BIRINGUCCI (Bernigucio), Vannoccio
Figlio di Paolo di Vannoccio e di Lucrezia di Bartolomeo, nacque a Siena, dove fu battezzato il 20 ott. 1480. Suo padre fece parte dell'ufficio dei "viarii", che era preposto alla rete stradale cittadina e ai ponti e alle strade, e ne 1504 era "operaio" delle muraglie del palazzo comunale. Non sappiamo nulla del corso dei suoi studi, che l'Ugurgieri qualifica essenzialmente matematici; essi, tuttavia - anche se non raggiunsero l'eccellenza di quelli del suo contemporaneo Giorgio Agricola e per quanto Benedetto Varchi, suo intimo amico, parli di lui "come quegli il quale avea molta pratica e non molta scienza" - debbono essere stati di discreto livello, quale se non altro poteva convenirsi ad un giovane di famiglia insignita della "civiltà" cittadina. È probabile che, come il suo concittadino Giovanni Sfortunati, autore del Nuovo Lume - libro de arithmetica (Venezia 1545), li abbia condotti alla scuola dei Moreschi e del carmelitano Bernardino Landucci. Ma molto presto egli fece pratica nelle miniere di ferro di Boccheggiano, appartenenti a Pandolfo Petrucci, signore di Siena, e più tardi gli fu affidata la direzione di una miniera argentifera sul monte Avanza, in Carnia, che mantenne fino a quando, nel 1508, ebbero inizio le ostilità fra Venezia e l'imperatore Massimiliano. Per conoscere i metodi che vi erano usati, aveva compiuto due viaggi in Germania, e dopo la chiusura della miniera visitò Sbozzo (Schwaz?), Pleiper (Bleiberg), Innsbruck, Alla (Hall), Arottimberg (Rattenberg) e numerosi centri minerari italiani. Soggiornò anche a Milano, dove prese grandissimo interesse alle fornaci per la fabbricazione dell'ottone. In questi anni dovrebbero collocarsi i suoi soggiorni a Ferrara, al servizio di Alfonso I d'Este, e a Venezia.
Il B. tornò poi a Siena e fu inviato dal Petrucci a sovrintendere alle miniere di Bocchiaggiano: qui ebbe modo di apportare numerosi perfezionamenti, in particolare alla messa in opera dei mantici.
Sempre godendo della protezione dei Petrucci, per i quali parteggiava, sebbene la sua famiglia fosse del Monte dei Riformatori, nel 1513 venne nominato "operaio" dell'armeria del Comune e in quello stesso anno ebbe l'incarico d'innalzare archi trionfali in onore del cardinale di Gurk, che passava per la città insieme col duca Francesco Sforza. Il 3 febbr. 1514, in società con Alessandro Vigni, ottenne l'appalto della zecca senese per cinque anni, ma nel 1515 fu costretto a fuggire insieme con Borghese Petrucci e i suoi fautori, sotto l'accusa di aver alterato, per istigazione di lui e con la correità dell'orefice Francesco Castori, la lega delle monete coniate. A detta di Sigismondo Tizio, cronista contemporaneo e avversario politico della sua fazione, si sarebbe accertato che borghese aveva intascato cinquanta ducati d'oro al mese e i suoi complici quaranta. Contumace al processo penale istruito a suo carico, l'anno seguente il B. fu dichiarato ribelle (il suo socio Alessandro Galgani fu invece assolto) e condannato al bando come traditore della Repubblica.
Soggiornò a Roma, a Napoli e, nel 1517, in Sicilia. A Roma - sempre secondo il Tizio - per le sue brighe sarebbe nato uno scontro fra Borghese Petrucci e il fratello di lui Alfonso, conclusosi col ferimento del primo. Indebolitasi la posizione dei Petrucci in seguito alle macchinazioni contro Leone X, il B. si portò con altri fuorusciti a Urbino per chiedere l'appoggio del duca per cacciare da Siena il cardinale Raffaele Petrucci, signore della città. Fu perciò rinnovato il bando contro di lui, ma nel 1523 poté rientrare a Siena col figlio minore di Pandolfo Petrucci, Fabio, dopo che venne accolta benevolmente dalla Balìa una sua lettera. Ottenuta la revoca del bando, fu reintegrato nel possesso dei beni sequestrati e nell'ufficio di "operaio" dell'armeria comunale; il 7 genn. 1525 si assicurò il privilegio della fabbrica del salnitro per tutto il territorio senese, con l'obbligo di consegnarne una parte al comune a un prezzo convenuto.
Qualche tempo dopo Fabio gli affidò la missione di accompagnare a Siena Caterina di Galeotto de' Medici, sua sposa, ma mentre egli si trovava a Firenze una rivolta popolare cacciò il Petrucci, il quale fu seguito in esilio dagli aderenti alla fazione dei Noveschi. Invano il B. aveva tentato di opporsi, trattando coi Medici e col cardinale Silvio Passerini e cercando di raccogliere milizie. Esortato a rientrare a Siena dal nuovo signore della città, Alessandro Bichi, non accolse l'invito, così che fu di nuovo dichiarato ribelle e subì la confisca dei beni, il 20 maggio 1526, mentre era a Roma (una sua lettera autografa, diretta a un Bortolo di Girolamo, mastro falegname, per lavori di riparazione ad una sua casetta a Siena, porta la data del 25 maggio); l'11 agosto gli fu rinnovato il bando, per aver partecipato con gli altri fuorusciti senesi allo sfortunato assalto di Porta Camollia (21-25 luglio), durante il quale egli aveva diretto il fuoco delle artiglierie contro il torrazzo della castellaccia di Camollia. Tornò allora a Roma, donde si mosse per trattare con quei Noveschi che, ritiratisi nel castello di Montebenichi, tentavano di rientrare a Siena.
Non sappiamo con esattezza che cosa abbia fatto negli anni seguenti, che il Romagnoli e il Mieli, senza spiegare su quale base, suppongono egli abbia trascorso in Germania in viaggio d'istruzione. Nel 1529 lo troviamo al servizio di Firenze, assediata dagli Imperiali, impegnato nella fabbricazione di artiglierie, in particolare dell'"archibuso di Malatesta", una gigantesca doppia colubrina del peso di diciottomila libbre, "di braccia undici e mezza d'un gitto solo", con la culatta a testa d'elefante (egli scriverà di non aver mai fuso artiglierie senza ornarle di figure d'uomini o d'animali o simili). Nominato il 7 maggio dai fiorentini Dieci di Balìa procuratore delle artiglierie, gettò cannoni, mezze colubrine e falconetti, calibrandoli mediante la trapanatura.
Nel medesimo anno, composte le inimicizie fra i partiti, tornò in patria. Nel primo bimestre del 1531 fece parte del Magistrato della città per l'ordine dei Riformatori e nel 1535 successe a Baldassarre Peruzzi come architetto e capomastro dell'opera del duomo; nel 1536 fu chiamato a pronunciare un lodo d'indole artistica in una vertenza fra gli Arduini e il Sodoma.
Il 18 dic. 1534, con suo motu proprio, il papa gli aveva affidato le cariche di capitano dell'artiglieria e di fonditore, che prima erano ricoperte da Antonio Rossi da Città di Castello e dal genovese Vincenzo Joardi. Una lettera del 1536 di monsignor Claudio Tolomei lo sollecitava a trasferirsi a Roma per curare i suoi interessi in quella città. Qui morì improvvisamente nell'agosto 1537: il 7 "stava in caso di morte" e in un mandato di pagamento del 19 risulta già defunto.
Non ci è rimasto nulla dei suoi bronzi e delle altre opere di fonditura, che dovettero probabilmente essere disfatti per reimpiegarne il metallo (si pensi alla statua di Giulio II di Michelangelo, che nel 1511 venne fusa per farne cannoni): il "Liofante" impiegato a Firenze nel 1529 fu demolito nella torre di Livorno poco prima del 1544.
Ebbe due figli, Alessandro, che legò il suo nome agli ultimi avvenimenti politici della Repubblica, e Camillo, il quale lo seguì a Roma e più tardi - nel 1556 - figura tra i membri del supremo Magistrato senese. Suo padre, Paolo, che nel 1498 si era sposato una seconda volta con Lisabetta di Filippo Boninsegni, che gli portò in dote 1000 fiorini, morì a Siena nel 1512. Dei due fratelli del B., Bartolomeo, nato nel 1483, e Francesco, si hanno poche notizie.
Tre anni dopo la morte del B., nel 1540, venne pubblicato a Venezia, un suo trattato,De la Pirotechnia, sulla tecnica delle lavorazioni a fuoco.
L'opera si compone di dieci libri, suddivisi in capitoli. Il primo - che tratta "De tutte le minere in generale" - si apre con un proemio che contiene regole generali sulla ricerca dei minerali, sul modo di far le cave e sugli strumenti necessari. L'oro, col quale s'inizia il discorso sui singoli metalli, perché "fra tutte le cose che sono in questo mondo... è il primo stimato", è definito un composto di sostanze elementari congiunte quasi inseparabilmente in proporzioni determinate, e se ne descrivono i giacimenti, il modo di estrarlo dalle arene fluviali e il processo di amalgamazione (nel nono libro verrà poi presentato quello dell'argento), accettando ironicamente l'incredibile racconto di Alberto Magno, che "in quella sua opera de mineralibus" lo vide generarsi nella testa d'un uomo morto. In questo capitolo c'è anche il famoso discorso contro gli alchimisti, i "filosofi operanti" che vorrebbero far credere di saperne fabbricare in abbondanza; di loro si parlerà ancora nel capitolo primo del nono libro, che è riservato all'arte alchimica. I capitoli successivi sono dedicati all'argento, al rame, al piombo, allo stagno, al ferro, al modo di far l'acciaio e l'ottone. Il secondo libro ha per argomento i cosiddetti "mezzi minerali" (cioè le sostanze naturali non metalliche, dai "fisici speculatori" chiamate in questo modo per non essere "né tutti pietre né tutti metalli"), i quali vengono distinti in quelli "liquabili al fuocho" (zolfo, antimonio, marcassite, calamina - un carbonato o silicato di zinco, metallo allora sconosciuto - zàffera - vale a dire blu di cobalto, e la menzione che ne fa il B. è la prima che si conosca - manganese) e quelli che "si resolveno ne l'acqua" (sale comune, vetriolo, allume di rocca, salnitro, ecc. ed inoltre - "come cosa acquea" - il mercurio); gli ultimi capitoli parlano del cristallo, delle gemme e della fabbricazione del vetro. Queste classificazioni sono scientificamente discutibili, ma molto aderenti alla pratica, così come le descrizioni, le quali tengono conto soprattutto dei caratteri organolettici.
Il terzo e quarto libro trattano del saggio e della fusione dei metalli e del modo di separarli, con riguardo particolare all'affinaggio dell'oro e dell'argento e con capitoli riservati ai carboni e alla produzione dell'acido separatore (il nitrico: l'"acqua acuta commune"). Esaurita la parte che insegna a "condurre ne' loro proprij e puri corpi tutti li metalli", il B. prende a ragionare del loro impiego, cominciando dalle leghe dell'oro, dell'argento, del rame, del piombo e dello stagno, le quali occupano il quinto libro, e continuando nel sesto e nel settimo col bronzo e con le grandi fusioni, in ispecie delle artiglierie e delle campane. L'ottavo libro descrive l'"arte piccola del getto", e cioè la fusione di piccoli oggetti artistici e d'uso comune; il nono - "Della pratica di più esercitij di fuoco" - contiene capitoli sull'arte distillatoria, sui lavori dell'orefice, del ramaio, del fabbro, dello stagnino, del battiloro, sulla coniazione delle monete, la fabbricazione degli specchi, la fusione dei caratteri di stampa, l'arte figulina, la preparazione della calcina e dei laterizi e altre pratiche industriali e chimiche minori. L'ultimo libro riguarda il salnitro, le polveri, mine e contromine, i proiettili, concludendosi con l'apprestamento dei fuochi artificiali e di altri ordigni per uso pacifico.
Manca ancora, sul trattato, uno studio che lo inquadri compiutamente nell'evoluzione storica della tecnologia, ma gli specialisti hanno dato risalto, con varia prospettiva, a molti dei suoi aspetti più notevoli. Il problema, naturalmente, non si pone nello stabilire delle priorità, ma piuttosto nel fissare alcuni momenti di quel processo, e merita appena di sottolineare che il significato dell'opera del B. prescinde dalla constatazione che abbia raggiunto gradi di perfezione non superati neppure dalle cognizioni odierne.
Mentre appare di limitata consistenza il suo apporto nel settore della geologia e della mineralogia, anche perché il B. non seppe far posto all'esame stratigrafico (F. D. Adams, ad esempio, certamente a torto, lo ignora affatto nel suo The birth and development of the geological sciences, Baltimore 1938), assai pregevole, invece, ed originale si presenta nel campo metallurgico, dove il B. domina, come autorità, insieme con Agricola e con Ercker, per oltre due secoli, fino a Réaumur e a Swedenborg. La Pirotechnia fu il primo libro dedicato alla metallurgia: un'opera, dunque, che si impone per il suo carattere del tutto nuovo, al quale - come osserva il Farrington - dà maggior risalto il fatto che nel primo secolo di vita della stampa furono pubblicati trentamila testi.
In essa troviamo una descrizione esauriente - la prima - dei forni a riverbero (con uno di essi si insegna a riparare le campane fondendone soltanto la parte guasta) e diffusi ragguagli su altri di diverso tipo e sul loro corredo di tramogge e di mantici, azionati a mano e - ciò che costituiva il progresso più decisivo in un secolo che si sforzò di trarre i maggiori vantaggi dalla meccanizzazione - dall'energia idraulica. La trattazione delle tecniche fusorie, la quale è preceduta da un importante accenno alla pratica dell'arrostimento come fase autonoma del trattamento dei solfuri, è completa e perspicua, particolarmente per i metodi di formatura e di colata a cera persa. Del processo di raffinazione del rame è descritto anche il poling, sebbene con qualche manchevolezza; e a proposito della calcinazione del piombo in forni a riverbero il B. fa delle osservazioni importantissime sull'aumento del peso del metallo, che riesce a determinare quantitativamente con molta precisione, proponendo anche una spiegazione del fenomeno. Poco sviluppata la parte che riguarda lo stagno (ma leggiamo qui la prima menzione dell'impiego dell'antimonio per il suo indurimento, benché questo uso sia destinato a divenire corrente solo due secoli appresso); si parla invece molto diffusamente della fabbricazione dell'ottone, mediante la mescolanza in crogioli incandescenti di calamina calcinata e di rame triturato, secondo un vecchio procedimento, già descritto da Teofilo, che il B. aveva potuto ammirare in una officina milanese dove si lavorava giorno e notte per la produzione di piccoli oggetti, adoperando forme di argilla essiccata. Pure la metallurgia del bronzo ha nel B. - che qui, secondo il Lippmann, avrebbe attinto a fonti tedesche - un preciso ed acuto illustratore (egli osservò, fra l'altro, che aumentando il tenore di stagno la lega mutava colore e diveniva più dura e più fragile), e così la siderurgia. Per quanto tale processo debba ritenersi noto già in precedenza, è nella sua opera che si fa per la prima volta parola della cementazione, che veniva eseguita immergendo masselli di ferro dolce nella ghisa liquida fino a raggiungere un certo grado di carburazione, per poi fucinarli e temprarli; ed è ancora alla Pirotechnia che dobbiamo la prima accurata descrizione del seguirsi dei colori nella tempra dell'acciaio con relazione alla durezza (su questo fenomeno dovrà poi tornare Boyle).
Le pagine dedicate all'estrazione dell'argento dai suoi minerali e alla separazione dei due metalli nobili sono del massimo interesse: a proposito del procedimento che prevede l'impiego dell'acido nitrico, il Percy osserva che è esposto in modo che potrebbe seguirlo proficuamente anche un metallurgista dei giorni nostri. La stessa cosa può dirsi del metodo "secco" di cementazione con cloruro di sodio, dell'inquartazione, della solforizzazione con solfuro d'antimonio. I coniugi Hoover, nel loro commento al De re metallica di Agricola, ritengono di poter attribuire al mineralologo sassone la prima descrizione completa del trattamento del materiale argentifero per liquazione con piombo, ma è certo che il B. ne parla già ampiamente molti anni prima di lui, per quanto con minore ricchezza di particolari (con tutta probabilità il sistema era in uso già da tempo: il forno biringucciano comparirà poi, con qualche leggera variante, nella figurazione di Ercker). Anche il più vecchio ragguaglio sull'impiego del mercurio nella metallurgia dell'argento si trova nel B., il quale fornisce un'appropriata spiegazione dell'amalgamazione molti anni prima che questa tecnica si sviluppasse nel Messico e nel Perù col nome di processo del patio. È noto che la scoperta venne da alcuni ascritta a Bartolomeo de Medina, ma lo stesso minatore messicano ammette di aver appreso tale metodo in Spagna: a lui, tuttavia, va almeno il merito di averlo introdotto in forma industriale (Pedro Fernandez de Velasco ne sarà più tardi l'iniziatore in Perù), mentre la Pirotechnia si limita a dar conto di operazioni su piccola scala. Il B. scrive che donò un anello e promise un ottavo degli utili a chi gli confidò tale segreto, e perciò non si doveva trattare di una pratica tanto diffusa: è lecito supporre che egli l'abbia appresa durante il suo soggiorno in Carnia, dove il mercurio che si estraeva dalle vicine miniere di Idria offriva agevole occasione d'esperimento.
Numerose sono nel manuale le note sull'assaggio, le quali appaiono estese anche ai minerali di metalli comuni, generalmente trascurati dagli antichi saggiatori. Il B. avverte che per questo scopo si deve ricorrere alla fusione, con lo stesso trattamento che viene applicato ai grossi quantitativi.
Sulla fabbricazione del vetro il B. offre una messe di particolari tecnici forse inferiore a quella del Glaskonst di Peder Månsson, ma la descrizione sua e quella del monaco svedese s'assomigliano tanto che O. Johannsen sospetta che entrambi abbiano attinto ad una medesima fonte; gli Hoover sottolineano che qui troviamo probabilmente la prima specifica menzione del manganese sotto questo nome moderno. In quanto agli specchi egli parla sia di quelli di vetro (dove l'applicazione dello stagno viene fatta con l'aiuto dell'antimonio) sia di quelli metallici, per i quali alla "vecchia" lega egli ne preferisce una molto più ricca di stagno, che C. S. Smith ritiene poco conveniente. Notevole l'esposizione delle tecniche della fusione dei caratteri di stampa, che, mediante l'uso di forme di ottone ad elementi regolabili, assicuravano una produzione molto rapida.
Con il B. cominciò la pratica di gettare pieni i pezzi d'artiglieria e quindi di trapanarli, per ovviare alle difficoltà che offriva il vecchio sistema del nocciolo interno di far sortire l'anima esattamente concentrica con la superficie esterna. A questo scopo egli presentava un'alesatrice orizzontale munita di coltelli, mossa a mano o da forza idraulica, ma non ci è precisato se l'anima venisse ricavata con la sola trapanatura oppure, come è più probabile, venisse gettata di diametro inferiore al calibro desiderato per essere poi allargata fino alla misura giusta. Questa apparecchiatura, nota il Montù, contiene in embrione i dispositivi anche oggi impiegati. Per il getto delle artiglierie il B. si vale degli stessi metodi adoperati per gli altri lavori in bronzo, ma raccomanda di procedere con maggiore lentezza nel riempire le forme: egli dà molta importanza all'uso di una materozza col compito di raccogliere le scorie e i difetti di fusione, ed inoltre all'aggiunta finale di stagno per premunirsi da quella che i tecnici moderni chiamano segregazione inversa.
Il manuale detta anche regole per puntare le artiglierie e per correggerne l'elevazione: un alzo a forellini che vi è descritto assomiglia molto a quello che l'esercito piemontese adottò nel 1848. Il capitolo che parla dei proiettili esplosivi rese celebre il B. presso gli allievi ufficiali dell'artigheria italiana durante la prima guerra mondiale, come ideatore degli shrapnel. Il B. illustra anche i sistemi di estrazione e di raffinamento del salnitro e le tecniche per la fabbricazione della polvere da sparo, indicando vari dosaggi conformi al tipo di arma. Secondo l'opinione dell'Hoefer, la parte che riguarda i "fuochi lavorati" è, salvo qualche aggiunta, un sunto del Liber ignium che va sotto il nome di Marco Greco, fonte del resto citata dal B. (il quale lo chiama - come anche Cardano - Marco Gracco).
Il De la Pirotechnia fu composto con intenti strettamente pratici, col proposito, che risponde a un'esigenza assai diffusa nella letteratura tecnica dell'epoca, di trasmettere agli altri i risultati delle proprie ricerche. L'esposizione è piana, discorsiva, con un'impronta didascalica, ma senza pedanterie. E dove teme che non gli bastino le parole, il B. ricorre all'immagine, sempre viva e nitida, in modo da lasciarsi intendere con precisione.
Benedetto Varchi, tessendo l'elogio dell'autore, dopo aver lodato l'"uomo molto leale e veritiero" lo rappresenta, infatti, "liberalissimo de' suoi tesori", con evidente allusione a quelli dell'ingegno e non ad una prodigalità nello spendere, che peraltro mai si sarebbe potuta accordare con la modestia delle sue sostanze. E il B. stesso - al quale non sfugge l'importanza della collaborazione per il progresso del sapere tecnico - sa essere esplicito sull'ufficio delle "notizie nuove", che sono per lui "le chiavi di far resuscitar gl'ingegni", in quanto destinate a far sorgere negli intelletti "inventioni nuove et nuove notitie".
Ispirati alla convinzione che "la luce del iudicio venire non può senza la pratica", il discorso e la mentalità di lui appaiono costantemente pervasi di positività: egli si pone i problemi in modo diretto, senza ricercare soluzioni teoriche, perché non ama teorizzare, né la sua riflessione giunge mai ad organizzarsi in sistematicità di pensiero. Ma pur devoto all'esperienza e persino animato da uno scetticismo metodico nei riguardi del sapere del suo tempo - un tipo di sapere del quale si mostra insoddisfatto e che è disposto ad accettare soltanto a condizione che gli permetta di arrivare a soluzioni pratiche nel campo che lo interessa - egli s'arresta ancora perplesso davanti al fascino, alle incerte, ardue realtà dell'alchimia; e per il suo discorrerne in forma contraddittoria, alcune volte biasimandola ed altre invece lodandola, il Varchi non gli risparmia l'accusa di essere mal documentato, confuso e irresoluto.
In effetti questo suo atteggiamento può essere criticabile solo parzialmente. Agli occhi del B. l'alchimia è una parte del sapere che ha preceduto l'assai più recente ed ancor malsicura fase tecnologica e sotto certi aspetti ne è stata la radice, ma è ancora un settore ombroso e non privo di allettamenti, se non altro sul piano sperimentale. Per quanto egli dichiari di non conoscerla bene, ne ha certamente avuto un'esperienza propria e ha potuto approfondirne lo studio attraverso il contatto con gli amici che la praticavano, ma i suoi miraggi non lo seducono più. Tuttavia egli non è prevenuto, a patto che gli si offra la possibilità di controllare i risultati. Distingue perciò due vie dell'alchimia, la buona, che segue i procedimenti naturali e pertanto potrebbe anche non rifiutarsi, e la cattiva, la quale è fatta d'apparenza e di frode. L'alchimia, ammette, merita rispetto per quanto ha operato in campo medicinale e per la fabbricazione dei coloranti e dei profumi; le si deve inoltre anche l'invenzione del vetro, ed è innegabile che le sue manipolazioni possano essere dilettevoli e che il suo sforzo di ricerca abbia qualcosa di positivo, ma non è sapere concreto perché non riesce mai a raggiungere i fini che si propone, ed è un lavoro vano, dai principi oscuri, dagli scopi maligni, dagli effetti illusori; è un incessante correre per una strada circolare che riporta eternamente al punto di partenza, "un navigar al cammino del cielo per via dell'oceano". Ed è inutile appoggiarsi all'autorità di certa pretesa tradizione in suo favore, ove fallisca la verifica sperimentale.
Dell'alchimia il B. condanna anche l'incongruità dei procedimenti, le pretese miracolistiche e la disinvoltura con la quale vorrebbe rendersi padrona della natura. Egli ha il culto della natura, che definisce "madre et ministra di tutte le cose create, figliuola di Dio et anima del mondo", ed è convinto che nessuna arte umana le si possa sostituire: la tecnica, "debolissima rispetto ad essa", si sforza d'imitarla e di trarne profitto - anche perché si mostra benigna - ma sarà sempre impotente a trasformarla.
Questa concezione, come nota giustamente P. Rossi, ha precise origini medievali, né ci si può aspettare una moderna impostazione dei rapporti fra natura ed arte prima di Bacone e di Cartesio. Per quanto sia in una direzione nuova, il B. non può infatti rinunciare completamente al bagaglio intellettuale della sua epoca e ne conserva numerosi schemi (del resto non saprebbe come sostituirli), anche perché si occupa soltanto di problemi concreti e pertanto non ha nessuna difficoltà ad accettarli come premesse. Così eredita dall'aristotelismo scolastico la teoria dei quattro elementi e la credenza che ogni processo naturale sia ordinato ad un fine, e si lascia talvolta andare ad affermazioni - come quelle delle virtù straordinarie delle pietre preziose e del sangue di montone - che appartengono all'ordine dei luoghi comuni e mostrano i limiti del suo rigore scientifico. Spesso, però, pur protestando il massimo rispetto per certe autorevoli o diffuse opinioni, sa riderne e non si perita di metterle a cimento con quelle dei pratici.
Il libro del B. riflette una tradizione della scienza applicata che si era venuta formando negli ultimi secoli del Medioevo, ma si presenta ricco di originalità, perché fondato soprattutto sull'esperienza diretta. Di ogni fenomeno si controllano i risultati e si ricercano spiegazioni razionali, rifuggendo, per quanto è possibile, dal ricorso al principio d'autorità. Una cura particolare, poi, è volta alla semplificazione dei procedimenti, i quali vengono esposti con molta chiarezza, sulla linea di una rigorosa concatenazione di cause ed effetti.
Per questa sua intelligenza limpida e concreta, per la sua acutezza di osservatore e di sperimentatore, per il suo saper essere alieno da speculazioni magiche o mistiche, nel B. si è voluto vedere uno degli iniziatori del metodo sperimentale. Il giudizio - che è del Mieli - va certamente attenuato, perché manca all'opera del tecnico senese, come in quelle di altri suoi contemporanei non meno illustri, una teoria d'insieme, un legame fra le membra sparse che si esprima in una sintesi razionale; ma rimane in definitiva giusto purché, appunto, s'intenda il suo sperimentare come intermedio fra quello non scientifico del Medioevo e quello sempre più razionalmente calcolato dell'età successiva. In ogni caso non si può condividere - come infatti mostra di non condividerla il Farrington - l'opinione del Thorndike che la Pirotechnia non sia altro che la presentazione in lingua italiana di tutto ciò che si può già trovare in opere latine dei tre secoli precedenti. Noi crediamo che non se ne esageri la portata riconoscendole un posto fra quegli scritti rinascimentali che, se anche non anticiparono certi grandi momenti della storia del pensiero e della scienza moderne, ne costituirono tuttavia un efficace preludio.
È certo, però, che per il suo carattere descrittivo, pur portando un insostituibile contributo alla scienza come conoscenza positiva, non suscitò idee nuove, e la sua circolazione, ancorché intensissima, rimase limitata alla cerchia dei tecnici e dei pratici, ai margini del movimento scientifico. In questo settore il posto venne ben presto occupato dal trattato di Agricola, uscito dai torchi più tardi (1556) e in parecchi punti chiaramente derivato da quello del B. (l'Agricola l'aveva ricevuto in dono da Francesco Badoer, ambasciatore veneto presso Ferdinando re dei Romani, e ne aveva tratto stimolo), ma scritto da un uomo di formazione, culturale ben più solida e di interessi più vasti, e per di più in una lingua - la latina - capace di assicurargli una diffusione universale (tanto per citare un esempio, l'Arte de los metales di A. Barba Toscano, vangelo dei minatori dell'America Latina, ignora del tutto il B. mentre attinge largamente al De re metallica).
Francesco Bacone conobbe sicuramente l'opera di Giorgio Agricola, ma forse non ebbe occasione di sfogliare il De la Pirotechnia, che pure era stato introdotto in Inghilterra da sir Thomas Smyth e vi circolava in una traduzione parziale.
La supposizione di un interesse del mondo degli scienziati e dei filosofi per l'opera del tecnico senese, manifestato attraverso due edizioni latine, e cioè con una significativa inversione del consueto processo di passaggio dall'una all'altra lingua, sembra purtroppo destinata a restare senza fondamento, perché non è stato mai possibile reperire le due edizioni, né affidarsi ad una testimonianza certa, così che è lecito dubitare che la notizia sia sorta da un equivoco.
La data di composizione dell'opera si può collocare fra il 1534 e il 1535, sulla base dell'accenno alle "ferine man de le nation barbare che da circa a 40 anni in qua dentro ci sonno entrate" (I, 1) e del riferimento al Peruzzi ancora vivente (II, 13). È probabile che si sia sviluppata, come suppone il Mieli, su un canovaccio di annotazioni e di appunti suggeriti dall'esperienza artigianale di tutti i giorni e continuamente riveduti e arricchiti di nuove osservazioni, ma è certo che presenta una coerenza sistematica nella disposizione della materia, una completezza di stesura, un'intrinseca unità, le quali fanno pensare che il B. sia riuscito a darle una redazione definitiva. Apparì postuma, ma a questo dato non si deve annettere un valore particolare, perché molto spesso l'editoria dell'epoca ritardava la pubblicazione dei manoscritti in rapporto ad esigenze aziendali o di mercato.
La prima edizione venne in luce a Venezia stampatore Venturino Roffinello, nel 1540, sotto il titolo De la Pirotechnia libri X dove ampiamente si tratta non solo di ogni sorte & diversità di miniere,ma anchora quanto si ricerca intorno a la prattica di quelle cose di quel che si appartiene a l'arte de la fusione over gitto de metalli come d'ogni altra cosa simile a questa. È ornata da ottantadue belle incisioni in legno, che sono verosimilmente di mano dell'autore. Seguono: Venezia, Giovan Padoano, 1550; Venezia, Comin da Trino, 1559 (sul frontespizio la data del 1558); Venezia, Gironimo Giglio, 1559; Bologna, Gioseffo Longhi, s.d. (ma con una dedica del 1678); Bari 1914 (fino al capitolo quinto del secondo libro).
Le prime tre appartengono a Curtio Navo, che dedicò fittiziamente quella del 1540 a Bernardino di Moncelesi da Salò, a nome del quale sarebbe stata composta. La seconda e la terza edizione presentano nel testo numerose varianti rispetto alla prima, che per la lingua e la maggiore chiarezza di dettato deve ritenersi la più vicina al Biringucci. Dalla dedica alla terza edizione si apprende che l'opera fu "sempre ornata et emendata" dall'arcidiacono raguseo Mario (o Marino) Caboga: a costui, laureato a Padova in diritto, ma privo - almeno a quanto si può desumere dalle sue biografie - delle particolari cognizioni scientifiche che gli attribuisce l'editore, andrebbero dunque addossati i rimaneggiamenti e le alterazioni del testo, in special modo quelli che tradiscono una scarsa dimestichezza con la materia.
La quarta edizione è più dimessa delle precedenti, specie nella parte iconografica (il formato ridotto, la tavola delle cose notabili e l'indicazione della materia in ogni pagina fanno pensare che fosse destinata alla pratica quotidiana); l'edizione bolognese appare condotta sulla quarta e ne ripete anche la modestia formale. Quella critica di Bari, a cura di Aldo Mieli, lascia alquanto a desiderare; interrotta a causa della prima guerra mondiale e non più ripresa, ha per base la prima, ma tiene conto anche delle altre, in particolare della terza e della quinta. Avrebbe dovuto comprendere tre volumi, con un'appendice documentaria.
L'opera ebbe molte traduzioni: in francese, di Jaques Vincent, non troppo fedele, pubblicata tre volte (Paris 1556, e poi 1572, Rouen 1627); di Rieffel (estratto dei libri VI-VII), Paris 1856; in inglese: parziale, Of the generation of metalles and their mynes... by Vannuccius Biringuczius, in The decades of the newe wordle... written in the Latine tongue by Petrus Martyr of Angleria, London 1555; di Cyril S. Smith e Martha T. Gnudi, New York 1942, e nuova edizione, accresciuta nella bibliografia, ibid. 1959; in tedesco: molti passi furono tradotti e incorporati da L. V. Beck nella sua Geschichte des Eisens; di Otto Johannsen, Braunschweig 1925. Si ha anche notizia di due traduzioni latine (Parigi 1572 e Colonia 1658) che non si sono mai rinvenute. La prima è stata forse confusa con la seconda edizione parigina della traduzione francese, che porta la medesima data.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Siena,Balìa, reg. 59, c. 102; reg. 64, cc. 53v-54; reg. 73, c. 9; reg. 76, c. 12; Siena, Biblioteca Civica, E. Romagnoli,Storia dei Bellartisti Senesi, l. II, 1-13; Ibid., S. Tizio,Storie Senesi, B. III, 6-15; B. Varchi,Sulla verità o falsità dell'Archimia. Questione, Firenze 1827, pp. 19, 63 s.; Carteggio inedito d'artisti, a cura di G. Gaye, II, Firenze 1840, pp. 157 s.; Documenti per la storia dell'arte senese, a cura di G. Milanesi, III, Siena 1856, pp. 85, 123-125, 128; B. Varchi,Opere, Trieste 1858, I, p. 219; Dieci lettere di Senesi illustri dei secc. XV e XVI (nozze Banchi-Brini), Siena 1878; G. Vasari,Le vite..., a cura di G. Milanesi, VI, Firenze 1881, p. 93; Nuovi documenti per la storia dell'arte senese, a cura di S. Borghesi-L. Banchi, Siena 1898, pp. 472 s.; G. Agricola,De re metallica, trad. di H.-C. Hoover-L. H. 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