URSS
(Unione delle repubbliche socialiste sovietiche) Stato federale costituitosi a seguito della Rivoluzione d’ottobre, esistito dal 1922 al 1991, esteso su territori che andavano dall’Europa orientale all’Asia centrosettentrionale, per oltre 22 milioni di km2. Fra il 1922 e il 1944, la federazione conseguì la ricomposizione dell’area dello Stato zarista, eccettuati il territorio corrispondente alla Finlandia e quello tornato sotto sovranità polacca. L’Unione prevedeva, nell’ambito delle repubbliche federate, l’esistenza di repubbliche autonome, regioni autonome e circondari autonomi, la cui costituzione procedeva da motivi di ordine etnico e linguistico.
La Prima guerra mondiale aveva dimostrato l’obsolescenza dell’impero zarista. L’apparato repressivo, che aveva garantito la stabilità dell’assetto imperiale, stremato, divenne inaffidabile: nel febbr. 1917, scioperi e disordini per il pane, scoppiati a Pietrogrado, culminarono nell’ammutinamento delle truppe. Lo zar fu costretto ad abdicare (2 marzo), mentre la Duma costituì un governo provvisorio, presieduto dal principe G.E. L′vov, che in settembre proclamò la Repubblica. Espressione della grande borghesia liberale, il governo doveva rimanere in carica fino alla convocazione di un’Assemblea costituente, concentrando gli sforzi sulla prosecuzione della guerra. Accanto al governo provvisorio emerse però un secondo centro di potere, costituito dai Consigli degli operai, dei contadini e dei soldati, i soviet. Il più influente fra questi, quello di Pietrogrado, con il decreto (1° marzo) sulla democratizzazione dell’esercito e la creazione di soviet unitari di operai e soldati, pose sotto il proprio controllo la guarnigione della città. Nel giugno 1917, il governo provvisorio (nel quale erano entrati menscevichi e socialisti-rivoluzionari e che da luglio fu presieduto da A.F. Kerenskij) lanciò una controffensiva che terminò con un’ulteriore sconfitta. Smobilitatasi di propria iniziativa, parte dei soldati tornò nelle campagne, procedendo all’occupazione delle terre. Dopo il fallimento del pronunciamento militare del generale Kornilov (settembre), il Partito bolscevico (➔ bolscevismo), che in aprile aveva adottato il programma proposto da Lenin, con la parola d’ordine «tutto il potere ai soviet», ottenne la maggioranza nei principali soviet e, guidando la presa del Palazzo d’inverno, il 25 ott. 1917 (7 nov. per il calendario gregoriano) rovesciò il governo provvisorio. Il giorno seguente il II Congresso panrusso dei soviet, riunito a Pietrogrado, approvò la formazione di un governo (il Consiglio dei commissari del popolo), presieduto da Lenin e composto esclusivamente da bolscevichi. Le elezioni per l’Assemblea costituente diedero la maggioranza al Partito socialista rivoluzionario russo, espressione della popolazione rurale; tuttavia l’Assemblea fu sciolta dai bolscevichi che, dopo un breve periodo di coalizione coi socialisti rivoluzionari di sinistra, stabilirono di fatto un regime monopartitico. Il primo decreto del governo di Lenin fu quello sulla terra, che abolì la proprietà fondiaria e confermò la presa di possesso delle terre da parte dei contadini. Seguirono la legge sul controllo operaio della produzione e del commercio e i provvedimenti per la nazionalizzazione delle banche, della marina mercantile e delle grandi industrie. Furono costituiti un Consiglio superiore dell’economia nazionale e una Commissione straordinaria per la lotta alla controrivoluzione, alla speculazione e al sabotaggio, conosciuta come CEKA, le cui funzioni di polizia politica divennero sempre più ampie. Rimasto senza seguito l’appello ai popoli e ai governi dei Paesi belligeranti per la conclusione di una pace democratica, senza annessioni né contribuzioni, il governo avviò le trattative per un armistizio con gli imperi centrali: nel marzo 1918 venne quindi firmato il Trattato di Brest-Litovsk, in base al quale la Russia rinunciava a province baltiche, Polonia e Ucraina. Il crollo dell’impero russo fornì inoltre l’opportunità per la proclamazione di indipendenza di Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania e Bielorussia. Diversi centri di potere indipendente sorsero in Asia centrale e in Siberia, anche in seguito allo scoppio della guerra civile; quest’ultima dall’estate del 1918 contrappose l’Armata rossa alle armate bianche guidate da esponenti del vecchio regime, sostenute da molti Paesi europei, che a loro volta invasero la Russia sovietica. Nel luglio 1918 fu approvata la prima Costituzione e proclamata la Repubblica socialista federativa sovietica russa (RSFSR). Durante la guerra civile, l’Armata rossa e la CEKA costituirono non solo la struttura militare e coercitiva del regime, ma anche, insieme agli organismi del partito, gli effettivi centri di governo, a scapito dei soviet. In quegli anni la politica adottata dal governo bolscevico, conosciuta come «comunismo di guerra», vide un rigido accentramento del potere economico, attraverso la totale nazionalizzazione delle imprese e delle terre, il divieto del commercio privato, la requisizione delle eccedenze di grano ai contadini. Ciò nonostante, questi ultimi, sapendo che una vittoria dei russi bianchi avrebbe comportato il ritorno delle terre agli antichi proprietari, sostennero i bolscevichi, pur con episodi di rivolta nelle campagne. Grazie a questo sostegno e alla superiore capacità di mobilitazione, i bolscevichi vinsero nel 1920 la guerra civile, i cui strascichi durarono comunque fino al 1922. Ritiratisi i tedeschi nel nov. 1918, l’Armata rossa ristabilì il controllo della situazione in Ucraina, Bielorussia e nel Caucaso. Nel 1920 fu firmato un trattato di pace con la Finlandia e con gli Stati baltici. Dopo il tentativo polacco di conquistare l’Ucraina (1919-20), l’Armata rossa giunse fino a Varsavia, dove fu sconfitta nel giugno 1920; con il Trattato di Riga (marzo 1921), veniva confermata l’indipendenza polacca. Fra il 1919 e il 1922 il governo della RSFSR ristabilì la propria autorità sull’Asia centrale e sulla Siberia. Nel dic. 1922 fu ufficialmente costituita una nuova entità sovranazionale, l’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (URSS), come unione di quattro entità: la RSFSR, l’Ucraina, la Bielorussia e la Federazione transcaucasica (composta da Armenia, Georgia e Azerbaigian). L’URSS fu il più grande Paese del mondo, primo Stato moderno eretto sul principio dell’autonomia territoriale di diverse etnie. La Costituzione del 1923 la definì come uno Stato socialista federativo, nucleo di una futura «repubblica socialista sovietica mondiale». La Costituzione proclamò l’eguaglianza fra le repubbliche dell’Unione, ma di fatto la Repubblica russa, che comprendeva circa il 90% del territorio e più del 70% della popolazione dell’URSS, dominò l’Unione, anche se tutte le successive costituzioni confermarono il diritto delle repubbliche all’autodeterminazione fino alla secessione. Nel 1924 furono costituite le Repubbliche del Turkmenistan e dell’Uzbekistan, che entrarono nell’URSS nel 1925, e nel 1929 fu istituita la Repubblica del Tagikistan. Nel 1936, quando furono create le Repubbliche del Kazakistan e del Kirghizistan e alla Federazione transcaucasica subentrarono le Repubbliche federate di Armenia, Azerbaigian e Georgia, il numero delle repubbliche dell’Unione arrivò a 11. Fra il 1917 e il 1927 il Partito bolscevico, poi Partito comunista dell’Unione Sovietica passò da 24.000 membri a circa 1.300.000, trasformandosi da piccolo gruppo di rivoluzionari in partito di massa. Il Partito comunista, che aveva acquistato il predominio della vita politica durante la guerra civile, conservò il monopolio del potere politico anche dopo la formazione dell’Unione Sovietica; sotto la direzione del Politbjuro, esso controllava il governo centrale e locale, ed era responsabile delle decisioni politiche, anche se in base alla Costituzione del 1924 massimo organo del potere statale era il Congresso dei soviet dell’Unione, sostituito nel 1936 dal Soviet supremo, e le funzioni esecutive erano attribuite al Consiglio dei commissari del popolo (dal 1946 Consiglio dei ministri). Alla nascita dell’Unione Sovietica, l’economia era in uno stato di profonda crisi. Durante la guerra civile e la carestia del 1920-22 la struttura produttiva aveva subito gravissimi danni e il numero delle vittime ammontava a numerosi milioni. La Nuova politica economica (NEP), introdotta da Lenin nel 1921, determinò il parziale ripristino di criteri di mercato nel settore agricolo, mentre lo Stato conservava il controllo dell’industria pesante, del sistema bancario e del commercio estero. Dalla fine del 1922 emersero i primi risultati positivi della NEP, ma la carenza di beni di consumo e la scarsa convenienza dei prezzi ufficiali disincentivarono i contadini alla vendita dei prodotti e all’aumento della produttività. Sulla strategia di sviluppo economico si accese dunque un aspro contrasto nella dirigenza del partito, che si acuì dopo la morte di Lenin (genn. 1924). In una prima fase (1923-27) lo scontro contrappose la maggioranza del partito all’opposizione di sinistra, guidata da L.D. Trockij con l’appoggio, dal 1926, di G.E. Zinove′v e L.B. Kamenev. Essa propugnò l’adozione di misure volte a ottenere dallo sfruttamento dell’agricoltura le risorse necessarie all’industrializzazione, sottolineando la necessità di una pianificazione dell’economia e dell’abbandono della NEP. Riferimento ideologico dell’opposizione di sinistra era la visione trockiana del processo di costruzione del socialismo come una «rivoluzione permanente» su scala internazionale. Trockij non ebbe però un sufficiente seguito: nel 1927 fu espulso dal partito e nel 1929 venne esiliato. Dopo la sconfitta dell’opposizione di sinistra, I.V. Stalin, a capo della maggioranza del partito, entrò in contrasto con la destra, aggregatasi intorno alle posizioni di N.J. Bucharin, che vedeva nell’espansione dell’agricoltura la premessa necessaria allo sviluppo del socialismo. In questo programma, basato su una continuazione della NEP, la maggioranza lesse il rischio di una restaurazione capitalistica nelle campagne. Stalin, cui la carica di segretario generale aveva attribuito il controllo dell’apparato del partito, dovette la sua forza all’essersi fatto interprete delle aspirazioni della maggioranza degli iscritti, sfruttando le implicazioni sociali e politiche del processo di burocratizzazione del partito e dello Stato. Il programma della fazione staliniana costituì per certi versi una sintesi dei programmi della destra e della sinistra. Sostenendo, in polemica con Trockij, la possibilità di costruire il socialismo in un solo Paese, esso era comunque orientato alla sostituzione «dell’accerchiamento capitalista dell’URSS con un accerchiamento socialista» e al sostegno alla rivoluzione nei Paesi confinanti con l’URSS. In politica interna, dopo il 1927, Stalin propugnò una politica di pianificazione economica e di industrializzazione, finanziata dallo sfruttamento dell’agricoltura. Divenuto l’indiscusso leader del partito nel 1928-29, Stalin allontanò gli esponenti dell’opposizione di destra dalle loro cariche e promosse una radicale ristrutturazione della società sovietica, attraverso la collettivizzazione dell’agricoltura, l’industrializzazione forzata e lo sviluppo dell’industria pesante. La collettivizzazione di massa comportò due processi fra di loro connessi: l’eliminazione come classe dei contadini benestanti, i cdd. kulaki, e la sostituzione dei piccoli appezzamenti individuali con le grandi fattorie collettive, i kolchoz. Le vittime della campagna anti-kulaki ammontarono a più di un milione di famiglie (fra sette e otto milioni di persone). Parte dei contadini abbandonò le campagne e per impedire questo fenomeno venne introdotto un sistema di passaporti interni. La produzione agricola subì per qualche anno un forte calo, ma al tempo stesso la collettivizzazione rafforzò la pianificazione centralizzata, assicurando le scorte di grano per i lavoratori dell’industria. Inoltre, grazie alla pianificazione, fu possibile utilizzare il ricco patrimonio di risorse naturali del Paese e impiegare le riserve di lavoro sottoutilizzato. Massicci investimenti furono effettuati nel settore educativo e nella ricerca scientifica e fu utilizzata a fondo la capacità di mobilitazione dell’ideologia socialista. L’obiettivo fissato dal primo piano quinquennale (1929-33) di un aumento della produzione industriale del 180%, di quella agricola del 55% e dei consumi del 70% venne dichiarato realizzato già alla fine del 1932; i risultati effettivi furono in realtà assai più bassi, ma nella crescita dell’industria pesante esso raggiunse notevoli successi. Il secondo piano quinquennale (1933-37) presentò gli stessi intensi ritmi di produzione e uguale attenzione per l’industria pesante, in particolare per lo sviluppo della tecnologia militare. Nel 1933-40, dinanzi alla minaccia nazista sempre più evidente, gli investimenti per la difesa aumentarono di dieci volte, a danno di beni di consumo, servizi ed edilizia. I sindacati furono trasformati in istituzioni statali, responsabili della disciplina e della produttività del lavoro. Nel corso degli anni Trenta la legislazione del lavoro divenne sempre più restrittiva e culminò nella proibizione per i lavoratori di cambiare occupazione senza il permesso delle autorità. La svolta della fine degli anni Venti fu accompagnata da un’ondata di repressione poliziesca, che raggiunse l’apice nel decennio successivo, in particolare dopo l’uccisione, il 1° dic. 1934, di S.M. Kirov. Quest’ultima fornì a Stalin il pretesto per organizzare dei «processi farsa», che portarono all’eliminazione dell’élite del partito (1936-39). In pochi anni circa un milione di individui fu giustiziato (compresi oltre 40.000 alti ufficiali) e più di otto milioni rinchiusi in campi di lavoro (➔ Gulag), dove i reclusi furono utilizzati per la costruzione di strade, ferrovie, miniere e officine. La fase del Grande terrore portò peraltro alla stabilizzazione del regime. Procedendo di pari passo con una progressiva militarizzazione dell’economia e della vita sociale, dovuta anche all’accerchiamento dei Paesi ostili, il sistema riuscì comunque a realizzare un rilevante processo di modernizzazione, riducendo però fortemente la carica di partecipazione democratica innescata dalla Rivoluzione del 1917.
URSS. Nel primo dopoguerra, fra i Paesi dell’Europa occidentale, solo la Germania stabilì relazioni diplomatiche con la Russia con i Trattati di Rapallo (1922). I rapporti coi Paesi occidentali rimasero difficili. Solo nella seconda metà del decennio si registrò una distensione e la politica estera sovietica fu da allora diretta alla partecipazione a un sistema europeo di sicurezza e cooperazione: nel 1934 l’URSS entrò nella Società delle nazioni come membro permanente del Consiglio. Nel 1935 vennero firmati trattati di alleanza con la Francia e la Cecoslovacchia e in quello stesso anno il Comintern promosse la formazione dei fronti popolari antifascisti; durante la guerra civile spagnola (1936-39) l’URSS sostenne le forze repubblicane. Tuttavia, di fronte all’esitazione franco-britannica a impegnarsi in quel sistema di reciproche garanzie contro l’aggressività delle potenze fasciste che era perseguito dal ministro degli Esteri sovietico M.M. Litvinov, e in particolare dopo l’Accordo di Monaco (sett. 1938), che rafforzò la capacità offensiva tedesca verso oriente, Litvinov fu sostituito da V.M. Molotov, il quale il 23 ag. 1939 firmò un patto di non aggressione con la Germania, il cui protocollo segreto stabiliva la divisione della Polonia in due zone di influenza, una tedesca e una sovietica. Con l’attacco nazista alla Polonia, il 1° sett. 1939, scoppiò la Seconda guerra mondiale; il 17 truppe sovietiche invasero la Polonia orientale. A nov. l’URSS attaccò la Finlandia, e nel marzo 1940 acquisì gran parte della Carelia. Nell’ag. 1940 l’URSS, inoltre, si annetté i tre Stati baltici, la Bessarabia e la Bucovina settentrionale. L’invasione tedesca del giugno 1941 comportò inizialmente vari successi per l’aggressore; nella fase successiva, tuttavia, la guerra mostrò le conquiste raggiunte nella modernizzazione del Paese. Il PCUS ottenne buoni risultati nella mobilitazione popolare, promuovendo i sentimenti patriottici e raggiungendo una non facile riconciliazione con la Chiesa ortodossa. Il compito fu facilitato dalle atrocità commesse, nelle zone occupate, dai tedeschi. Arrivati a 15-20 km da Mosca, nel dic. 1941 questi furono respinti per più di 200 km; anche Leningrado subì un lungo e duro assedio; ma la svolta decisiva fu la battaglia di Stalingrado, al termine della quale (genn. 1943) i tedeschi furono sconfitti. Nel successivo anno e mezzo l’esercito sovietico riconquistò tutto il territorio occupato e si spostò verso Ovest, liberando l’Europa orientale e parte dei Paesi balcanici. Il 22 apr. 1945 le truppe sovietiche circondarono Berlino, conquistandola all’inizio di maggio; il 7 maggio i tedeschi si arresero senza condizioni. Nel 1944, inoltre, era stato incorporato il territorio di Tannu Tuva e nel 1945 i confini di Ucraina e Russia bianca furono spostati verso occidente. Il prezzo della vittoria fu altissimo: i morti ammontarono a circa 15 milioni fra i militari e a più di 20 milioni fra i civili; anche i danni furono estesissimi, con la distruzione di migliaia di villaggi, industrie e scuole, ponti e ferrovie. La vittoria nella Seconda guerra mondiale sancì la trasformazione dell’URSS in una superpotenza, rafforzando ulteriormente l’autorità personale di Stalin. Nell’immediato dopoguerra, in seguito alla Conferenza di Jalta, si delinearono due distinte sfere d’influenza a livello mondiale. Cresceva intanto la tensione nelle relazioni fra gli ex alleati, e dopo l’enunciazione della dottrina Truman, nel marzo 1947, ebbe inizio la Guerra fredda. Mentre gli USA lanciavano il piano Marshall per rilanciare l’economia dei Paesi europei e legarli a loro sul piano politico, attorno all’URSS si costituiva un blocco di Paesi (Bulgaria, Cecoslovacchia, Germania orientale, Polonia, Romania, Ungheria), a loro volta sempre più strettamente legati all’Unione Sovietica. Quest’ultima nel sett. 1947, dopo che nel 1943 il Comintern era stato sciolto in omaggio all’alleanza antifascista, organizzò il Cominform; nel 1948 una grave crisi si verificò nelle relazioni con la Iugoslavia, mentre i legami economici con gli altri Paesi est-europei venivano rafforzati dalla nascita (1949) del Comecon.
All’interno del Paese, dopo la guerra, gli aspetti repressivi del regime staliniano vennero rafforzati. Diversi gruppi etnici, accusati di collaborazione con i tedeschi, furono deportati in Siberia o nel Kazakistan. Il programma di ricostruzione continuò ad accordare la priorità all’industria pesante e a quella militare, a spese della produzione di beni di consumo. Grande importanza fu attribuita allo sviluppo delle armi nucleari: l’URSS ebbe la sua prima bomba atomica nel 1949. Fu mantenuta una rigida disciplina sul lavoro, mentre nel campo culturale venne condotta una campagna di intimidazione contro intellettuali e scienziati. Il massiccio ricorso alla repressione e i diminuiti standard di vita provocarono, tuttavia, forti tensioni. Negli ultimi giorni del potere staliniano ampie rivolte scoppiarono nei gulag. Alla morte di Stalin (marzo 1953), presidente del Consiglio divenne G.M. Malenkov; alla testa del partito fu posto N.S. Chruščëv. Nei mesi successivi la lotta al vertice sfociò nella subordinazione dell’apparato della polizia politica al partito: L.P. Berija, ministro degli Interni e capo della polizia, fu arrestato e giustiziato nel dic. 1953, e il terrore poliziesco venne allentato. I principali problemi di fronte ai quali si trovò la nuova leadership furono di carattere economico e, con l’obiettivo di promuovere un aumento della produzione agricola, vennero consentite le imprese individuali e aumentati i prezzi all’ammasso (1953); nel 1954 Chruščëv lanciò un ambizioso piano di messa a coltura di terre vergini, che diede inizialmente dei buoni frutti. La sua posizione si rafforzò dopo le dimissioni di Malenkov, sostituito da N. Bulganin (febbr. 1955); nel 1958 Chruščëv assunse anche la guida del governo. Partendo dall’idea che una guerra mondiale in epoca nucleare non poteva portare alla vittoria di nessuno, Chruščëv, dopo aver promosso la formazione del Patto di Varsavia nel 1955, lanciò una politica di distensione, rafforzando al tempo stesso i legami con l’India e altri Paesi di nuova indipendenza. Nel febbr. 1956, al 20° Congresso del PCUS, accusò Stalin di aver creato un regime basato sul terrore, indicando fra le conseguenze di questo anche un indebolimento del ruolo del partito. Nel maggio 1957 il tentativo di rovesciare Chruščëv a opera di un gruppo guidato da Molotov fallì. La campagna di destalinizzazione non andò però molto oltre alla critica della collettivizzazione e dell’industrializzazione forzata e alla riabilitazione degli oppositori di Stalin. Tuttavia fu rafforzato il ruolo del partito, e i lavoratori ottennero il diritto di cambiare lavoro, mentre i gulag furono in gran parte smantellati. La fine del terrore diede inoltre una ulteriore spinta alla produttività; i consumi pro capite aumentarono e gli standard abitativi migliorarono. Una parte rilevante delle risorse era però ancora destinata all’industria meccanica e alla difesa. Il complesso militare-industriale continuò a dominare l’economia e alcune conquiste dell’industria spaziale (come il lancio dello Sputnik nel 1957) richiesero enormi investimenti soffocando altri campi della ricerca. Gli effetti destabilizzanti prodotti dalla destalinizzazione in Europa orientale indussero la leadership sovietica a reimporre, anche con l’uso della forza, la propria egemonia; nel nov. 1956 truppe del Patto di Varsavia intervennero in Ungheria per reprimere la rivolta antisovietica scoppiata poco prima. La politica di coesistenza pacifica subì una battuta d’arresto con la crisi provocata dal dispiegamento a Cuba di missili sovietici in risposta ai missili statunitensi in Turchia (1962). Al tempo stesso si deteriorarono le relazioni con la Cina, contraria alla destalinizzazione e isolata dalla politica di distensione fra i due blocchi. Nell’ott. 1964, Chruščëv, indebolito dalle difficoltà economiche riemerse e dalla crescente resistenza alla riforma del partito, fu spinto alle dimissioni.
La nuova generazione giunta al potere fu guidata da L.I. Brežnev, primo segretario del partito (dal 1966, segretario generale) e da A.N. Kosygin, che assunse la guida del governo. I progetti di riorganizzazione del partito furono abbandonati e sul piano culturale venne riassunta una politica repressiva. Di fronte all’insufficienza della produzione agricola furono introdotte alcune misure di liberalizzazione. Nel settore industriale fu aumentata l’autonomia delle imprese; queste riforme diminuirono però il controllo sull’economia da parte del partito. Inoltre, in connessione a tali orientamenti, emersero diffuse istanze riformatrici nei Paesi dell’Europa orientale; nel 1968, in Cecoslovacchia, A. Dubček avviò un processo di democratizzazione, ma la cd. dottrina Brežnev sulla sovranità limitata nei Paesi socialisti giustificò l’intervento del Patto di Varsavia e la sostituzione della dirigenza riformista con una filosovietica. D’altra parte, vi fu una nuova spinta in favore della distensione, i cui principali risultati furono il Trattato di non proliferazione nucleare (luglio 1968), nel 1972 la firma del SALT I e nel 1975 l’Atto finale della CSCE a Helsinki. Le relazioni con la Cina subirono invece un ulteriore peggioramento, fino agli scontri di frontiera del 1969, mentre la Cina si rendeva protagonista di un clamoroso avvicinamento agli USA. La politica estera moscovita tendeva intanto a rafforzare l’influenza sovietica nel Medio Oriente e in altri settori strategici: nel Corno d’Africa, in Angola e Mozambico. La seconda metà del decennio vide inoltre una crescente ingerenza in Afghanistan, sfociata nell’invasione del dic. 1979; ne seguì un deciso deterioramento dei rapporti con l’Occidente (anche se nel 1979 si arrivò alla firma del SALT II), aggravato dal sostegno di Mosca all’azione repressiva del governo polacco nel dic. 1981. Sul piano interno, le autorità si adoperarono per conservare un certo livello di consenso garantendo la sicurezza dell’impiego e mantenendo bassi i prezzi dei beni di base e delle abitazioni. Il finanziamento di questa politica provenne dall’aumento delle vendite di materie prime, in particolare petrolio e gas, all’Occidente. Tuttavia la produttività del lavoro continuò a diminuire, come risultato della mancanza di incentivi e della carenza di beni di consumo. L’ipertrofica crescita del complesso militare-industriale e l’arretratezza dell’industria civile provocarono una certa stagnazione. Dagli anni Settanta l’URSS scontò un parziale declino degli indici economici, mentre aumentava il gap tecnologico con le società occidentali più avanzate. La politica di distensione produsse risultati contraddittori: da un lato la crescita del commercio estero e i massicci scambi petrolio/grano permisero un miglioramento degli standard di vita della popolazione; dall’altro, l’aumento dei contatti facilitò lo scambio di informazioni e idee, lo sviluppo di un movimento di dissenso e l’aumento della pressione emigratoria. Nel 1977 Brežnev assunse anche la carica di presidente del Presidium del Soviet supremo. Gli aspetti autoritari del sistema furono accentuati e con la Costituzione del 1977 venne istituzionalizzato il ruolo dirigente del Partito comunista. La crescita di quest’ultimo, che negli anni Ottanta superò i 19 milioni di membri, fu accompagnata da una mancanza di ricambio nelle più alte cariche, sfociata nell’invecchiamento della dirigenza. Dopo la morte di Brežnev (nov. 1982), emerse, in una parte della leadership sovietica, la consapevolezza della necessità di un rinnovamento; J.V. Andropov, nuovo segretario generale, avviò una campagna contro la corruzione ai vertici del partito e per il rafforzamento della disciplina del lavoro, interrotta dalla sua morte (febbr. 1984). Dopo la breve parentesi di K.U. Černenko, espressione della maggioranza brezneviana, il cinquantaquattrenne M.S. Gorbačëv divenne il nuovo segretario generale (marzo 1985).
URSS. La nuova leadership promosse il ricambio nelle più alte cariche del partito e dello Stato: nuovo presidente del Consiglio fu N. Ryžkov, mentre ad A. Gromyko, ora presidente del Presidium del Soviet supremo, subentrò come ministro degli Esteri E. Ševardnadze. La campagna promossa da Gorbačëv per una maggior trasparenza e libertà di informazione (glasnost) ricevette un forte impulso dall’ondata di indignazione popolare seguita ai tentativi degli organi di stampa di soffocare le informazioni sulle conseguenze del disastro di Černobyl′ (apr. 1986). L’arrivo di Gorbačëv al potere comportò inoltre una svolta in politica estera, improntata al dialogo con gli USA e all’idea di interdipendenza: numerosi incontri fra dirigenti sovietici e statunitensi fra il 1985 e il 1989 portarono a rapidi progressi sul controllo degli armamenti, sui diritti umani e sulla libertà di emigrazione. A partire dal 1989 le truppe sovietiche cominciarono a ritirarsi dall’Afghanistan e furono ridotte le spese militari. Nel 1987 Gorbačëv avviò un programma di riforma economica, noto come perestrojka («ristrutturazione»), incentrato sull’introduzione di limitate misure di liberalizzazione. Di fronte alle difficoltà incontrate, Gorbačëv avviò un rinnovamento del sistema politico, volto a favorire una maggiore partecipazione democratica: una nuova legge elettorale introdusse un certo grado di competizione nelle elezioni (marzo 1989) per il nuovo Parlamento, il Congresso dei deputati del popolo; furono ridotti i poteri del KGB e degli altri organi repressivi dello Stato e ristretta la censura. Ridurre gli spazi del partito e della pianificazione centralizzata ebbe però degli effetti negativi sul piano economico. Nel marzo 1990 Gorbačëv venne eletto presidente della Repubblica, carica appena creata dal Congresso dei deputati del popolo. Abrogato il monopolio del PCUS, furono poste le basi di un sistema multipartitico e si costituirono vari partiti. Tra le conseguenze della politica di Gorbačëv vi fu intanto il crollo del blocco comunista: il crescente indebolimento e il disimpegno sul piano internazionale dell’URSS portarono nel 1989 al collasso dei regimi di tipo sovietico dell’Europa dell’Est. All’interno del Paese la crisi economica rivelò la fragilità dello Stato multietnico, facendo emergere rivendicazioni e contrasti nazionali. Il governo non riuscì a fermare né le violenze interetniche scoppiate in numerose repubbliche centroasiatiche nel 1989-90, né la guerra fra armeni e azeri per il Nagorno-Karabach. Nel 1990-91 inoltre le elezioni locali registrarono un significativo successo per i candidati nazionalisti in molte repubbliche. Nella Repubblica russa emerse un forte movimento, guidato da B.N. El′cin, che combinò le rivendicazioni radical-democratiche e nazionaliste e combatté per la sovranità economica e politica della Russia. Nel 1990 El′cin divenne presidente del Soviet supremo della Repubblica russa, avviando una politica di marca sempre più separatista. Nel marzo 1990 Lituania, Lettonia ed Estonia proclamarono la propria indipendenza. Gorbačëv tentò di frenare la frammentazione del Paese, e un referendum popolare vide la grande maggioranza dei votanti esprimersi in favore del mantenimento in vita dell’URSS. Fu preparato un nuovo trattato dell’Unione, con il quale venivano fatte considerevoli concessioni alle repubbliche federate. Nell’ag. 1991, al momento della prevista firma, esponenti antiriformatori all’interno del governo e i vertici militari e del complesso militare-industriale tentarono di rovesciare Gorbačëv. Il colpo fallì per le esitazioni dei promotori e il mancato appoggio dell’esercito. El′cin, i leader delle repubbliche baltiche e quelli di poche altre repubbliche federate si opposero al colpo di mano e il primo emerse come la figura politica predominante, bandendo il Partito comunista dalla RFSFR. Le repubbliche baltiche proclamarono la separazione dall’Unione Sovietica, venendo riconosciute dalla Repubblica russa (24 agosto 1991) e da vari Paesi occidentali. Tutte le repubbliche federate proclamarono quindi la propria indipendenza. Nell’incontro dell’8 dic. 1991 fra i presidenti di Russia, Ucraina e Bielorussia, convocato per discutere i termini del nuovo trattato, la leadership ucraina si oppose nettamente a una futura unione. I leader delle tre repubbliche proclamarono allora la dissoluzione dell’URSS. Il 21 dic., undici repubbliche sovietiche annunciarono la creazione della Comunità di Stati indipendenti, e quattro giorni dopo Gorbačëv si dimise da presidente dell’URSS.