni. Per studiare il greco si recano a Bisanzio Guarino e il Filelfo, e al loro ritorno sono chiamati a Firenze. Giorgio Aurispa, il bibliografo più illustre del suo secolo, reca dall'Oriente una prima collezione di autori greci, e ne fa un sapiente commercio con il Niccoli, il Traversari e altri. Il Filelfo vi legge ormai (1429) Omero, Tucidide e Senofonte. Ma il progresso dell'ellenismo fiorentino doveva ricevere il massimo incremento quando nel 1439 si trasferì in Firenze il concilio ecumenico. Al seguito dell'imperatore Giovanni Paleologo, sfilò per le vie della città il corteggio dei sapienti che l'accompagnavano, tra i quali Giorgio Gemisto Pletone e il suo discepolo, il futuro cardinale Bessarione, due personaggi destinati a diffondere in Firenze e in Italia il pensiero greco. Sulle ali del suo idealismo Pletone sollevava l'uditorio a comprendere la parola di Platone, mentre criticava la filosofia di Aristotele in tutti i suoi aspetti (1439). Gli rispose in difesa dello Stagirita un altro greco, Giorgio di Trebisonda, e la polemica si protrasse per trent'anni, determinando infine l'intervento del Bessarione con la famosa opera In calumniatorem Platonis (1469). Fu poi chiamato in Firenze (1457) Giovanni Argiropulo, a illustrare nel testo greco le dottrine di quei filosofi, e dopo di lui Demetrio Calcondila, che vi mise anche a stampa la prima edizione di Omero (1488). Effetto di tutto ciò fu la costituzione dell'Accademia Fiorentina, che raccoglieva non solo i fedeli di Platone, ma filosofi d'altra scuola, letterati, giuristi, poeti, scienziati. L'accademia espresse dal suo seno l'uomo che ne fu l'anima, Marsilio Ficino, prima e vera figura di pensatore che, noncurante della facondia, scrive un latino grosso ma concettoso e logicamente stringato, e che nella vita si tormenta per raggiungere il pieno accordo dei principî con gli atti; e accolse altresì la pensosa figura di Pico della Mirandola, il primo vero orientalista dell'Umanesimo italiano, e ascoltò l'ermeneutica virgiliana di Cristoforo Landino, intessuta di platoniche allegorie. Ma anche nel resto d'Italia la conoscenza del greco era ormai parte essenziale della cultura: nel 1476 si stampa in Milano la prima grammatica greca, e Costantino Lascaris ne tiene pubblico insegnamento. A Venezia Ermolao Barbaro legge pubblicamente Aristotele e Teocrito, a Ferrara Tito Vespasiano Strozzi e suo figlio Ercole dettano versi greci, e in Roma stessa, auspice Niccolò V, si concepisce il piano di una vasta biblioteca greca tradotta in latino.
L'Umanesimo operò un generale rinnovamento in tutti i rami del sapere classico. Raddrizzata, anzi creata, l'ortografia, lo studio dei problemi sintattici sale rapidamente dalle ancora empiriche Regulae di Guarino (1418) alle geniali Elegantiae del Valla (1444), e, per il greco, dagli Erotemata catechistici del Crisolora e dai brevi testi bilingui, alle traduzioni dei suoi scolari Guarino e Bruni. E la traduzione poté essere o "letterale" e quasi interlineare, come quella omerica di Leonzio Pilato, oppure "oratoria" cioè libera al punto da consentire gli eccessi di abbreviazioni, come nella Ciropedia del Poggio, o di amplificazioni, come nel Cicero novus del Bruni, dove alla biografia di Plutarco, ristretta, sono innestate altre fonti. Grande sviluppo diede l'Umanesimo all'apprendimento a memoria di vocaboli, ma non mancarono i lessici. Esistevano spicilegi e zibaldoni privati che ogni dotto faceva per suo proprio uso, ma furono compilati anche veri e proprî lessici, come quello greco di Guarino, ora perduto, l'Orthographia di G. Barzizza, i Commentaria grammatica di G. Tortello (1449) a cui tenne dietro il De imitatione di Antonio da Rho, ampia enciclopedia grammaticale. E già prima della fine del sec. XIV s'era avuto un lessico di persone e di cose: il Fons memorabilium di Domenico di Bandino.
Oltre che scoprire gli autori, gli umanisti li interpretavano dalla cattedra e tenevano veri e proprî corsi, chiamando sé stessi lectores. Quanto alla critica esercitata dagli umanisti sugli autori, essa si manifestò di preferenza nella forma dei confronti; ma il loro terreno d'elezione era quello della critica formale, nel rilevare polemicamente vizî grammaticali e stilistici altrui. Con l'Actius del Pontano si sale a un tentativo di critica estetica, la cui sostanza è però mero formalismo impressionistico. Nella critica del testo mancò agli umanisti il metodo, e solo col Poliziano si potrà parlare di una vera critica testuale.
La perfezione dello stile era la somma aspirazione degli umanisti, che soltanto a questo fine s'erano occupati d'ortografia e di grammatica, tanto che sarebbe stata per essi un'onta essere chiamati grammatici. Oratori soprattutto volevano essere e invidiati trovatori di belle frasi. Il latino del Petrarca aveva ancora qualche cosa di acerbo e di pesante, ma già s'ispirava al modello di Cicerone, dal quale muove il Salutati che riesce così nuovo ai suoi tempi. Poggio, malgrado la scarsa correttezza, e forse proprio per questa, scrive un latino fluido, facile e abbondante. Dopo di lui lo scrivere per gli umanisti è soltanto palestra di bello stile, e troppo spesso si rinunzia al pensiero per raggiungere il colmo dell'imitazione ciceroniana.
Grande conquista dell'Umanesimo fu invece, come si è detto, lo spirito critico e l'affermazione del principio di libero esame. Nell'intraprendere il disegno delle sue Decades, Flavio Biondo fu d'una grande audacia: erano l'amore del vero, lo spirito della ricerca, il piacere della ctitica, le molle che lo spingevano ad affrontare una storia di secoli oscuri e barbari, a rompere il silenzio di un millennio di Medioevo. Ma col Biondo s'inizia una nuova era nelle scienze storiche, quella non più della storia d'apparato, dell'opus oratorium, ma della critica storica, condotta sulla ricerca, lo studio e la comparazione delle fonti. All'ossequio servile, all'abdicazione a ogni personalità di giudizio, succede ora la reazione del Valla, di questo spregiudieato assertore dei diritti della ragione contro i luoghi comuni, i principî tradizionali, la morale costituita. Alle vuote frasi dello stoicismo contemporaneo egli contrappone i diritti dell'epicureismo nel De voluptate, al latino impressionistico e fatto a orecchio sostituisce con le sue Elegantiae il vero latino che muove da una conoscenza ragionata dei testi, alla credulità degli uni e alla malafede degli altri oppone l'opuscolo sulla donazione di Costantino, nel quale tutti i sussidî della filologia e della storia sono mirabilmente usati nella stringente demolizione della leggenda. Col Valla si compie il progresso dalla concezione umanistica del bello stile a quella superiore della filologia concepita come valido strumento della critica.
Nella poesia latina l'Umanesimo toccò l'apice della squisitezza e della sincerità nei componimenti di breve respiro, tutti fatti di leggerezza e di sorriso, di rapidità e di grazia. Al posto dei pretensiosi poemi epici, sotto l'influsso della grecità, una poesia più calma e serena si diffonde: sono ecloghe, odi, elegie, epigrammi, come le cose più felici del Pontano, del Sannazzaro, dello Spagnoli, dello Strozzi e gl'inni paganissimi di Michele Marullo. In particolare a Firenze, all'ombra di Lorenzo il Magnifico, la poesia, nutrita di succhi ellenici, schiudeva i fiori più olezzanti e vivaci. Angelo Poliziano fu il poeta che riassunse, contemperandole nell'equilibrio proprio della perfezione, tutte le doti del maturo Umanesimo italiano. Ma più che poeta, egli stesso si sentì erudito. Dallo Studio impartisce l'eloquenza latina e greca, o, per dir meglio, insegna la critica nel senso filologico; i suoi Miscellanea segnano perciò un punto d'arrivo, sostituiscono al commentario prolisso, e spesso mal fondato, una critica breve, in forma incisiva e fredda, che tende al raggiungimento della certezza scientifica. Ormai la poesia sarà rigorosamente separata dalla critica, e avremo dei filologi puri come B. della Fonte, B. Rucellai, Domizio Calderini, Paolo Cortese, Urceo Codro, Filippo Beroaldo, non più scopritori né copisti di codici, ma proti e editori, saldamente preparati ad assolvere il compito di preservare e diffondere, mediante l'industria nascente della stampa, i tesori che il primo Umanesimo aveva salvati dalla perdizione.
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