utilitarismo
Dottrina etica che rinvia per la sua origine agli scritti di Bentham (➔) e che si affermò nella cultura filosofica britannica dell’Ottocento, grazie soprattutto alla formulazione che ne diede J.S. Mill (➔). Costituisce una delle principali espressioni dell’etica contemporanea. L’u. attribuisce un valore intrinseco alla felicità generale, intesa come la condizione in cui l’ammontare del piacere è prevalente rispetto all’ammontare del dolore. Utilità, a sua volta, è la proprietà che un’azione o una linea di condotta hanno di produrre conseguenze positive nel bilancio del piacere e del dolore. Come dottrina etica, l’u. prescrive all’agente morale di scegliere quelle azioni che tendono a promuovere la maggiore felicità possibile, non solo dell’agente, ma di tutti gli esseri senzienti (in grado cioè di provare piacere e dolore) che possono essere coinvolti nell’azione stessa. Per questo l’u. è definito un’etica consequenzialista, nel senso che l’azione non viene valutata in sé stessa, ma per le conseguenze, prossime o remote, che ne possono derivare, e si distingue dalle etiche del dovere (etiche deontologiche), per le quali alcune azioni devono essere compiute unicamente in quanto giuste a prescindere dalle possibili conseguenze. In quanto dottrina che identifica il bene con il piacere e la felicità, si possono trovare antecedenti dell’u. già nella filosofia greca, ma soltanto con Bentham il principio di utilità è posto alla base di un compiuto sistema filosofico.
Nella formulazione benthamiana il principio di utilità ha per scopo la promozione della «massima felicità per il maggior numero di individui». L’espressione non era un’invenzione di Bentham, né era una novità il richiamo all’utilità, che, da Hutcheson a Beccaria, da Hume a Helvétius, percorre nella seconda metà del Settecento tutta la cultura illuministica. L’originalità di Bentham sta nell’aver elevato il principio di utilità a criterio interpretativo esclusivo nei campi dell’etica, dell’economia, della legislazione civile e penale. Grazie alla sua semplicità e al suo riferimento a esperienze psicologiche elementari, come il piacere e il dolore, quel principio appariva a Bentham l’unico in grado di rendere accessibile a tutti una valutazione oggettiva delle norme che creano gli obblighi del vivere civile. Basato su di una minuziosa classificazione dei piaceri e dolori sensibili, il cosiddetto «calcolo della felicità» si configurava come lo strumento atto a promuovere la morale e la legislazione al rango di discipline scientifiche, sul modello della fisica newtoniana. Di più, una morale e una legislazione plasmate sul principio di utilità avrebbero fornito le sanzioni opportune per motivare verso condotte rivolte alla felicità generale individui naturalmente mossi da interessi egoistici. L’orientamento verso la riforma delle istituzioni impresso da Bentham all’u. aveva finito con il privilegiare l’aspetto ‘legalistico’ della dottrina.
Sensibile ad alcuni spunti della critica romantica alle dottrine illuministiche, J.S. Mill si impegnò a rivedere in profondità lo statuto etico dell’u., individuandone il limite principale nel fatto che la benthamiana meccanica dei piaceri impediva l’accesso all’interiorità dell’individuo e trascurava del tutto la dimensione della coscienza e dei sentimenti morali. L’ampliamento della dottrina, ottenuto grazie all’introduzione nel calcolo dei piaceri di una originale considerazione della dimensione qualitativa dei piaceri stessi, non intaccava l’impianto teorico di fondo dell’u., ma permetteva di riconoscere che esistono tipi di piacere che sono più desiderabili e hanno più valore degli altri, stabilendo per questa via la superiorità dei piaceri dell’intelletto, dei sentimenti morali e dell’immaginazione rispetto ai piaceri sensibili. Con la supremazia accordata ai piaceri legati all’esercizio delle facoltà superiori dell’uomo, J.S. Mill faceva rientrare nell’ambito dell’u. valori come l’autonomia del soggetto e il desiderio di perfezionamento dell’uomo, rivendicati dalle concezioni avverse all’u., quali l’etica kantiana o l’etica intuizionistica della scuola scozzese del senso comune. La focalizzazione sui sentimenti morali in una prospettiva utilitaristica era resa possibile in J.S. Mill dall’adesione alla psicologia associazionistica, cui aveva già fatto ricorso suo padre, James Mill, per spiegare il processo di formazione della coscienza individuale a partire dalle sensazioni elementari di piacere e di dolore. Sviluppando queste tematiche, Spencer formulò la proposta di un u. «scientifico»” basato sulla teoria dell’evoluzione e teso a colmare il divario tra utilitaristi e intuizionisti, mostrando come le intuizioni morali dell’individuo, istintive e dunque innate, sono comunque il prodotto delle esperienze di utilità accumulate nella storia della specie. Su di un piano diverso – quello dell’analisi dei metodi dell’etica – il tentativo di conciliazione tra u. e intuizionismo fu portato avanti da Sidgwick, nella convinzione che l’intuizione di principi autoevidenti costituisca il tratto essenziale non solo dell’u., ma di ogni teoria etica.
La ripresa dell’u. nel 20° sec. si è rivolta principalmente all’elaborazione di un’etica in grado di rendere adeguatamente conto della morale quotidiana, privilegiando una prospettiva soggettivistica rispetto all’obbiettivo tradizionale della massimizzazione della felicità generale. Harsányi ha proposto in questo senso una forma di u. delle preferenze personali, conciliando u. e teoria della scelta razionale. Sul piano più specificamente teorico, l’esigenza di riaffermare la centralità nella vita morale di regole di condotta valide in generale ha animato il dibattito interno all’u., contrapponendo i sostenitori di un u. della regola (Toulmin, P. Nowell-Smith, R. Brandt), che privilegia la giustificazione utilitaristica di norme generali, ai fautori di un u. dell’atto (per es., J.L. Smart), che richiamandosi al principio utilitaristico fondamentale, ritengono sia da privilegiare di volta in volta quell’azione che ha le conseguenze migliori.