Unione europea
Un’impresa impegnativa, ancora da completare
Le radici ideali dell’unione dei venticinque Stati europei (Unione europea) risalgono alla Prima guerra mondiale e quelle istituzionali al periodo immediatamente seguente la fine del secondo conflitto mondiale. Dotata di propri strumenti di governo centrale e di un suo Parlamento, l’Unione si trova in una condizione intermedia per cui non è una federazione come gli Stati Uniti e neppure una semplice confederazione di Stati autonomi
L’ideale dell’unione degli Stati europei è riconducibile alla fine del 18° secolo. Tra i suoi ispiratori vi furono Immanuel Kant, che teorizzò una lega delle nazioni in grado di assicurare la «pace perpetua», e (nella prima metà del 19° secolo) Claude-Henri Saint-Simon e Augustin Thierry, i quali – reagendo alle guerre europee dell’età della Rivoluzione francese e di Napoleone – elaborarono un piano di riorganizzazione della società europea.
Successivamente, nel corso del 19° secolo, contribuirono a definire questo progetto ideale anche Giuseppe Mazzini e Carlo Cattaneo, che auspicò la formazione degli Stati Uniti d’Europa.
Fu, però, la Prima guerra mondiale, causa della più terribile lacerazione che avesse mai colpito il continente in età moderna, a dare un decisivo impulso all’europeismo. Un apporto essenziale nel promuoverlo venne dato da Luigi Einaudi, Giovanni Agnelli e Attilio Cabiati. Essi sostennero che il male della guerra poteva essere superato nel Vecchio Continente solo dalla federazione degli Stati europei e non già semplicemente da una Società delle Nazioni quale quella attuata nel 1919, dominata dalle grandi potenze. Anche il bolscevico Lev D. Trockij aderì al progetto degli Stati Uniti d’Europa.
Negli anni Venti del Novecento l’ideale europeista e federalista venne riproposto da vari intellettuali e uomini politici, tra cui il conte ungherese Coudenhove-Kalergi, lo statista francese Aristide Briand e lo studioso inglese Lionel Robbins. Sennonché, nel periodo tra le due guerre mondiali, segnato dalla ripresa virulenta dei nazionalismi e dai conflitti imperialistici, esso non trovò alcuna udienza e traduzione concreta.
Fu necessario attendere la nuova terribile lacerazione del tessuto politico europeo costituita dalla Seconda guerra mondiale perché l’ideale della federazione riprendesse vigore. Una delle maggiori espressioni del suo rilancio fu la stesura nel 1941 da parte di due antifascisti italiani, Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, del Manifesto di Ventotene – così detto dalla località in cui gli autori si trovavano confinati dal regime fascista –, nel quale essi contrapponevano ai totalitarismi e ai loro progetti espansionistici un progetto di Stati Uniti d’Europa fondato sull’integrazione politica ed economica. All’impulso venuto da questo testo è da ricondurre la fondazione a Milano nel 1943, subito dopo il crollo del regime fascista, del Movimento italiano per la federazione europea.
Usciti dalla catastrofe bellica, i maggiori Stati europei oscillavano tra la volontà di preservare la propria piena sovranità e quella di stabilire nuove forme di cooperazione che fossero in grado di assicurare la pace e promuovere la ricostruzione economica del continente. In quel contesto, nel maggio del 1948, ebbe luogo il Congresso dell’Aia, presieduto da Winston Churchill, con la partecipazione di personalità come Konrad Adenauer, Léon Blum, Alcide De Gasperi, Anthony Eden, François Mitterrand, Jean Monnet e Altiero Spinelli. Dalle proposte – spesso non solo diverse, ma persino contrapposte – sarebbe uscito nel gennaio 1949 un compromesso che stabiliva la formazione di un Consiglio d’Europa, a sua volta costituito da un Comitato di ministri e da un’Assemblea con funzioni consultive composti da rappresentanti dei singoli Stati.
Lo statuto del Consiglio fu firmato il 5 maggio dello stesso anno. A Strasburgo si riunì per la prima volta l’Assemblea con delegati dei Parlamenti di Francia, Italia, Paesi Bassi, Belgio, Gran Bretagna, Irlanda, Danimarca, Lussemburgo, Norvegia e Svezia. Nel 1948 aveva preso vita l’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE), con il fine di coordinare le politiche degli Stati che aderivano al piano Marshall varato dagli Stati Uniti per promuovere la ricostruzione dell’Europa. Nel 1951 fu firmato un trattato che dava l’avvio alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA).
Nel clima della guerra fredda, che ormai contrapponeva il campo occidentale egemonizzato dagli Stati Uniti al campo orientale, dominato dall’Unione Sovietica, venne posto il problema della costituzione di un esercito europeo. Già nel marzo 1948 Francia, Gran Bretagna, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo avevano firmato un’alleanza militare, l’Unione dell’Europa occidentale (UEO).
L’iniziativa di dar vita a un esercito comune partì dalla Francia nel 1950 e portò, nel maggio 1952, alla firma di un trattato, da sottoporre all’approvazione dei singoli parlamenti nazionali, con il quale si prevedeva la formazione di una Comunità europea di difesa (CED), ma anche di un’unione degli Stati aderenti a carattere confederale o al limite federale. Il maggiore impulso a procedere nella direzione di un governo europeo venne dall’italiano Alcide De Gasperi e dal belga Paul-Henri Spaak.
La CED venne affondata nell’agosto 1954 quando il Parlamento francese, con la convergenza dei nazionalisti gollisti e dei comunisti timorosi del riarmo della Germania Federale, pur in un contesto europeo, rifiutò di ratificarla. La conseguenza fu che il proposito di andare verso un’unione politica degli Stati europei venne congelato.
Dopo l’abbandono della CED, l’integrazione assunse un indirizzo di carattere essenzialmente economico e funzionalista, ovvero rivolto a soluzioni funzionali ai problemi comuni. Una conferenza tenuta a Messina nel 1955 aprì la strada a due trattati che furono firmati a Roma nel marzo 1957: il primo dava vita alla Comunità economica europea (CEE), il secondo alla Comunità europea per l’energia atomica (Euratom). Le due comunità sarebbero state dirette da una Commissione, avente il proprio esecutivo in un Consiglio dei ministri in rappresentanza degli Stati aderenti: Francia, Germania Federale, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo, che diedero così vita all’Europa dei Sei. Si stabiliva inoltre la costituzione di un Parlamento europeo con sede a Strasburgo, dotato di compiti essenzialmente consultivi e di una Corte di giustizia preposta a giudicare della legittimità degli atti e a dirimere le controversie.
Il Mercato comune europeo (MEC), entrato in vigore nel gennaio 1958, stabiliva il graduale abbassamento delle tariffe doganali fino alla libera circolazione delle merci, l’adozione di tariffe comuni verso i paesi esterni, la libera circolazione della forza lavoro e dei capitali, il coordinamento delle politiche agricole e dei trasporti dei paesi membri.
Alla CEE rimase estranea la Gran Bretagna, i cui tentativi di aderirvi successivamente, nel 1961 e nel 1967, furono frustrati dall’opposizione della Francia di Charles de Gaulle, che la considerava troppo subalterna agli Stati Uniti in politica estera.
Nel 1965 le commissioni esecutive della CECA, della CEE e dell’Euratom si fusero stabilendo la propria sede a Bruxelles e nel 1968 vennero abolite le dogane interne per i prodotti industriali, mentre i contrastanti interessi in materia di agricoltura resero impossibili accordi che portassero a una reale integrazione del settore. Nel 1973 la Comunità allargò in maniera consistente la propria area con l’ingresso di Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca così da formare l’Europa dei Nove, per arrivare all’Europa dei Dodici in seguito all’adesione – dopo la caduta dei regimi autoritari di destra al potere in questi paesi – della Grecia nel 1981 e della Spagna e del Portogallo nel 1986.
Alla conferenza dell’Aia del 1969 i paesi aderenti alla CEE avevano concordato di procedere ulteriormente verso un’integrazione anche monetaria. Fu però necessario attendere la fine del 1978 perché si arrivasse all’approvazione del Sistema monetario europeo (SME), entrato in vigore l’anno successivo, con il quale venne fissata una banda concordata di oscillazione dei cambi delle varie monete nazionali.
Nel frattempo era stato compiuto nel 1974 a Parigi un passo importante nella direzione della integrazione politica della CEE, con una doppia decisione: fu stabilito innanzi tutto di dar luogo a incontri regolari dei ministri degli Esteri e alla formazione di un Consiglio europeo costituito dai capi di Stato e di governo, vincolato nelle decisioni al principio dell’unanimità.
Fu deciso altresì sia di far eleggere a suffragio universale ogni cinque anni il Parlamento europeo (però con poteri solo consultivi), con sede a Strasburgo, così da dare al processo di integrazione una nuova legittimazione democratica.
Il Parlamento venne eletto per la prima volta nel 1979. Nel 1984 esso approvò «il progetto di trattato istituente l’Unione europea» promosso da Altiero Spinelli e avente come finalità il federalismo. Una conferenza tenuta a Milano nel luglio 1987 varò l’Atto unico europeo, in base al quale la Comunità avrebbe assunto la responsabilità per quanto atteneva alle politiche regionali e ambientali e alla ricerca scientifica e tecnologica; sarebbero così cadute le ultime barriere poste alla circolazione dei capitali e degli investimenti.
Il processo di integrazione europea fin dall’inizio aveva avuto una forte componente ideologica, finalizzata a un esito federalista. Alla sua attuazione, tuttavia, si erano sistematicamente opposte – e con successo – le resistenze dei singoli Stati desiderosi di non cedere gli attributi fondamentali della sovranità a un governo e a un Parlamento centrali.
Negli anni Sessanta un freno decisivo era stato posto dal generale de Gaulle, il quale, geloso della sovranità della Francia, aveva auspicato la nascita di una «Europa delle patrie», autonoma dagli Stati Uniti e fortemente coordinata sul piano militare ma imperniata su un asse franco-tedesco e unita da vincoli istituzionali di tipo debolmente confederale.
Dal canto suo la Gran Bretagna, impegnata a tutelare il suo rapporto privilegiato con gli Stati Uniti e gli Stati associati nel Commonwealth, si era sempre mostrata ostile all’unità politica dell’Europa.
Questa ostilità toccò l’apice durante i governi conservatori di Margaret Thatcher. Allorché nel 1989 Jacques Delors, presidente della Commissione europea, ipotizzò a Strasburgo di fronte al Parlamento la possibilità che la Comunità si desse «un embrione di governo», Thatcher respinse nettamente una simile prospettiva, così come espresse il proprio totale disaccordo circa l’adozione di una comune Carta dei diritti sociali dei lavoratori europei, in quanto da lei considerata in stridente contraddizione con i principi dell’indirizzo neoconservatore e neoliberista del suo governo.
Un orizzonte completamente nuovo per la Comunità europea si è aperto tra il 1989 e il 1991 con il crollo dei regimi comunisti dell’Europa Orientale, la conseguente riunificazione della Germania e la fine dell’Unione Sovietica in diversi Stati.
La Comunità era infatti nata e si era sviluppata con lo scopo di salvaguardare la pace tra gli Stati membri e favorirne la progressiva integrazione economica nel contesto della contrapposizione tra mondo occidentale e mondo comunista, tra paesi liberi del continente e paesi sottoposti alla dittatura comunista.
Con il 1989 si apre una nuova era, nella quale la Comunità si pone il compito di ripensare il proprio ruolo in un quadro europeo completamente mutato, con la prospettiva per un verso di allargare a Est le proprie frontiere, per l’altro di dare un’accelerazione all’integrazione. Al vertice tenutosi a Dublino nell’aprile 1990 il Consiglio europeo ha convenuto sulla necessità sia di inserire saldamente la Germania unificata nella Comunità, di rafforzare i poteri del Parlamento e delle istituzioni comunitarie sia di dare concretezza all’unione monetaria.
Il trattato firmato il 7 febbraio 1992 a Maastricht ed entrato in vigore nel novembre 1993 ha posto all’ordine del giorno la costituzione di una moneta unica e di una Banca centrale europea, una comune politica estera e della sicurezza, l’istituzione della cittadinanza europea.
Un passo decisivo è stata la trasformazione della Comunità in Unione europea. Il trattato ha indicato in questo modo la via verso «un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa», ma la sua traduzione in senso concretamente federale ha trovato ancora una volta l’opposizione della Gran Bretagna, adesso timorosa che un’Europa federale avesse il suo nucleo forte e dominante nella Germania unificata.
Nel 1995, con l’adesione di Austria, Finlandia e Svezia, l’Unione si è trasformata nell’Europa dei Quindici. Dopo la costituzione della Banca centrale europea, nel 1999, l’euro è diventato la moneta ufficiale di dodici paesi dell’Unione (alla decisione non hanno aderito Gran Bretagna, Svezia e Danimarca): l’euro è entrato in circolazione di fatto nel 2002. Il proposito del trattato di Maastricht di esprimere una linea comune in politica estera è nei fatti rimasto più che altro al livello delle intenzioni, poiché di fronte alle grandi crisi internazionali – come la disgregazione della Iugoslavia e i conseguenti terribili conflitti balcanici degli anni Novanta, e la guerra dell’Iraq iniziata nel 2001 – i paesi dell’Unione hanno seguito linee non solo diverse, ma persino divergenti.
Durante il periodo di presidenza della Commissione europea di Romano Prodi, eletto nel 1999, l’Unione ha avuto un allargamento quanto mai consistente con l’ingresso nel maggio 2004 di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Ungheria, Lituania, Lettonia, Estonia, Cipro e Malta, arrivando così a costituire l’Europa dei Venticinque. Un allargamento tanto grande ha posto con forza il problema di rafforzare i meccanismi istituzionali atti a governare l’Unione.
L’adozione della moneta unica, l’esigenza di una politica estera in grado di rispecchiare non solo le linee seguite dai singoli Stati ma l’Unione nel suo insieme, il continuo aumento del numero degli Stati membri, hanno finito per rendere sempre più pressante la formulazione e l’approvazione di una Costituzione europea.
Nella conferenza intergovernativa di Nizza del 2001 è stata approvata una Carta dei diritti, nella quale tra l’altro si è messa al bando la pena di morte, si è sancito il diritto per tutti i cittadini di accedere all’istruzione, si è stabilita una serie di misure volte ad assicurare l’eguaglianza tra uomini e donne e si è affermta la necessità di varare misure in vista di una adeguata protezione dell’ambiente.
Nel 2001 è stato posto all’ordine del giorno il problema della stesura di un testo di costituzione avente il compito di delineare un nuovo assetto istituzionale dell’Unione europea.
Di questo compito è stata investita nel 2002 una commissione presieduta dal francese Valéry Giscard d’Estaing, la quale l’anno seguente ha presentato al Consiglio europeo di Roma una bozza di costituzione, in cui è stata incorporata anche la Carta dei diritti.
Anche se non delineava l’avvento di un’Europa federale su modello americano, la bozza esprimeva il tentativo di compiere passi avanti nella direzione di una gestione più unitaria – meno soggetta ai veti incrociati dei singoli Stati – dell’Europa.
Il testo della bozza di Costituzione europea ha suscitato opposizioni assai faticosamente composte con un accordo, raggiunto nel giugno 2004, al ribasso. È stato deciso, infatti, che è necessaria l’unanimità in materia di tassazione, di bilancio, di politica estera e di difesa, mentre per i provvedimenti in altre materie viene richiesta l’approvazione di almeno quindici Stati membri rappresentativi di una percentuale non inferiore al 65 per cento della popolazione complessiva dell’Unione.
La Costituzione è stata firmata a Roma il 29 ottobre 2004, ma la sua ratifica da parte degli Stati membri dell’Unione – da compiersi mediante il voto dei Parlamenti oppure tramite referendum popolari – è andata incontro a una gravissima battuta d’arresto dopo che nel 2005 è stata respinta dai referendum avvenuti in Francia e nei Paesi Bassi.