URBANO VIII papa
Quinto figlio di Antonio Barberini (v. barberini, Famiglia) e di Camilla Barbadori, Maffeo Barberini nacque in Firenze, dove fu battezzato, il 5 aprile 1568. Compiuti i primi studî a Firenze presso i gesuiti, fu affidato allo zio Francesco Barberini, ricco prelato della Curia, e a Roma si fece una cultura umanistica nel Collegio Romano; poi, studiò diritto a Pisa. Tornato a Roma, ebbe alte cariche ecclesiastiche; nel 1604 ebbe la nunziatura di Parigi e nel 1606 il berretto cardinalizio. Nel 1607 ebbe il protettorato della Scozia, l'anno dopo, il titolo di vescovo di Spoleto; nel 1611 la legazione di Bologna, che tenne fino al 1614. Tornato a Roma, fu nominato prefetto della Segnatura di giustizia; pur vivendo con fasto, si impose per castigatezza di costumi. Strinse segreta amicizia col cardinal Maurizio di Savoia, il quale nel conclave del 1623 procurò l'unione di Borghese e Ludovisi sul nome del Barberini, che il 6 agosto salì al trono pontificio e prese il nome di Urbano VIII. L'alto sentire che aveva di sé e del suo grado lo rendeva insofferente di contraddizioni; la lunga pratica della politica lo aveva scaltrito e reso diffidente verso i cardinali che sapeva legati ai sovrani. In principio si dimostrò avverso al nepotismo, ma ben presto nominò il fratello Carlo governatore di Borgo e generale della Chiesa; un figlio di lui, Francesco, di ventisei anni, elevò alla porpora; nel 1628, nominò cardinale un altro figlio di Carlo, Antonio, appena ventenne. Terre, castelli e feudi acquistò per la famiglia Barberini; a Taddeo, destinato a perpetuare la casa, conferì la prefettura di Roma. Ma ai suoi U. non diede parte nel governo, essendo gelosissimo della propria autorità.
Nel governo della Chiesa informò la sua azione ai decreti tridentini, imponendo ai cardinali e ai vescovi l'obbligo della residenza, riformando il clero romano e i seminarî. Cure assidue diede alla musica sacra, riformò il breviario, correggendo personalmente gl'inni. Vigilò sugli ordini religiosi: qualcuno ne riformò, altri ne soppresse. L'Inquisizione riebbe tutta la sua potenza: frati e prelati eretici e filosofi (M. A. De Dominis, arcivescovo di Spalato, T. Campanella, C. Cremonini) non furono risparmiati. Il processo più importante fu quello del Galilei, che, non ostante l'ammirazione e l'amicizia dimostratagli dal papa, fu condannato, perché aveva continuato a professare la sua opinione dichiarata eretica nel 1616. Lenta, invece, fu l'azione di U. contro Giansenio: soltanto nel 1640 U. vietò la pubblicazione dell'Augustinus e la bolla papale fu emanata il 19 gennaio 1643, quando il giansenismo si era già diffuso nelle file del clero francese. Gravi lotte sostenne U. contro gli Stati per la difesa delle immunità della Chiesa. In Francia, dove il Richelieu violava le prerogative della Santa Sede nel campo giurisdizionale, le offese culminarono nella censura emanata dalla Sorbona contro il libro del Santarelli Del potere del papa di punire l'eresia. U., indignato, disse che il re di Francia non si trovava più nella comunione della Chiesa. Quando Richelieu proibì l'invio di danaro a Roma, U. emanò una bolla contro coloro che toccassero i beni della Chiesa. Ma negli ordini e negli eminenti uomini di Chiesa che rappresentavano la rinascita della religione in Francia, U. trovò i migliori sostenitori. Anche nella Spagna U. ebbe a lottare per l'applicazione dei decreti tridentini, e gravi contrasti ebbe anche con gli stati indipendenti d'Italia. Nel ducato di Savoia, U. volle togliere al sovrano l'eccessiva ingerenza nella nomina dei vescovi, difese la giurisdizione dell'Inquisizione, l'immunità conventuale. Pericoli di rottura U. ebbe col granduca di Toscana; sulla repubblica di Lucca, che ospitava eretici, lanciò l'interdetto (2 aprile 1640) e diede l'assoluzione nel 1643. A Venezia, il conferimento della prefettura al nipote Taddeo, questioni di confini, la famosa iscrizione della Sala regia provocarono gravi contrasti tra U. e la Repubblica. Negli stati in cui i cattolici erano in minoranza, U. spiegò una fervida attività per proteggerli contro i protestanti e per guadagnare gli eretici alla fede cattolica. In Inghilterra fu favorevole al matrimonio di Carlo I con l'infanta di Spagna, sperando così di riportare alla fede cattolica il regno; ma le condizioni poste dalla corona per il matrimonio dimostrarono quanto fossero illusorie le speranze di U. Di qui l'ostilità prima e poi le condizioni poste dal papa per il matrimonio di Carlo I con Enrichetta Maria di Francia. Ma le esortazioni di U. non ebbero su Carlo I nessuna efficacia, ché anzi le persecuzioni contro i cattolici inglesi furono inasprite. U. elevò una protesta per la violazione delle clausole matrimoniali da parte della corte inglese. Tuttavia U. sperava nella riunione delle chiese e mandò a Londra prima il Panzani, poi il Rossetti che iniziarono utili trattative, ma l'odio dei protestanti si scatenò contro il re che faceva concessioni ai cattolici. U. aiutò con danaro i cattolici inglesi e irlandesi, incitando questi ultimi alla guerra ad oltranza. Ma l'armistizio troncò le speranze di U.
Grande impulso U. diede alla Propaganda Fide e alle missioni; creò un collegio pontificio (Collegium Urbanum) che doveva accogliere ecclesiastici disposti a sacrificare la vita per la diffusione della fede; egli fece di Propaganda il focolaio da cui s'irradiarono i visitatori apostolici che nell'Oriente mediterraneo stroncarono l'attività del calvinista patriarca Lucaris. Nella Persia U. favorì la penetrazione dei carmelitani e sollevò il prestigio del vescovo di Iṣpahān, e creò il vescovato di Baghdād. Missioni furono mandate in Birmania, nel Siam, dove nel 1624 veniva fondata la prima chiesa, nelle Molucche, nelle Filippine, nel Giappone. Sotto U. nel 1626 il negus d'Etiopia, Lusemyos, si convertì al cattolicesimo: ma nel 1632 il negus era costretto ad abdicare.
Come al governo della Chiesa, così all'amministrazione dello stato U. dedicò vigili cure. Diede incremento alle industrie e promosse la bonifica, trattando con gli Olandesi per il prosciugamento delle Paludi Pontine e incoraggiando studî per le bonifiche nella Romagna, a Ferrara e Bologna. Curò l'approvvigionamento delle vettovaglie, istituì un orfanotrofio, emanò provvedimenti per combattere la peste. Ma le sue cure più appassionate furono dedicate agli armamenti, coi quali intendeva assicurare la difesa dello stato: costruì il Forte Urbano, nulla curandosi della gelosia suscitata nei Bolognesi; fece poderosi lavori a Castel Sant'Angelo, completò le fortificazioni delle città costiere delle Marche; ampliò il porto di Civitavecchia; fece un grande arsenale sotto la biblioteca Vaticana; diede incremento alla marina. Ma queste spese rovinarono l'erario, mentre, come dimostrò la guerra di Castro, l'esercito non raggiunse mai l'efficienza necessaria. Grandioso anche come mecenate della cultura e dell'arte, U. diede sviluppo all'università e agli studî.
Per l'abbellimento delle chiese impiegò il fior fiore degli artisti: predilesse il Bernini, che costruì il baldacchino di bronzo in San Pietro; per il gran tempio volle che lavorassero Pietro da Cortona, il Sacchi, il Romanelli, il Calandra, il Domenichino ed altri artisti insigni. Molte altre chiese, specialmente quelle sacre ai martiri, furono ricostruite o abbellite: sotto U. la chiesa di Sant'Andrea della Valle divenne una delle più superbe chiese. Roma fu abbellita di fontane, di piazze, di vie nuove, di palazzi, tra i quali quello splendido dei Barberini.
Quando Maffeo fu eletto papa, ardeva da cinque anni la guerra dei Trent'anni. Con abilità, alla morte dell'unico figlio del vecchio duca Francesco Maria della Rovere, costrinse il duca a riconoscere i diritti della Santa Sede sul ducato di Urbino: il 1° gennaio 1625 U. incaricò Berlinghiero Gessi di assumere il governo del ducato. Più complicata, invece, la questione della Valtellina: Gregorio XV aveva ricevuto in deposito, per conto di Francia e Spagna, le fortezze; U. indusse gli Spagnoli a consegnargli anche Chiavenna. Il 24 febbraio 1624 furono conclusi a Roma due trattati: con uno si proteggevano gl'interessi dei cattolici nella Valtellina, con l'altro si concedeva agli Spagnoli il passaggio attraverso la valle e Bormio dall'Italia verso la Germania. La Francia intimò a U. di consegnare ai Francesi le fortezze, e, al rifiuto di U., l'esercito francese dall'Engadina penetrò in Poschiavo e Brusio, costringendo i pontifici a sgombrare tutta la Valtellina. U. domandò riparazioni dell'affronto subito: esigeva la punizione del marchese di Coeuvres e la riconsegna delle fortezze. Appoggiò queste richieste con notevoli armamenti. Ma seppe resistere agli eccitamenti degli Spagnoli che volevano portarlo a passi estremi. Mandò a Parigi come legato a latere il cardinale Francesco Barberini per un tentativo di mediazione tra Spagna e Francia, ma la missione fallì. Nell'agosto 1625 il papa annunziò a Filippo IV di aver pronti seimila fanti e seicento cavalieri per la riconquista della Valtellina. Mandò ancora a Madrid il cardinal Francesco per una mediazione, ma il legato era arrivato a Barcellona, quando gli giunse notizia che Filippo IV e Luigi XIII avevano da soli concluso il trattato di Monzon. U. era rimasto fuori delle trattative; ma la sua volontà trionfava egualmente, perché nella Valtellina era ammesso soltanto il culto cattolico e l'Italia era liberata dal pericolo della guerra.
Ora, U. volse la sua attenzione alla guerra germanica: inviò più di duecentomila lire a Massimiliano di Baviera ed esortò i vescovi tedeschi e spagnoli a raccogliere danaro per la difesa della fede. Dopo la vittoria di Tilly presso Lutter, U. promosse un'alleanza tra Spagna e Francia per un attacco contro l'Inghilterra, ma declinò l'invito del Richelieu di aderire all'alleanza franco-spagnola e di inviare uomini o navi per assalire la flotta inglese che si era presentata davanti a La Rochelle. Intanto, incitò Luigi XIII ad iniziare l'impresa contro La Rochelle, la cui caduta fu salutata da U. con gioia. Il papa intendeva utilizzare le vittorie degl'imperiali per la piena restaurazione della fede nell'impero: perciò il ritardo nella pubblicazione dell'editto di restituzione gli parve ingiustificato. Si delineò, così, un dissidio tra U. e la casa d'Asburgo. U., allora, si adoperò per un avvicinamento tra Francia e Baviera, che controbilanciasse la potenza degli Asburgo e favorì, d'accordo con la Francia, il matrimonio di Carlo di Rethel con Maria Gonzaga, per evitare che, alla morte di Vincenzo II Gonzaga, Madrid incorporasse il ducato di Mantova al Milanese o mettesse una creatura di Spagna sul trono dei Gonzaga. Quando gl'Ispano-Piemontesi invasero il Monferrato, U. condivise con i nemici di Spagna il timore che l'espansione del dominio spagnolo rendesse più pesante la servitù dell'Italia e si augurò che le armi francesi si affacciassero alla frontiera. Le insolenze degli Spagnoli parvero gettarlo nelle braccia della Francia, a cui promise che se il re cristianissimo si fosse pronunziato per la difesa della libertà d'Italia, egli avrebbe messo su piede di guerra dodicimila uomini. Ma non s'impegnò ad aderire alla lega propostagli dal re di Francia, neppure quando il re ebbe valicato il Monginevra e alle preghiere alternò le minacce. Fallita la speranza nella mediazione di Massimiliano, per evitare nuovi lutti alla penisola, inviò una legazione formata del card. A. Barberini, del nunzio Panzirolo e del Mazarino. Ma ecco la nuova invasione di truppe tedesche: U. ne fu atterrito e pensò che la caduta di Mantova avrebbe portato il soggiogamento di tutta l'Italia. Perciò mentre esplorava tutte le vie che potessero portare alla pace, esortava il senato di Bologna, il magistrato di Ferrara e i consoli di Ravenna a tener pronte le armi per la difesa della patria. Egli esortò Massimiliano e gli elettori a rivolgersi a Ferdinando II perché volesse "pacificamente e presto quetar i moti d'Italia". L'imperatore si mostrò disposto a concedere l'investitura a Carlo di Nevers, purché si umiliasse. Fu una vittoria diplomatica di U. e della Lega cattolica. Ma quando Spagnoli e Francesi resero impossibile l'accordo, U. rimase fuori della lega promossa dagli Austriaci, lega alla quale avevano dato l'adesione altri principi italiani. Caduta Mantova, U. fu atterrito dalla minaccia di una calata di Waldstein, quando una nuova situazione si determinò con la discesa di Gustavo Adolfo in Germania. Alla fine del 1629, il nunzio di Parigi aveva ottenuto che Luigi XIII difendesse presso lo Svedese gl'interessi della Lega cattolica. La difesa della religione era affidata da U. al re cristianissimo, che mirava a conciliare cattolici e protestanti contro gli Asburgo e l'alleanza franco-bavarese diventò il perno della politica di U. Ma ben presto il papa vide nella discesa di Gustavo "l'esca d'un gran fuoco" che minacciava la rovina dei principi cattolici. Perciò egli rivolge un caldo appello ai sovrani cattolici perché, prima che la caduta di Casale renda irreparabile la situazione, si concluda la pace tanto necessaria alla difesa della religione e dell'Impero contro lo Svedese. Ma dagli Spagnoli U. era sempre sospettato di ostilità alla casa d'Austria, e perciò Filippo IV era incitato a recarsi a Roma per deporre il papa. U. pensò di spezzare l'opposizione spagnola nella dieta di Ratisbona: riuscì infatti a isolare la Spagna a Ratisbona e l'11 ottobre era conclusa la pace. Gl'intrighi spagnoli e le tergiversazioni della Francia mettevano in pericolo la pace; e U. ritenne prudente non parlare di una sua partecipazione alla guerra contro gli eretici per non urtare il Richelieu. Così la casa d'Austria vide lontano dalla propria politica il papa che aveva predicato la necessità della pace per unire le forze contro gli eretici. Ma l'intesa di U. con la Lega cattolica fu cementata e si dovette al papa l'insuccesso del tentativo di restituire il Palatinato a Federico V e di sciogliere la Lega cattolica. La crisi nei rapporti tra gli Asburgo e U. si accentuò con l'alleanza franco-svedese; il papa tentò invano di evitare che il trattato di Bärwald fosse concluso, esortando il re di Francia a farsi mediatore tra la Svezia e gli Asburgo. Dopo la battaglia di Breitenfeld, U., preoccupato dei pericoli che provenivano alla religione dai progressi di Gustavo, diede soccorsi finanziarî all'imperatore e alla Lega; a Madrid e a Vienna si pretendeva però che il papa si alleasse con gli Asburgo. Ma U. si dimostrò contrario all'alleanza che lo avrebbe coinvolto in una guerra contro un principe cattolico; volle, invece, procurare la riconciliazione tra Asburgo e Francia, destinando tre nunzî straordinarî presso i sovrani di Madrid, Vienna e Parigi. Soltanto nel maggio 1632, quando pareva imminente una discesa di Gustavo in Italia, U. pensò a promuovere una lega difensiva degli stati italiani; ma nessuno volle saperne. La morte di Gustavo liberò U. dalla preoccupazione di una invasione di eretici. Ma la sua situazione tra Borboni e Asburgo non migliorò. Egli deplorava bensì l'alleanza franco-svedese, ma Richelieu rispondeva con la minaccia d'uno scisma, e gli Spagnoli, nonostante i soccorsi dati da U. all'imperatore, parlavano di convocare un concilio. E mentre nell'autunno 1633 Madrid gli proponeva di entrare in una lega antifrancese, Parigi gli proponeva di aderire a una lega per la conservazione dello status quo in Italia. Trattative separate per i cattolici e per i protestanti U. propose nel 1634: i cattolici avrebbero dovuto radunarsi a Roma; ma anche questa proposta cadde. E fallirono anche gli sforzi di U. per salvare il duca di Lorena. U. non si accorgeva che Richelieu completava le alleanze necessarie per sferrare l'assalto contro gli Asburgo e non aderì a una lega antifrancese, nonostante comprendesse che le provocazioni della Francia davano agli Asburgo il pretesto di sacrificare gl'interessi della religione nella pace di Praga. Scoppiata la guerra in Italia, U. desiderò più che mai la pace: il 17 settembre 1635, nominò il legato per il congresso; ma le sue esortazioni rimanevano senza eco e si profilava la minaccia d'un assalto turco contro Venezia. Invece, l'imperatore notificò ad U. che se Roma non lo soccorreva, avrebbe fatto la pace con i protestanti. Nella dieta di Ratisbona, infatti, fu concessa l'amnistia ai protestanti non conciliati con l'imperatore: vane furono le proteste di U. per il pregiudizio che si recava agl'interessi della religione. Finalmente, le città di Münster e di Osnabruck furono scelte per il congresso della pace; nell'aprile 1644 i plenipotenziarî si trovarono a Münster; ma il 29 luglio U. morì.
Il carattere politico che nella guerra dei Trent'anni era andato sempre più prevalendo sui motivi religiosi, aveva reso sempre più problematico un successo dei passi di U. presso Luigi XIII. D'altra parte, U. riteneva che la guerra di Mantova, per la quale erano stati sacrificati gl'interessi della religione con una pace vantaggiosa agli eretici, fosse stata la causa dei successi dei protestanti. Le scomuniche che gli Austriaci domandavano contro il re di Francia e Richelieu non avrebbero impedito che la guerra prendesse il corso che ad essa fu impresso dalle aspirazioni contrastanti dei Borboni e degli Asburgo, con cui s'intrecciarono quelle dei Danesi e degli Svedesi. U. non dimenticò di esser "padre comune", prodigandosi negli sforzi per la pace, che non vide raggiunta. Tuttavia, egli, per interessi di famiglia, non esitò a provocare la guerra con Odoardo Farnese: la cosiddetta guerra di Castro (v. castro, ducato di), che, scoppiata nel 1642, si conchiudeva il 31 marzo 1644 a Venezia, con la pace fra il papa, Venezia, Toscana e Modena; lo stesso giorno, tra il papa e Odoardo. U. liberò il Farnese dalle censure, gli restituì Castro e tutti i beni confiscati. La guerra determinò il crollo delle finanze pontificie; le spese ammontarono a dodici milioni di scudi d'oro. Ma grave fu soprattutto la sconfitta morale: ad essa U. non sopravvisse a lungo; quattro mesi dopo la pace, moriva col rimorso di aver manomesso il tesoro dei papi. I Romani non gli perdonarono di aver lasciato lo stato in condizioni disastrose e di aver oppresso d'imposte i sudditi per la guerra di Castro. Il nepotismo e l'orgoglio offuscarono le benemerenze che U. si era guadagnato verso la Chiesa e verso l'Italia
Bibl.: L. Pastor, Storia dei papi, XIII (trad. P. Cenci), Roma 1931, con una vasta bibliografia.