Unione Europea
Unióne Europèa. – A metà del primo decennio del 21° sec. si è concluso il quinto allargamento dell’Unione Europea (UE) con l’ingresso, nel 2004, di dieci nuovi paesi (Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria), e nel 2007 di altri due, Bulgaria e Romania. Queste adesioni, nel loro complesso, hanno portato a 27 il numero degli stati membri spostando fortemente a est il baricentro dell’organizzazione e determinando una significativa ridefinizione degli equilibri politici interni. Il forte impatto demografico, economico e sociale del processo di allargamento ha reso ancora più urgente la necessità di riforme interne in grado di assicurare trasparenza democratica ed efficienza governativa delle istituzioni europee, ma contestualmente ha evidenziato anche la maggiore difficoltà a tracciare un percorso comune e condiviso. L’inclusione dei nuovi stati nell’Unione ha provocato inoltre un acceso dibattito sul ruolo della Commissione europea, sui metodi e i criteri dell’inclusione dei paesi candidati e sui limiti geografici e culturali dei futuri allargamenti. Il ruolo fondamentale svolto dalla Commissione in tutte le tappe dell’allargamento – dalla determinazione delle strategie di preadesione alla fase finale di inclusione – ha fatto sì che essa abbia sensibilmente aumentato il suo potere di controllo istituzionale, sollevando domande di legittimità e trasparenza democratica trattandosi di un organo non elettivo. Per quanto riguarda i criteri d'inclusione, questi sono stati ridefiniti in base a nuovi obblighi e condizioni specifiche stringenti, che vincolano i paesi candidati al rispetto delle norme del corpo legislativo e degli obiettivi politici dell’UE (v. ), prima ancora dell’apertura dei negoziati per l’adesione. Sotto questo aspetto i capitoli sull’ambiente, sulla libera circolazione delle persone e dei capitali, sulle politiche agricole, sulle istituzioni, sul bilancio e i fondi strutturali si sono rivelati particolarmente difficili da negoziare. Il capitolo sulla libera circolazione delle persone è stato oggetto di manipolazione politiche da parte degli stati membri, in particolare Germania e Austria, timorose di un’invasione da parte dei lavoratori dell’Est, e in conseguenza di ciò, nonostante il principio della libera circolazione delle persone sia uno dei principi fondanti dell’UE, i cittadini di alcuni nuovi paesi membri devono attendere la fine di un periodo di transizione più o meno lungo prima che i loro lavoratori possano godere di una piena libertà di movimento all’interno dell’UE (v. ). All’indomani della conclusione del quinto allargamento si è aperto il dibattito sul caso Turchia, la cui domanda di ingresso nell’UE risale al 1987. Le difficoltà che la Turchia affronta nel vedersi riconoscere un ruolo di candidato a pieno titolo dell’UE hanno radici politiche, economiche e soprattutto culturali. Se è vero, infatti, che le mancate riforme politiche nei confronti delle minoranze etniche, in particolare quella curda, e le limitazioni della libertà d’espressione hanno frenato il percorso dei negoziati, così come il mancato progresso nella soluzione della questione della Repubblica turca di Cipro del Nord ha provocato nel 2006 una sospensione delle trattative, sono soprattutto le differenze culturali e religiose tra questo Paese e gli attuali stati membri ad alimentare controversie e difficoltà. Diverso il caso, rispetto alla Turchia, dei paesi dei Balcani occidentali, regione per la quale la prospettiva di un’integrazione viene considerata strategica per il mantenimento della pace. Tra gli stati più prossimi all’entrata nell’UE figura la Croazia, che all’inizio del 2013 ha chiuso un contenzioso di natura bancaria con la Slovenia, unico ostacolo alla fase finale dell’adesione. Il dibattito sull’identità dell’UE e l’idea di Europa che essa rappresenta resta aperto, alimentato da una parte da coloro che sottolineano l’afflato cosmopolita e dinamico dell’UE nella sua funzione di forza promotrice di emancipazione sociale e politica, dall’altra da coloro che difendono un’idea di Europa imperniata sui valori tradizionali e una precisa identità storica.
Le riforme istituzionali e la fiducia nell’UE. – Il tema delle riforme è al centro del Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre 2009 ed erede, modesto e più snello, del Trattato per la costituzione europea (impropriamente definito Costituzione), il cui percorso accidentato è stato ostacolato dallo scarso entusiasmo di molti cittadini europei: il testo, infatti, è stato bocciato nei referendum popolari del 2005 in Francia e nei Paesi Bassi. Il documento, che sarebbe dovuto entrare in vigore nel novembre del 2006 dopo la ratifica dei paesi membri, è stato così accantonato, soggetto anche alle critiche di molte formazioni politiche: troppo liberista per una parte della sinistra, troppo poco coraggioso per i federalisti europei, troppo europeista per molte forze politiche di ispirazione nazionalista. Anche il percorso di approvazione del Trattato di Lisbona, peraltro, ha dimostrato in modo chiaro la difficoltà di realizzare concretamente quell’unione nella diversità alla base del progetto comunitario (il motto dell’UE, infatti, è 'uniti nella diversità'). Il no irlandese al Trattato in occasione del referendum del giugno 2008 ha riportato al centro del dibattito il difetto di comunicazione tra istituzioni europee e cittadini, che spesso considerano distanti e astratte le vicende comunitarie, e ha visto riproporsi una strenua difesa del principio di sovranità nazionale in aree chiave come la politica economica e quella di sicurezza, nonostante il Trattato di Lisbona non modificasse sostanzialmente i principi fondanti dell’Unione, ma si limitasse a migliorarne l’efficienza operativa. L’esito positivo del nuovo referendum irlandese dell’ottobre 2009 ha portato infine all’entrata in vigore del Trattato nel dicembre dello stesso anno, ma la crisi profonda delle istituzioni comunitarie, evidenziata anche da un calo dei sostegni nei paesi di recente adesione, dove solitamente la popolarità dell’UE è molto alta, ha destato serie preoccupazioni anche in considerazione di una crisi più generale delle organizzazioni internazionali.
L’UE e la crisi degli organismi internazionali. – Tra la fine del 20° sec. e l’inizio del 21° la fiducia dell’opinione pubblica verso l’operato delle organizzazioni internazionali si è incrinata. Molti fattori hanno concorso a creare questa crisi: la fragilità del sistema di regole internazionali costruito in alcuni casi molti decenni prima, la sempre più difficile situazione economica, la forte richiesta di erigere muri nazionali o regionali per fronteggiare, o quanto meno disciplinare, gli effetti della globalizzazione. Le Nazioni Unite, il Fondo monetario internazionale (FMI), l’Organizzazione internazionale per il commercio (WTO, World trade organization) e anche l’UE, considerata un’organizzazione internazionale regionale, sono entrate in crisi di autorità e credibilità, incapaci di gestire un sistema politico ed economico sempre più complesso e dalle coordinate profondamente mutate. Già nel corso degli anni Novanta del 20° sec. si era andata spegnendo l’idea di un nuovo ordine mondiale internazionale fondato sul primato del diritto e su modalità consensuali e multilaterali di gestione delle crisi; il colpo di grazia alla retorica multilateralista e collaborativa è venuto dal rifiuto di fatto degli Stati Uniti di riconoscere un ruolo alle principali organizzazioni internazionali finendo per mortificarne la funzione di arbitro tra gli stati e mettendo in dubbio la legittimità delle decisioni prese da questi organismi (v. Nazioni Unite). Nel caso dell’UE il nuovo secolo si era aperto con grandi speranze e aspettative in previsione di uno storico allargamento a Est e della nascita di una politica estera e di sicurezza comune (PESC; PESD, Politica europea di sicurezza e di difesa). I risultati, però, sono stati ambivalenti e con alcuni eclatanti insuccessi. Infatti, la disponibilità degli stati membri a cedere parte della propria sovranità negli ambiti della politica estera e della sicurezza si è rivelata assai limitata, nonostante l’auspicio a costruire un’Unione con una politica estera indipendente da quella degli Stati Uniti e in grado di ristabilire un equilibrio globale multipolare. L’UE, poi, si è mostrata spaccata in occasione dell’intervento militare in Iraq (2003) con la formazione di un’alleanza tra Francia e Germania, contrarie a un rovesciamento con la forza del regime di Saddam Hussein, e, sul fronte opposto, i governi filostatunitensi di Tony Blair in Gran Bretagna, José Maria Aznar in Spagna e Silvio Berlusconi in Italia, insieme a molti paesi dell’Europa orientale. A queste divisioni interstatuali, peraltro, non corrispondeva un’analoga frattura tra le diverse opinioni pubbliche nazionali che, con poche eccezioni, si opponevano in maggioranza all’intervento militare in Iraq. Le difficoltà dell’UE a mostrarsi coesa su differenti fronti si sono amplificate a partire dal 2008 quando, investita dalla crisi economica globale, l’Europa ha faticato, e spesso fallito, nel trovare una politica economica comune (v. ).
L’UE in cifre. – Prendendo in considerazione l’UE come entità geografica, oltre che politica ed economica, comprendente i territori nazionali dei 27 stati che ne fanno parte, ne risulta un aggregato territoriale con una superficie di 4.324.782 km2, abitato da 503 milioni di individui, e che, con un PIL (Prodotto interno lordo) complessivo di 16.300 miliardi di dollari nel 2012, si caratterizza come il blocco economico regionale più grande del mondo. Sono evidenti, in riferimento a questo dato, le forti disparità interne: a fronte del picco massimo tedesco (3346 miliardi di dollari), ben 21 stati registrano un PIL assoluto inferiore a 500 miliardi. Ancora riguardo agli aspetti demografici, positivi sono i dati sull’aspettativa media di vita (attestata intorno a 79 anni), con un tasso di crescita, tuttavia, dello 0,2% e un tasso di fertilità media pari a 1,58 bambini per donna: dati esemplificati perfettamente dalla strutturazione interna della popolazione, che registra una percentuale di ragazzi sotto i 14 anni (15,44%) oltrepassata dalla percentuale di over 65 (17,33%). Interessanti anche i dati relativi alla mobilità: su 1000 individui quasi due risultano migranti, complessivamente, cioè, poco meno di un milione di persone.
UE e politica ambientale. – Nel dicembre del 2008 l’UE ha adottato una strategia integrata in materia di energia e cambiamenti climatici che fissa obiettivi molto ambiziosi per il 2020: ridurre i gas a effetto serra del 20% (o del 30%, previo accordo internazionale); ridurre i consumi energetici del 20%; soddisfare il 20% del fabbisogno energetico mediante l’utilizzo delle energie rinnovabili. La strategia è disciplinata da norme comprese in sei provvedimenti legislativi. Il primo riguarda il sistema comunitario di scambio delle emissioni di gas a effetto serra (EU ETS, EU Emission trading system), che fissa un tetto massimo al livello totale delle emissioni, ma consente ai partecipanti di acquistare e vendere quote secondo le loro necessità all’interno di tale limite. La direttiva approvata perfeziona ed estende l’EU ETS, con l’obiettivo di ridurre le emissioni dei gas serra del 21% nel 2020 rispetto al 2005. In base al secondo provvedimento, ossia la ripartizione degli sforzi per ridurre le emissioni, ciascuno Stato membro sarà tenuto, entro il 2020, a limitare al minimo le sue emissioni di gas serra nei settori esclusi dal sistema di scambio di quote (trasporto stradale e marittimo, edilizia, servizi, agricoltura e piccoli impianti industriali). L’obiettivo è di ridurre del 10% queste emissioni; per l’Italia è prevista una riduzione del 13%. Il terzo provvedimento istituisce un quadro giuridico per lo stoccaggio geologico ecosostenibile di biossido di carbonio (CO2). Un accordo sulle energie rinnovabili (quarto provvedimento) stabilisce le percentuali nazionali obbligatorie per la quota complessiva di energia derivante da fonti rinnovabili rispetto al totale del consumo energetico (per l’Italia si è fissato il tetto del 17%). È stata anche definita, nella misura del 10%, la quota di energia da fonti rinnovabili nei trasporti. Sono inoltre stati fissati obiettivi in merito alla riduzione del CO2 da parte delle auto (quinto provvedimento), stabilendo il livello medio di emissioni di CO2 delle auto nuove a 130 g/km a partire dal 2012. Il compromesso stabilisce anche un obiettivo di lungo termine per il 2020 relativo al livello medio delle emissioni per il nuovo parco macchine: 95 g di CO2 a km. Infine, è stato deciso (sesto provvedimento) che entro la fine del 2020 la percentuale di riduzione dei gas a effetto serra nel ciclo di vita dei combustibili dovrà essere pari al 6%.