Valori
Il termine 'valore' è usato abitualmente nel linguaggio ordinario in due significati diversi, ma interscambiabili. In un primo significato qualsiasi cosa sia ritenuta oggettivamente importante o sia soggettivamente desiderata è o ha un valore. In un secondo significato il valore non indica l'oggetto dell'interesse, ma il criterio della valutazione, ossia il principio generale in base al quale approviamo o disapproviamo una certa azione, come quando disapproviamo chi non mantiene la parola data, perché non rispetta un principio di lealtà nei rapporti interpersonali. Nel linguaggio comune i 'valori', al plurale, indicano gli ideali a cui gli esseri umani aspirano.
Divenuto uno dei concetti fondamentali della filosofia, soprattutto con la 'teoria dei valori' sviluppata nella cultura tedesca tra Ottocento e Novecento, da Wilhelm Windelband e Heinrich Rickert, il termine entra nel linguaggio delle scienze sociali con la sociologia classica, dove assume un significato in parte diverso da quello del linguaggio comune. Nella formulazione data da Max Weber, che riprende criticamente alcuni fondamentali lavori degli storicisti tedeschi, si ritrovano già le due caratteristiche centrali che il concetto di valore manterrà, con alcune interruzioni e oscillazioni, fino ad oggi. Innanzitutto il valore non è semplicemente inteso come l'oggetto di una preferenza, come ciò che è desiderato, ma assume una connotazione normativa. Il valore non è, però, nemmeno un ideale astratto, sganciato dalle scelte effettive. Nei suoi saggi metodologici Weber (v., Gesammelte ..., 1922) considera i valori come la guida e l'orientamento delle scelte stesse. I valori si realizzano, dunque, storicamente e si connettono in vario modo con la realtà sociale, l'organizzazione economica e giuridica, le tradizioni, i costumi e i simboli di una collettività. Weber mette in luce non solo le ragioni della loro rilevanza per l'agire sociale, compreso quel particolare tipo di agire che è l'agire scientifico, ma indica anche in quale 'veste' essi possono diventare oggetto di indagine scientifica. Alle scienze sociali, in quanto scienze empiriche, non spetta il compito di determinare la validità ideale dei valori, ma quello di spiegare la loro genesi, le condizioni della loro realizzazione, la loro funzione, comprendendone nello stesso tempo il significato. In un quadro teorico e intellettuale assai diverso da quello weberiano, negli stessi anni, anche Émile Durkheim (v., 1920) ha dato un contributo fondamentale alla definizione del concetto, distinguendo la morale dai mœurs, ossia il piano degli ideali normativi e dei valori, costituiti da 'rappresentazioni' e 'stati di coscienza', da quello delle pratiche e della condotta abitudinaria. Sostenendo l'irriducibilità dei valori al comportamento, Durkheim ha conferito all'analisi di questo campo quell'impostazione antibehaviorista che, pur con qualche ambiguità, continua a caratterizzarlo.
Nella scienza sociale americana d'inizio secolo si è, però, in un primo tempo affermata, con l'opera pionieristica di William I. Thomas e Florian Znaniecki (v., 1918-1920), una definizione del concetto molto più ampia di quella sviluppata dalla sociologia europea. Il significato di valore, definito in opposizione al concetto psicologico di 'atteggiamento' (attitude), indica qualunque oggetto rivesta un significato per i membri di un gruppo sociale. Secondo questa prospettiva "un genere alimentare, uno strumento, una moneta, un pezzo di poesia, una università, un mito, una teoria scientifica sono valori sociali" (ibid.; tr. it., p. 26). L'importanza della definizione risiede soprattutto nell'aver distinto chiaramente due ambiti: quello sociale, costituito dai valori a cui si attribuisce la funzione di stimolare gli atteggiamenti, e quello individuale, costituito dai processi soggettivi e dalle disposizioni personali dei singoli nei confronti dei valori, ossia gli atteggiamenti. Definendo questi ultimi come le controparti individuali dei valori sociali, i due autori hanno contribuito soprattutto a indirizzare la psicologia sociale verso lo studio degli atteggiamenti, ritenuti espressioni dell'individualità del singolo, ma non sono stati in grado di dare uno sviluppo analogo alla ricerca sui valori. La definizione dei valori come oggetti sociali significativi, anche a causa della sua eccessiva ampiezza, è stata col tempo abbandonata.
Dopo un lungo periodo in cui la tematica dei valori viene quasi completamente trascurata, mentre si approfondisce la frattura tra una sociologia interessata ai comportamenti e alle istituzioni e una psicologia sociale incentrata sullo studio degli atteggiamenti, a partire dagli anni cinquanta il concetto riacquista un ruolo importante e si assiste al moltiplicarsi delle ricerche e degli studi su questo tema in tutte le scienze sociali, in corrispondenza di un sempre più marcato interesse per l'analisi scientifica degli aspetti soggettivi della cultura e dell'azione sociale. Il concetto cambia, però, di significato: la definizione di Thomas e Znaniecki non è più utilizzata, mentre viene recuperata la componente di normatività attribuita ai valori dalla sociologia classica. Una formulazione particolarmente chiara in questa direzione è fornita dall'antropologo Clyde Kluckhohn che intraprende in quegli anni, insieme ad altri studiosi, un vasto progetto di analisi comparata dei valori. "Un valore - sostiene Kluckhohn (v., 1951, p. 395) - è una concezione del desiderabile, esplicita o implicita, distintiva di un individuo o caratteristica di un gruppo, che influenza l'azione con la selezione fra modi, mezzi e fini disponibili". Si distingue, in questo modo, ciò che è 'desiderato' o preferito da ciò che è 'desiderabile', ciò che vogliamo da ciò che dovremmo volere. Si potrebbe anche dire che un valore è una 'preferenza' che si considera giustificata moralmente in base al ragionamento o al giudizio estetico. Come ha sostenuto Albert O. Hirschman (v., 1985; tr. it., p. 422), mentre de gustibus non est disputandum, "un gusto su cui si discute, con altri o con se stessi, cessa ipso facto di essere un gusto - diventa un valore". Questa dimensione normativa consente inoltre di distinguere, sul piano analitico, i 'giudizi di valore' dai 'giudizi di fatto', che esprimono una valutazione sull'esistente.Nella nozione di valore sono dunque riconoscibili tre componenti fondamentali: 1) affettiva ('il desiderabile'); 2) cognitiva ('concezione'); 3) conativa ('selezione') (v. Kluckhohn, 1951, p. 395). La componente affettiva dei valori implica la collocazione di oggetti, persone, azioni lungo un continuum di approvazione-disapprovazione. I valori, infatti, sono resi socialmente operanti attraverso il biasimo riservato a coloro che mostrano di non riconoscerli. Imbarazzo, vergogna, colpa rappresentano i correlati soggettivi suscitati dall'agire non conforme ai valori condivisi. Già Durkheim aveva sottolineato, con un'enfasi forse eccessiva, le violente emozioni che la violazione delle norme e dei valori sedimentati nella 'coscienza collettiva' è in grado di suscitare. L'aspetto cognitivo dei valori rimanda al loro presentarsi sotto forma di enunciati del tipo "X è buono", "X è legittimo", "X è giusto" (v. Boudon, 1995; tr. it., p. 13), che hanno un senso argomentabile da parte dell'attore sociale. Infine la componente selettiva fa riferimento alla capacità dei valori di orientare l'agire umano. Essi, come aveva già sottolineato Weber, si realizzano nella scelta tra diversi corsi di azione.
Nonostante si sia realizzata una certa convergenza sul significato da attribuire alla nozione di valori, permangono margini di ambiguità sul piano teorico e metodologico. Sul versante sociologico, il concetto non ha confini chiari con quello di norma sociale. I sociologi perlopiù adottano come criterio di distinzione il grado di generalità: i valori forniscono dei riferimenti generali per l'agire sociale, mentre le norme orientano la condotta in situazioni specifiche. L'onestà, secondo questo criterio, è un valore; l'ingiunzione di non copiare durante i compiti in classe è una norma. Questo criterio tuttavia non consente una distinzione rigorosa sul piano analitico (v. Rositi, 1986, p. 362): se aiuta a distinguere i valori dalle regole tecniche o dalle norme deontologiche, appare assai meno utile per un ampio ventaglio di norme sociali che non prevedono sanzioni formali, come la 'norma di reciprocità' studiata da Alvin W. Gouldner (v., 1960) che prescrive di ricambiare i favori ricevuti. Questa difficoltà di tracciare un confine rigoroso tra la sfera dei valori e quella delle norme sociali fa sì che in molta letteratura sociologica e antropologica si usino spesso indifferentemente i due termini. Sul versante psicosociale, il concetto non ha confini chiari con quello di atteggiamenti. Già Thomas e Znaniecki, come si è detto, hanno distinto i valori dagli atteggiamenti in base all'ambito sociale e individuale a cui fanno rispettivamente riferimento. Tuttavia - come è stato da più autori sottolineato - manca finora un modello psicologico adeguato capace di raccordare il livello dei processi intraindividuali con quello delle relazioni interindividuali. Ne è derivata la tendenza della psicologia sociale ad assimilare, nella pratica di ricerca e nei metodi di misurazione, valori sociali e atteggiamenti, trattando questi ultimi come indicatori dei primi (v. Trentin, 1991).
Sia la complessità della definizione del concetto di valore sia il permanere di una certa ambiguità teorica nel trattare l'articolazione tra il livello individuale e quello sociale, pongono difficili interrogativi metodologici sul modo di operativizzare le dimensioni concettuali dei valori per studiarli empiricamente. Mentre alcuni autori, soprattutto nel campo della psicologia sociale e della scienza politica, propendono per la rilevazione strutturata attraverso questionari e l'uso di tecniche di scaling (v. Rokeach, 1973; v. Inglehart, 1990; v. van Deth e Scarbrough, 1995), altri, soprattutto sociologi e antropologi, ritengono che la rilevazione attraverso interviste discorsive e l'analisi del contenuto di materiali linguistici siano procedure più adatte a cogliere le connessioni semantiche che organizzano i valori (v. Rositi, 1993). I due indirizzi non hanno finora dato vita, come sarebbe auspicabile, a un approccio integrato che sviluppi le formulazioni teoriche e le traduca in sistemi di ipotesi ad ampio raggio, in modo da tenere conto della natura multidimensionale dei valori.
Nelle pagine che seguono, più che fare una rassegna storica, intendiamo affrontare lo studio dei valori in base alle questioni principali che sono state poste dalle scienze sociali, considerando il contributo della sociologia classica per quegli aspetti che sono ancora oggi attuali. Bisogna, d'altro canto, precisare che - salvo alcune importanti eccezioni (tra cui Boudon e Habermas) - l'analisi dei valori è stata in gran parte trascurata dalla teoria sociale contemporanea (v. Hechter, 1992; v. Rositi, 1993) e solo in anni molto recenti si è assistito a una forte ripresa di interesse per l'argomento. Le questioni più importanti si possono riassumere così: in primo luogo i valori possono essere analizzati nelle loro relazioni interne. La domanda, in questo caso, è se i valori siano connessi in un 'sistema', e quale sia la logica della loro combinazione (v. cap. 2). In secondo luogo, i valori possono essere considerati come 'variabili indipendenti'. La questione principale riguarda allora l'influenza dei valori sull'agire e la loro funzione sociale (v. cap. 3). I valori, infine, sono stati studiati come 'variabili dipendenti'; la questione concerne in questo caso sia la spiegazione della loro genesi - quali 'fattori' cioè sono ritenuti decisivi perché gli individui o i membri di un gruppo aderiscano a certi valori (v. cap. 4) - sia la descrizione e l'interpretazione di come i valori mutano nel corso del tempo in relazione ai cambiamenti economici, politici, sociali e delle forme di socializzazione (v. cap. 5).
L'analisi sociologica, antropologica e psicologica al fine di distinguere i diversi elementi che caratterizzano i valori tende a classificarli in base ad alcune 'dimensioni' di fondo. La prima dimensione riguarda il contenuto; i valori, in base ad essa, si differenziano in estetici, cognitivi, economici, religiosi, politici e morali. La seconda dimensione riguarda la collocazione nella catena mezzo-fine. Si distinguono a questo proposito due tipi di valori: i valori strumentali, che attengono ai 'modi di condotta' desiderabili per raggiungere ulteriori fini, e i valori finali, che riguardano 'stati finali desiderabili dell'esistenza' (v. Rokeach, 1973, p. 7). Se considerato in questa chiave, il valore della salvezza per l'uomo religioso sarebbe un fine ultimo raggiungibile con una condotta morale conforme alle prescrizioni divine. Nonostante numerosi scienziati sociali diano grande importanza a questa distinzione, è utile ricordare che essa non è molto rigorosa in quanto dipende dalla prospettiva temporale: in un processo che si svolge nel tempo, il valore che ad un dato momento era strumentale può diventare finale in uno stadio successivo. Inoltre, essendo particolarmente legata al contesto culturale occidentale, tale distinzione non si presta, come è stato fatto notare, a rappresentare uno schema generale utilizzabile nell'analisi comparativa (v. Kluckhohn, 1951, p. 413).
La terza dimensione riguarda l'estensione. Mentre alcuni valori risultano estesi a tutti i membri di una collettività nazionale o di una civiltà, altri riguardano soltanto settori limitati di queste, come una classe sociale, una professione, un'associazione, un gruppo religioso, un'area culturale specifica. Il grado più ampio di diffusione identifica quei valori che trascendono le differenze culturali e sono condivisi dall'intera umanità, almeno entro una determinata epoca storica. Rispetto a questi valori universali, tutti gli altri appaiono particolari, anche se con gradi diversi di generalità. La presenza di valori universali è controversa ed è molto diffusa, tra sociologi e antropologi, la tesi che i valori siano completamente relativi alla cultura da cui derivano e legati al flusso incessante del divenire storico. Tuttavia il problema della diffusione dei valori, che spesso si intreccia con quello della loro validità, alimentando prese di posizioni radicalmente relativiste, è prima di tutto un problema empirico. Il fatto che gli scienziati sociali abbiano preferito indagare la variabilità culturale dei valori non significa peraltro che più accurate indagini orientate in questa direzione non riescano a rilevare l'esistenza di valori o nuclei di valori transculturali. Questi potrebbero essere legati al fatto che ogni esistenza umana è invariabilmente un'esistenza sociale. Nessuna società - sostiene Kluckhohn (ibid., p. 418) - ha mai apprezzato la sofferenza come una cosa buona in se stessa, né esistono culture che non attribuiscano una valutazione negativa all'omicidio, alla menzogna indiscriminata, al furto all'interno del gruppo, anche se variano le condizioni di tollerabilità.
La quarta dimensione riguarda l'intensità. Alcuni valori hanno una maggiore influenza di altri sui comportamenti dei membri del gruppo e sollevano più forti reazioni emotive quando non vengono rispettati. Tra i valori dominanti, sostenuti dall'élite più potente all'interno di un gruppo e caratterizzati dal più alto grado di approvazione e riconoscimento, e i valori devianti, idiosincratici o caratteristici di una minoranza marginale, si possono situare anche i valori varianti, che comportano un basso livello di approvazione, verso i quali c'è tolleranza più che punizione (v. Kluckhohn e Strodtbeck, 1961). Soprattutto questi ultimi lasciano margini di libertà e di innovazione agli individui.
La quinta dimensione riguarda l'organizzazione o coerenza. Questa dimensione fa riferimento al fatto che nell'esperienza i valori non emergono isolatamente e indipendentemente, ma in relazione più o meno stretta con altri valori. Fa parte del discorso abituale dire che "A è più buono, più bello, più giusto di B" o che nelle società industriali il successo è più importante dell'onore. Lo psicologo Milton Rokeach (v., 1967, 1968 e 1973) ha sostenuto che i valori sono organizzati lungo un continuum di importanza, ossia in una gerarchia stabile e duratura, variabile da individuo a individuo. Egli è arrivato a questa conclusione con un'indagine di laboratorio in cui si chiedeva ai soggetti di ordinare gerarchicamente diciotto valori finali e diciotto strumentali. Tuttavia numerosi lavori successivi in ambito psicologico hanno sottolineato i limiti di questo approccio: l'astrattezza e l'ambiguità semantica delle formulazioni renderebbero artificioso il compito di dare un ordine di priorità a una lista di voci singole, difficilmente proponibile a soggetti con livelli di istruzione medi o bassi e particolarmente problematico se rivolto a individui appartenenti a diversi contesti linguistici e culturali. Nel complesso la ricerca empirica che, negli anni settanta e ottanta, si è ispirata al metodo di rilevazione di Rokeach non è riuscita a dimostrare in maniera convincente l'esistenza di un'organizzazione gerarchica dotata di una certa stabilità e costanza.
L'analisi di questa dimensione, in ambito sociologico e antropologico, ha seguito un'altra strada, approfondendo soprattutto l'organizzazione logico-semantica dei valori con un intento comparativo. Sono stati per primi i sociologi classici, in particolare Max Weber ed Émile Durkheim, a trattare i valori non come dati ultimi e irriducibili, ma come insiemi di grande complessità. Le 'immagini del mondo' presenti nelle 'religioni universali' costituiscono per Weber (v., 1920) delle configurazioni complesse in cui credenze religiose si combinano con orientamenti valutativi generando delle strutture di senso. Il sistema di valori del protestantesimo ascetico combina elementi a prima vista paradossali, come la credenza dogmatica nella predestinazione, e la valorizzazione dell'impegno professionale. È in questa combinazione - di sottomissione al volere divino e di ricerca dei suoi segni nel lavoro quotidiano - che l'etica protestante ha orientato l'agire economico capitalistico. L'individualismo delle società occidentali moderne studiato da Durkheim (v., 1898) è anch'esso una configurazione complessa nella quale la valorizzazione dell'individuo prende la forma del rispetto sacrale per la persona, la sua dignità e integrità, e del primato interamente laico dell'autonomia individuale.
Gli antropologi hanno sempre dovuto tenere conto, in una certa misura, dei valori e delle credenze dei popoli studiati, anche se, in generale, almeno fino alla conclusione della seconda guerra mondiale, hanno usato il concetto di valore in senso vago, più o meno come sinonimo di 'modello culturale'. Un grande impulso in direzione di una maggiore precisazione concettuale e della ricerca sui sistemi di valori, ossia sui modi in cui proposizioni valutative e credenze si combinano dando luogo a insiemi dotati di una certa coerenza e stabilità, è venuto dai lavori di antropologi e sociologi americani come Clyde Kluckhohn, Talcott Parsons, Robert Redfield, Walter Goldschmidt e altri. Il loro scopo principale è quello di descrivere, con un metodo comparativo, la grande diversità esistente tra le culture umane, nella convinzione che un dato valore può essere compreso solo nel contesto del sistema di idee in cui è inserito. Il valore che molti popoli attribuiscono al mangiare insieme, ad esempio, deve essere compreso nel complesso delle loro idee riguardo al cibo, all'ospitalità, ai doveri verso i vicini e gli stranieri e così via. Come ha più recentemente mostrato Louis Dumont (v., 1983), il valore dell'individuo assume significati profondamente diversi, addirittura antitetici, se inserito nei limiti definiti da una concezione gerarchica della società come avviene nella cultura indiana, o se si combina con i valori egualitari della moderna cultura occidentale.
Kluckhohn (v., 1956), in un'indagine comparativa sui valori che mette a confronto cinque culture del Nuovo Messico, ha descritto le caratteristiche dei rispettivi sistemi di valori indagando l''enfasi' posta da ogni cultura sul tipo di rapporto desiderabile con la natura, gli altri individui e il Sé entro un insieme definito di alternative e analizzando successivamente le diverse combinazioni. La tesi di Kluckhohn è che i valori si presentano in forma dicotomica, per cui ad una situazione giudicata desiderabile corrisponde una situazione ritenuta indesiderabile. Se si considera, ad esempio, la concezione del rapporto tra uomo e natura, ogni cultura prenderà posizione, esplicitamente o implicitamente, per un corno di ciascuna delle tre alternative ritenute fondamentali a rappresentare la natura: 'determinata-indeterminata'; 'unitaria-pluralista'; 'maligna-benigna'. Talcott Parsons (v., 1951) ha sviluppato la stessa idea, per cui i sistemi di valori sociali sono costituiti da combinazioni di scelte entro cinque dilemmi fondamentali, chiamati 'variabili strutturali', che si presentano ad ogni attore sociale e ai quali egli deve dare una risposta orientando la propria azione: 'affettività-neutralità affettiva'; 'orientamento in vista dell'ego-orientamento in vista della collettività'; 'universalismo-particolarismo'; 'realizzazione-attribuzione'; 'specificità-diffusione'. Da questo tipo di indagine si ricava che i sistemi di valori, pur costituendo degli insiemi relativamente aperti, hanno tuttavia una logica che non consente ogni tipo di combinazione. Secondo Parsons, ad esempio, un individuo coinvolto in un sistema di parentela esteso, come nell'Europa medievale e nella Cina classica, deve orientarsi verso scelte e ruoli 'affettivi', 'particolaristici', 'orientati al gruppo', 'diffusi' e 'ascritti' (non acquisiti). Tutti questi orientamenti di valore hanno strette implicazioni logiche, incompatibili con la struttura professionale delle società industriali. I valori, inoltre, tendono ad aggregarsi intorno a un numero limitato di valori 'focali' (v. Albert, 1956) che definiscono le qualità approvate o disapprovate della personalità, le 'virtù' e i 'vizi', e che appaiono in combinazioni anche molto diverse nel corso del tempo.
La funzione regolatrice e integratrice esercitata dai valori nei confronti della società, in virtù della loro capacità di orientare il comportamento degli individui, è non solo affermata con forza dalla sociologia classica, ma è anche generalmente riconosciuta dalle varie scienze sociali che in tempi successivi si sono occupate di questo tema. Non vi è però una convergenza altrettanto ampia sulla reale portata, ossia sulla pervasività ed efficacia esclusiva, di tale funzione regolatrice, né sono stati sufficientemente chiariti e approfonditi i meccanismi attraverso i quali essa si realizza a livello dell'individuo.
Durkheim ha elaborato, negli anni a cavallo del secolo, uno schema concettuale che ha influenzato gran parte della moderna teoria sociologica e in cui i valori morali svolgono un ruolo centrale nella spiegazione della coesione e dell'ordine sociale. Già ne La divisione del lavoro sociale (1893), in polemica con l'utilitarismo, egli sostiene che anche nelle società moderne, altamente differenziate, permane la necessità di un sistema di norme comuni che regolino la complessa divisione del lavoro e promuovano la solidarietà all'interno dell'organizzazione sociale. Se alle norme e ai valori è sempre riconosciuto kantianamente un carattere obbligatorio, il loro modo di operare nell'esperienza dei soggetti resta però indefinito. Negli scritti successivi il concetto troppo vago e statico di 'coscienza collettiva' è sostituito da quello di 'rappresentazioni collettive', che comprendono sia le categorie più astratte del pensiero, i modi del pensare, sia i contenuti del pensiero, ossia le credenze religiose, mitiche, i valori morali. A questi viene attribuito chiaramente lo status di 'fatti sociali' esterni e costrittivi rispetto alle coscienze individuali. Un decisivo passo avanti per capire in che modo i valori operino costrittivamente sull'agire degli individui si trova in Sociologia e filosofia (1924) e in L'educazione morale (1925), dove principî, valori, norme risultano strettamente legati al concetto di 'autorità' della collettività che rimanda all'idea di rispetto più che di supremazia fisica, al carattere trascendente e sacrale della società. I 'fatti morali' sono obbligatori come lo sono le cose 'sacre': "l'essere sacro è per un verso l'essere proibito, che non si osa violare; ma è anche l'essere buono, amato, ricercato". Così il valore supremo della società moderna, quello dell'individuo, assume caratteri sacri: "La personalità umana è cosa sacra; non si osa violarla, ci si tiene a distanza dal suo territorio, nello stesso tempo però il bene per eccellenza è la comunione con l'altro" (v. Durkheim, 1924, p. 51).
Se l'obbligatorietà dei valori risulta connessa alla loro sacralità e trascendenza, il loro operare resta comunque, in larga misura, irriflesso e compulsivo. Talcott Parsons ha ripreso lo schema concettuale durkheimiano, cercando di conferirgli uno spessore psicologico combinandolo con la prospettiva psicanalitica freudiana. Se per Durkheim i valori sono i modelli istituzionalizzati nell'universo simbolico della società, per Freud essi esistono in quanto sono interiorizzati dall'individuo, in quanto cioè sono divenuti parte integrante della sua personalità. Le due prospettive, quella di Durkheim e quella di Freud, risultano, nella complessa teoria dell'azione elaborata da Parsons, complementari e integrabili. I valori comuni diventano efficaci, capaci di svolgere sia una funzione regolatrice del comportamento dei singoli sia una funzione di coesione sociale, nel momento in cui entrano a far parte delle strutture motivazionali profonde della persona. La duplice natura dei valori, contemporaneamente nell'universo simbolico della società e nella personalità dei suoi membri, rappresenta il pilastro della teoria sociologica di Parsons (v., 1951; tr. it., p. 49): "Questa integrazione di un complesso di modelli di valore comuni con la struttura interiorizzata di bisogno-disposizione delle personalità costituenti rappresenta il fenomeno centrale della dinamica dei sistemi sociali". La tesi di Durkheim dell'importanza strategica dei valori per l'integrazione sociale risulta così rafforzata dall'analisi parsonsiana del processo di socializzazione. Questo si sviluppa attraverso una successione di tappe in cui il bambino, apprendendo dei ruoli, interiorizza anche norme e valori più generali (v. Parsons e Bales, 1955).
A questo schema teorico sono state rivolte molte critiche. La principale è quella di presentare una 'concezione ultrasocializzata dell'uomo', che dà per scontata la coincidenza tra livello individuale e livello sociale. Tra i due livelli esiste invece una sfasatura, particolarmente evidente nelle società contemporanee dove contraddizioni di ruolo e conflitti di valori fanno parte della comune esperienza sociale. L'approfondimento dei meccanismi psicosociali che consentono di affrontare situazioni di conflitto rappresenta uno dei punti cruciali per chi intenda studiare il ruolo dei valori sull'azione. Questa teoria, inoltre, esagera la capacità integratrice dei valori. I valori dividono tanto quanto uniscono. Prima di affermarsi l''ethos capitalistico', come ha mostrato Weber, ha dovuto combattere contro un mondo intero di forze nemiche. In secondo luogo, tale schema sottostima la presenza di altri elementi che orientano l'azione sociale. Oltre ai valori esistono anche gli interessi e la consuetudine, come avevano ben visto Vilfredo Pareto e Max Weber. Quest'ultimo, nella sua nota tipologia dell'agire sociale, oltre all'agire 'razionale rispetto al valore', identifica anche l'agire 'razionale rispetto allo scopo', il comportamento 'tradizionale' e quello 'affettivo' (v. Weber, Wirtschaft und..., 1922; tr. it., p. 22). Inoltre, sul piano del riscontro empirico, decenni di ricerche su valori e comportamenti non sono stati in grado di stabilire in maniera chiara l'esistenza di un condizionamento diretto dei primi sui secondi. Ciò che numerose indagini, svolte in diversi campi, soprattutto nello studio dei fenomeni politici, sono state in grado di mostrare, è l'esistenza di correlazioni tra valori - perlopiù rilevati attraverso gli 'atteggiamenti' espressi verbalmente come risposte a un questionario - e comportamenti (v. van Deth e Scarbrough, 1995). Solleva noti problemi metodologici la tendenza dei ricercatori a pronunciarsi, in questi casi, per un'interpretazione causale.
Per trovare un'analisi più articolata sul piano psicosociale della socializzazione ai valori, che non la riduca a un processo più o meno meccanico di condizionamento attraverso l'interiorizzazione, e ne metta in luce il rapporto con lo sviluppo dell'identità, bisogna rivolgersi innanzitutto ai lavori pionieristici di George Herbert Mead (v., 1934). Il processo di socializzazione è inteso come una successione di fasi, dal 'gioco puro e semplice' al 'gioco organizzato', in cui il bambino, entrando in rapporto con diversi e via via più ampi contesti di interazione, impara progressivamente ad astrarre dai ruoli e dagli atteggiamenti degli altri in particolare, ossia delle persone concrete a lui vicine, giungendo così ai ruoli e agli atteggiamenti degli altri in generale. Il processo che porta all''altro generalizzato', a riconoscere cioè il carattere generale delle norme e dei valori morali, non è un processo unilaterale di condizionamento, ma un rapporto attivo e dialettico di immedesimazione e di autoidentificazione, di riconoscimento da parte degli altri e di definizione di sé.
Nell'ambito della psicologia cognitivistica dello sviluppo, è stata individuata una progressione nella formazione del giudizio morale del bambino che non dipende solo da una logica interna di sviluppo, ma dal carattere del sistema di interazione in cui egli è inserito (v. Piaget, 1932; v. Kohlberg, 1971). L'interesse di questi studi per l'analisi dei valori e del loro rapporto coll'azione sociale consiste nell'aver posto l'attenzione sul fatto che la coscienza morale non riguarda semplicemente l'adozione di un contenuto normativo, ma presenta una struttura cognitiva complessa di cui Lawrence Kohlberg (v., 1971) definisce tre livelli di sviluppo: il 'livello preconvenzionale', composto da singole attese di comportamento e da un orientamento in termini di punizione o ricompensa; il 'livello convenzionale', costituito da attese di comportamento generalizzate e da un'attitudine di conformità ai ruoli sociali; il 'livello postconvenzionale', caratterizzato dalla definizione di principî etici autonomi, secondo i quali possono essere espressi giudizi su conflitti di azione moralmente rilevanti. Il rapporto tra valori e azione sociale risulta, dunque, molto più complesso, sul piano psicologico, della semplice conformità alle aspettative sociali. La direzione dello sviluppo morale verso una crescente autonomia suggerisce, inoltre, come ha messo in luce Jürgen Habermas (v., 1976; tr. it., p. 54), l'esistenza di uno sviluppo parallelo dell'identità personale verso livelli crescenti di individuazione, ossia "una crescente indipendenza rispetto ai sistemi sociali". L'identificazione di questo meccanismo sociocognitivo risulta di particolare rilevanza anche nella spiegazione del cambiamento dei valori (v. cap. 5).
Se dunque l'analisi dei meccanismi psicosociali attivati dalla socializzazione sembra non confortare la tesi che i comportamenti di un soggetto siano sempre conformi alle aspettative sociali, anche altre considerazioni, di carattere più strettamente sociologico, rendono plausibile una interpretazione più articolata e meno deterministica del rapporto tra valori e azione sociale. Nella sociologia classica l'autore che ha fornito maggiori spunti teorici in questa direzione è Max Weber, con l'analisi del ruolo svolto dai valori puritani nel favorire lo sviluppo dello 'spirito capitalistico'. I valori ascetici puritani, nell'interpretazione weberiana, non spiegano perché necessariamente gli individui abbiano adottato comportamenti economici razionali, ma come ciò sia diventato storicamente possibile in presenza di diverse alternative. Nell'ottica weberiana i valori diventano capaci di orientare l'agire se si verificano condizioni storiche particolari, se riescono a combinarsi con gli interessi e le aspirazioni di specifici gruppi e strati sociali. Weber fornisce un esempio particolarmente chiaro di questo schema interpretativo quando, ne Le sette protestanti e lo spirito del capitalismo (1906), si domanda la ragione della particolare vitalità delle sette protestanti negli Stati Uniti e della loro grande influenza nel mondo economico. Weber non imputa l'influenza dell'etica protestante solo o principalmente alla forza dell'interiorizzazione di valori ormai divenuti parte del patrimonio culturale americano. La sua spiegazione è diversa: le sette protestanti fornivano ai loro membri degli attestati di onorabilità, tanto più ricercati quanto più esclusiva e selettiva risultava l'ammissione ad esse, rispondendo così all'esigenza del mondo economico di poter valutare su solide basi l'affidabilità delle persone con cui si entrava in affari. Tra le convinzioni religiose e l'azione economica Weber inserisce altri elementi decisivi per la comprensione del problema: il carattere volontario delle sette, quindi la qualificazione etico-religiosa dei loro membri, il contesto istituzionale americano caratterizzato dal pluralismo religioso, la formazione di identità collettive (le sette) capaci di generare strutture di fiducia o, come si direbbe oggi, 'capitale sociale'. Anche se lo schema weberiano, che non è una vera e propria teoria, è stato variamente interpretato, numerose indagini sul rapporto tra valori e azione, esplicitamente o implicitamente, adottano un approccio analogo. Si sono rivelati particolarmente efficaci nella spiegazione di molte forme di azione collettiva e di comportamenti innovativi di ruolo quegli approcci teorici che concepiscono il rapporto tra valori e comportamenti come un rapporto mediato della capacità dei primi di definire e strutturare specifiche identità sociali (v. Cancian, 1976).
Le scienze sociali non considerano i valori come dati ultimi ed irriducibili e li hanno spesso studiati ponendosi il problema della loro genesi. Perché individui e gruppi sociali aderiscono ai valori? Da che cosa dipende l'emergere di alcuni valori invece di altri? La sociologia contemporanea, in realtà, non è sembrata molto interessata al problema, in un quadro in cui, secondo alcuni, l'intera questione dei valori è stata sottovalutata (v. Hechter, 1992). Questa diagnosi vale, anche se per ragioni opposte, sia per la sociologia parsonsiana, che pure fa dell'interiorizzazione dei valori condivisi l'elemento portante della teoria dell'azione, sia per quei 'paradigmi interpretativi', come l'etnometodologia e la sociologia cognitiva, che hanno aspramente criticato il 'determinismo normativo' della prima. La sociologia parsonsiana, infatti, considera come acquisita l'esistenza di valori e norme sociali, senza interrogarsi ulteriormente sulla loro origine e sui loro cambiamenti. I 'paradigmi interpretativi' che si sono affermati a partire dagli anni sessanta tendono invece, per reazione alla sopravvalutazione dei valori come fonte di coesione sociale da parte dello struttural-funzionalismo di Parsons, ad accentuare il ruolo che le regole d'uso comune e le routines svolgono nella vita sociale quotidiana. Etnometodologia e sociologia cognitiva hanno finito per modificare profondamente lo status teorico delle norme e dei valori sociali nell'analisi sociologica, sostenendo che una norma non può essere definita indipendentemente dalle pratiche sociali di cui si ritiene sia un'applicazione.
Questa diagnosi non riguarda, però, tutta la sociologia o le scienze sociali nel loro complesso, in particolare non riguarda la sociologia classica, che ha dedicato uno sforzo notevole all'analisi dell'origine e dell'evoluzione dei valori e che ancora oggi è in grado di fornire spunti teorici rilevanti per l'indagine in questo campo. Poiché gli studi e le ricerche empiriche sono molto eterogenei e farne una rassegna sarebbe un'impresa piuttosto dispersiva, è preferibile considerare i principali tipi di spiegazione utilizzati. Secondo un primo modello di tipo funzionalista, l'attore sociale tende a far propri i valori della società in cui vive in quanto favoriscono la sopravvivenza del sistema sociale e, di conseguenza, anche quella individuale. Per Durkheim esiste un solo insieme di valori capace di garantirne il funzionamento. Non è quindi mai possibile aderire a valori diversi da quelli richiesti dalle condizioni sociali di un dato periodo. Questo modello ha esercitato una notevole influenza sulla ricerca antropologica e sociologica, nonostante la difficoltà di determinare quali siano i 'requisiti' necessari al funzionamento di un dato sistema sociale. In questa prospettiva si è ad esempio sostenuto, sulla base di dati antropologici comparati, che il valore attribuito da molte popolazioni alla terra e al suo possesso dipende dal rapporto funzionale con il carattere dell'economia locale; al contrario l'assenza di tale valore deriverebbe dalla sua disfunzionalità per il sistema. Il possesso della terra risulterebbe, quindi, un valore per le comunità dedite all'agricoltura e non, viceversa, per le popolazioni di cacciatori-raccoglitori (v. Goldschmidt, 1953). Un esempio simile è fornito dalle valutazioni sul prestito ad interesse, considerato illegittimo nelle economie tradizionali in virtù della sua disfunzionalità rispetto a un sistema in cui gli stretti rapporti interpersonali garantiscono al creditore la restituzione del prestito (v. Gouldner, 1960), ma che diventa legittimo in una situazione più complessa, dove rapporti impersonali non assicurano più lo stesso tipo di controllo.
Vi è poi un tipo di spiegazione in base a cause sociali. Secondo questo modello l'adesione a valori dipende direttamente dalle relazioni sociali e dai rapporti di produzione in cui gli individui sono inseriti. Nell'Ideologia tedesca (1845-1846) Karl Marx e Friedrich Engels hanno sostenuto che i valori e le rappresentazioni degli uomini vengono loro direttamente ispirati dall''attività materiale'. Il meccanismo ben noto attraverso cui ciò avviene sono gli interessi di classe. Poiché chi dispone dei mezzi della produzione materiale dispone anche dei mezzi della produzione intellettuale, le idee e i valori dominanti in una società sono le idee e i valori della classe dominante. La prospettiva marxiana ha aperto la strada alla considerazione dei valori in termini di ideologia, ossia come distorsione e occultamento, perlopiù inconsapevole, delle reali contraddizioni di classe. In questa prospettiva, ad esempio, i valori di libertà, uguaglianza, fraternità di cui si è fatta portatrice la borghesia francese nel periodo rivoluzionario, sono solo falsamente universali, ma in realtà mascherano l'interesse particolare di questa classe a rovesciare il dominio dell'aristocrazia e ad affermare il proprio. L'universalità dei valori morali è dunque sempre, nell'ottica marxiana, una falsa universalità.
Bisogna, però, precisare che non sempre Marx adotta nelle sue analisi concrete un approccio deterministico, né d'altro canto lo studio del rapporto tra classi sociali e idee morali ha portato a conclusioni analoghe a quelle marxiane, come mostrano, ad esempio, quei lavori che mettono in luce l'esistenza di molteplici 'moralità borghesi' legate in maniera tipica a contesti spazio-temporali diversi (v. Ossowska, 1971). Un modello causale, presente in alcune versioni neomarxiste e in tutte quelle posizioni 'culturaliste' che postulano un nesso necessario tra i valori e il momento storico-culturale in cui emergono, è all'origine di una concezione relativistica dei valori oggi assai diffusa che li considera come 'illusioni' o come 'opinioni', la cui validità è comunque ridotta a quel singolo momento. Le osservazioni di Weber sul rapporto tra etica religiosa, ceti e classi sociali non sono invece mai di tipo deterministico. L'uso del termine 'affinità elettive' per indicare la natura del rapporto, significa che esiste una sorta di 'congenialità' e non di necessità tra mentalità contadina e magia, tra ceti intellettuali e atteggiamento mistico-contemplativo o tra strati borghesi ed etica razionale ascetica. Weber analizza a fondo l'influenza decisiva che possono avere svolto storicamente alcuni strati sociali sull'etica delle religioni universali. Il confucianesimo, ad esempio, costituì "l'etica di ceto di uno strato di beneficiari razionalistico-secolari di formazione letteraria", l'induismo antico si basava "su una casta ereditaria di 'letterati"', il cristianesimo iniziò "come una dottrina di apprendisti artigiani ambulanti" e restò sempre una religione cittadina e borghese. Tuttavia Weber non ha mai fatto derivare in maniera deterministica l'etica religiosa dagli interessi di classe o di ceto. "Per quanto profonde siano state, nel caso singolo, le influenze sociali, economicamente e politicamente determinate, su un'etica religiosa, questa ha tratto la sua impronta in primo luogo da fonti religiose - anzitutto dal contenuto del loro annuncio e della loro promessa" (v. Weber, 1920; tr. it., p. 229).
Un terzo tipo di spiegazione, formalmente simile al precedente, attribuisce l'origine dei valori a cause psichiche. Si tratta, infatti, anche in questo caso dell'operare di fattori inconsci, ma di tipo affettivo e non sociale. Questo modello si trova formulato con particolare chiarezza nel Trattato di sociologia generale (1916), in cui Vilfredo Pareto considera le idee morali e i giudizi di valore come 'derivazioni', ossia come razionalizzazioni dei sentimenti. Sono i sentimenti e gli impulsi istintivi la causa reale dei valori, che dunque appaiono come mutevoli e fragili tentativi da parte dell'uomo di dare una 'vernice logica' e obiettiva a ciò che logico e obiettivo non è. In questo caso, come in molte spiegazioni simili, di senso comune, che intendono i valori come 'mistificazioni' o 'coperture' di impulsi poco confessabili, un discorso relativistico vale per i valori e non per gli impulsi, che sono invece considerati tratti fissi della natura umana.
Un quarto tipo di spiegazione, di matrice utilitarista, spiega l'adesione a norme e valori da parte dell'attore sociale in base all'interesse che questi ha ad accettarli. Questo modello non è certo nuovo nelle scienze sociali, e perfino alcune formulazioni della teoria marxiana - qualora gli 'interessi di classe' siano intesi non come emanazione di una struttura economico-sociale, ma come 'preferenze' dell'attore - potrebbero rientrarvi comodamente. Molti lavori recenti l'hanno ripreso e sviluppato, mostrando, ad esempio, che nei gruppi di parentela e nelle organizzazioni complesse, al di fuori del mercato, l'adesione a sistemi di norme e valori morali è più conveniente di 'strategie non morali' al fine di garantire una cooperazione stabile (v. Oberschall, 1994). Recentemente Raymond Boudon ha proposto un modello cognitivista di spiegazione dei valori e dei sentimenti morali, che si colloca nell'alveo della sociologia comprendente weberiana. Secondo questo modello l'attore sociale aderisce a un valore perché questo ha senso per lui. La 'razionalità rispetto al valore' di Weber viene interpretata da Boudon "come designante il caso in cui i valori sono professati dal soggetto in base a ragioni che egli reputa convincenti" (v. Boudon, 1995; tr. it., p. 205). L'interesse di questo modello consiste nel mettere in risalto l'esistenza di 'ragioni', diverse dall'utilità, ma 'trans-soggettive', il cui carattere cogente risiede nella loro giustificabilità, nel fatto cioè di poter essere pubblicamente difese con solide argomentazioni.
Gli scienziati sociali, tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, nonostante le diversità di indirizzo teorico e intellettuale, erano concordi nel constatare che un processo di secolarizzazione stava trasformando profondamente gli orientamenti culturali e la sensibilità morale delle società industriali dell'Occidente. Weber, per definire questo processo, ha usato il termine 'disincantamento', intendendo sottolineare non solo il progressivo sostituirsi della ragione alla magia nel dominio pratico sul mondo, ma anche l'autonomizzarsi della sfera religiosa dalle altre sfere della vita. Vengono così messi in luce due aspetti centrali e tra loro collegati della situazione morale della modernità: l'indebolimento del tradizionale ancoraggio dei valori nella religione e l'esistenza di una molteplicità di valori tra loro in conflitto. Con la nozione di 'politeismo dei valori' Weber esprime l'idea che il problema dei valori nella situazione moderna, in assenza di quei fondamenti assoluti garantiti in passato dalla religione, non riguardi semplicemente la numerosità dei modelli e dei criteri valutativi, ma la loro inconciliabilità.
Il riferimento al 'politeismo dei valori' da un lato esprimeva l'inquietudine di una generazione di studiosi di fronte all'incombere minaccioso di quella che Wilhelm Dilthey chiamava 'anarchia delle convinzioni', dall'altro poneva il problema, centrale per una teoria della società, del fondamento dei valori in un'epoca in cui è venuto meno il riferimento a un'entità trascendente capace di fornire dei criteri assoluti di giudizio. Storicamente sono prevalsi nelle scienze sociali due modi opposti di affrontare il problema. Una strada è quella intrapresa da Durkheim che, come si è detto in precedenza, ha riconosciuto nella società quell'autorità trascendente non più attribuibile alle leggi divine. In questo modo egli ha, però, indissolubilmente legato valori e trascendenza, assumendo che l'unico criterio di validità sia un criterio assoluto. Una seconda strada, che sembra trovare un grande seguito nella sociologia contemporanea, in realtà più che risolvere dissolve il problema. I valori, secondo questa prospettiva, vengono ridotti ai 'gusti' e considerati, come questi, arbitrari e, in definitiva, non significativi. Una versione 'nichilista' di quest'ultima prospettiva sostiene che, in conseguenza dell'indebolimento sia delle grandi tradizioni religiose sia delle 'grandi narrazioni' basate su qualche filosofia della storia, i valori stessi sono scomparsi dall'orizzonte culturale delle nostre società.I valori, invece, si sono secolarizzati, non poggiano più su credenze dogmatiche o tradizionali, ma, nonostante ciò, non sono morti. Lo si osserva innanzitutto dal fatto che nelle sempre più numerose controversie pubbliche su temi morali, che coinvolgono, ad esempio, il valore della vita - come la discussione sull'aborto, sulla pena di morte, sull'eutanasia - il ricorso ad argomentazioni di tipo dogmatico resta perlopiù ristretto agli uomini di chiesa. L'obsolescenza di valori antichi come l'onore - visibile nella scomparsa dalle leggi dei reati ad esso connessi - che orientavano e, in alcuni settori marginali della società, ancora orientano il rispetto per l'altro, non ha lasciato un vuoto in quanto altri valori hanno preso il suo posto nell'indirizzare i rapporti interpersonali. In altri termini, il declino dell'idea di onore non ha avuto come conseguenza un abbassamento della sensibilità morale per la reputazione e il rispetto, in quanto l'onore è stato sostituito da valori maggiormente legati all'individuo, come la dignità e l'integrità della persona. In una situazione di pluralismo e di relativa indeterminazione del sistema di valori, com'è quella delle nostre società, è sempre possibile, inoltre, che minoranze e nuovi movimenti sociali manifestino valori diversi da quelli ritenuti dominanti, o, addirittura, nascano con l'obiettivo esplicito di ridefinire gerarchie di valori consolidate e diffuse nel tessuto sociale. Basti pensare, per non fare che un esempio, ai movimenti ecologisti che, col sostenere la difesa della natura, hanno attribuito valore ad oggetti - piante, animali, altri enti naturali - considerati in precedenza moralmente irrilevanti.
Dalla fine degli anni settanta un ampio programma di ricerca, The European Values Studies, basato su indagini comparative longitudinali tra i paesi europei ed esteso poi anche agli Stati Uniti e al Canada, ha consentito a molti ricercatori di studiare a fondo i valori nei più diversi ambiti - religioso, morale, politico - e, soprattutto, di analizzarne il mutamento su un arco temporale sufficientemente lungo. Al di là di alcune pur importanti variazioni nazionali, il quadro generale converge su alcuni significativi mutamenti sia nella modalità di validazione dei valori, che appare 'individualizzata', non fondata cioè sull'autorità della tradizione e su credenze dogmatiche, sia nei contenuti, caratterizzati da un'enfasi crescente su un nucleo centrale di valori legati all'autorealizzazione e all'emancipazione personale (v. Ashford e Timms, 1992; v. Ester e altri, 1994). Ronald Inglehart (v., 1977 e 1990) ha parlato di una 'rivoluzione silenziosa' che ha trasformato gli orientamenti di valore delle società industriali avanzate. Dal dopoguerra a oggi, attraverso il ricambio generazionale, valori 'postmaterialisti', che enfatizzano il senso di appartenenza, l'autorealizzazione e la qualità della vita, hanno progressivamente sostituito valori 'materialisti', che pongono invece l'accento sulla sicurezza fisica ed economica. Inglehart fornisce una spiegazione esogena di questo mutamento che riconduce a cause socioeconomiche. Le priorità di valore degli individui riflettono, secondo questa ipotesi, lo sviluppo economico: le generazioni nate negli anni del benessere economico, socializzate in un ambiente in cui i 'bisogni primari' di sussistenza sono stati soddisfatti, hanno potuto sviluppare, a differenza delle generazioni precedenti, orientamenti volti al soddisfacimento di 'bisogni secondari', quali il bisogno di cultura e di una migliore qualità della vita. Altri autori hanno proposto una spiegazione diversa, di tipo endogeno, che sottolinea soprattutto l'aspetto cognitivo del mutamento, ossia il mutamento che riguarda il modo di giustificare valori e norme sociali. Sono stati messi in luce l'importanza del tipo di argomentazioni utilizzate nelle controversie pubbliche su alcuni dilemmi morali, l'accesso differenziale all'informazione e i processi di apprendimento legati all'esperienza. Questi processi sociocognitivi aiutano meglio dei fattori economici a comprendere le modalità non dogmatiche, argomentative, con cui si tende ad affrontare oggi le opzioni di valore (v. Döbert e Nunner-Winkler, 1985). (V. anche Atteggiamento; Azione sociale; Cultura; Etica; Norme e sanzioni sociali).
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