variazione diatopica
Per variazione diatopica (dal gr. diá «attraverso» e tópos «luogo») si intende la ➔ variazione linguistica su base geografica. L’espressione è stata, se non creata, certo diffusa negli studi linguistici da Coseriu (cfr. almeno Coseriu 1956 e 1973), accanto a quelle di ➔ variazione diastratica e ➔ variazione diafasica; l’espressione variazione diacronica, legata al mutamento nel tempo, risale invece a Saussure (cfr. Saussure 19832), mentre la ➔ variazione diamesica, legata al mezzo di trasmissione del messaggio, è stata introdotta più di recente da Mioni (19832). Ma la consapevolezza che una stessa lingua varia in rapporto allo spazio, che costituisce un’acquisizione secolare, era stata già approfondita negli studi di dialettologia (➔ dialettologia italiana) e ➔ geografia linguistica, dove tuttora invece di diatopico si usano piuttosto «areale, spaziale, geografico, geolinguistico, ecc.» (Telmon 20042).
La variazione diatopica italiana è stata per lo più studiata sotto l’etichetta di ➔ italiano regionale (o di varietà regionale di italiano), attestata dalla fine degli anni Venti e diffusasi soprattutto dopo un fondamentale intervento di Pellegrini (1960; cfr. anche Pellegrini 1975: 35-74); tale espressione, usata anche al plurale, è quella prevalente negli studi (cfr. Poggi Salani 1982; Sobrero 1988; Cortelazzo & Mioni 1990; Telmon 1990 e 1994; D’Achille 2002; Cardinaletti & Munaro 2009). C’è però chi preferisce parlare di italiano locale, perché l’aggettivo regionale può richiamare le regioni amministrative, mentre tratti diatopicamente marcati possono di volta in volta riguardare aree molto vaste (si pensi alla pronuncia intensa di /b/ e /ʤ/ intervocaliche, diffusa da Roma in giù) o molto più ridotte (subregioni, province e singoli centri; per es., ancora viene per «non è ancora arrivato» è usato a Pescara ma non a L’Aquila).
In genere la dimensione diatopica è tanto più accentuata quanto più è vasta l’estensione spaziale della lingua (si pensi, in epoca antica, alle particolarità del latino africano e oggi alle differenze tra il British English e l’angloamericano), ma non sempre è così, come dimostra appunto il caso dell’italiano, dove la variazione geografica, molto accentuata, è da rapportare alla complessità della situazione dialettale (➔ dialetti).
Nella situazione sociolinguistica italiana la variazione diatopica costituisce «l’elemento principale di variabilità e, per lo meno nell’uso orale, si sovrappone a tutti gli assi di variazione della lingua» (Cerruti 2009: 34; cfr. anche Berruto 1987: 20-27). Il rapporto con la variazione diamesica è dato dal fatto che le differenze geografiche, riguardando in primo luogo l’➔intonazione e la ➔ fonetica, si colgono nel parlato molto più che nello scritto: anche chi è in grado di scrivere testi in ➔ italiano standard quasi sempre rivela nel parlare la propria provenienza geografica; pure nello scritto, peraltro, almeno in certi tipi testuali, si possono individuare tratti regionali (➔ regionalismi), intenzionali o no. La variazione diatopica precede invece, nell’ordine, quella diastratica e la diafasica: solo all’interno delle varietà locali, infatti, sembrano potersi cogliere differenze sociali e di registro. Per la verità, si è parlato in passato di un italiano popolare unitario contrapposto all’italiano regionale (➔ italiano popolare), ma poi la variazione diastratica è stata ricondotta all’interno della diatopia, nonostante l’esistenza di alcuni tratti panitaliani marcati diastraticamente (per i rapporti tra italiano regionale e italiano popolare si veda soprattutto Berruto 1983). In diafasia, invece, sembra possibile individuare sia elementi largamente condivisi nell’uso colloquiale, sia caratteri propri dei registri formali (➔ registro) o dei ➔ linguaggi settoriali che prescindono dalla variazione regionale.
La variazione diatopica può essere messa in rapporto anche alla diacronia; da un lato, infatti, in alcune varietà regionali è normale la presenza di forme o costrutti che altrove sono da considerare ➔ arcaismi (così sovente invece di spesso in Piemonte, mi garba per mi piace in Toscana, ignudo anziché nudo a Roma); dall’altro, almeno a certi livelli di analisi – soprattutto nel ➔ lessico e nella fraseologia (➔ dialettismi; ➔ modi di dire), ma anche nella morfosintassi – alcuni tratti marcati diatopicamente possono via via espandersi e perdere così la propria marcatezza.
La diatopia riguarda sia le lingue sia i dialetti. Risalgono a ➔ Dante (De vulgari eloquentia I, ix, 4-10) alcune penetranti osservazioni sulle differenze linguistiche tra le parlate di centri di una stessa regione (Ravenna e Faenza) e perfino tra abitanti di quartieri diversi di una stessa città, come a Bologna quelli di Borgo San Felice rispetto a quelli di Strada Maggiore. Il riferimento alla microdiatopia non è raro negli studi dialettologici, che tradizionalmente contrappongono la varietà urbana a quella del contado (in opere amatoriali si hanno distinzioni ancora più sottili; per es., Ceccarelli 1977: 11 indica ben sette varietà del reatino di città). In anni più recenti, la dialettologia urbana e la sociolinguistica hanno offerto chiavi interpretative più fini del fenomeno, individuando, all’interno di centri urbani o di più vaste aree metropolitane, zone linguisticamente più conservative: così, a Viterbo, il quartiere popolare di Piano Scarano, «abitato fino ad epoca recente in prevalenza da agricoltori, artigiani, operai», rispetto ad altri quartieri «più esposti ai modelli dell’italiano regionale e del romanesco» (Petroselli 2009: 29); così, a Roma, alcuni rioni del centro storico (Testaccio, Trastevere), abitati da anziani che parlano un romanesco tradizionale (Bernhard 1992; Mocciaro 2002).
Più in generale, in Italia un esempio di variazione diatopica è costituito dalla stessa situazione dialettale, sia perché tutti i dialetti italoromanzi derivano dal latino volgare, che si è quindi differenziato da zona a zona in ragione di vari fatti (alcuni dei quali anteriori alla stessa latinizzazione), sia perché (come risulta dagli atlanti dialettali, nazionali o regionali; ➔ atlanti linguistici) anche dialetti appartenenti allo stesso ceppo, parlati in centri contigui o poco distanti, presentano particolarità che – pur all’interno di un continuum che garantisce la comprensibilità reciproca – sono in grado di distinguerli e di caratterizzarli: è il caso, per es., della vasta area partenopea, in cui la variazione diatopica è stata considerata con particolare attenzione (cfr. Sornicola 2002; Como, Milano & Puolato 2003), e della conca aquilana, attraversata dal confine tra dialetti mediani e meridionali (Avolio 2009). In certi casi le differenziazioni vanno ricondotte allo «spirito di campanile» (Saussure 19832: 249) e svolgono una funzione identitaria.
La variazione diatopica riguarda soprattutto, come si è detto, quei dialetti secondari che sono gli italiani regionali, nati dall’incontro tra lingua e dialetto. La fenomenologia delle diverse varietà regionali di italiano è stata spesso giustamente spiegata in rapporto al dialetto soggiacente, la cui influenza si percepisce soprattutto in certi livelli di analisi (intonazione e fonetica, lessico). Va però rilevato da un lato che chi parla una varietà regionale può anche non avere la competenza attiva del dialetto, dall’altro che non sempre la variazione diatopica è in relazione col ➔ sostrato dialettale: sul piano lessicale, per es., a diversi ➔ geosinonimi non sempre corrisponde un antecedente dialettale nella stessa zona (si pensi, per es., alla diversa distribuzione di cornetto, brioche, croissant, ecc.: D’Achille & Viviani 2009), ed esistono voci italiane che in certe aree vengono usate con significati particolari (come mollica «pangrattato» in Sicilia).
Molte varietà regionali italiane sono state ben descritte in numerosi studi (per un bilancio cfr. Cini 2008). Il punto di riferimento delle descrizioni, però, è il tradizionale standard di base tosco-fiorentina (➔ italiano standard) che nel parlato ha scarsissima circolazione. Ciò ha determinato, specie a livello fonetico, la segnalazione di tratti che non hanno molta rilevanza perché comuni a tutti gli italiani, toscani esclusi: tale il mancato ➔ raddoppiamento sintattico dopo la preposizione da, che sembra ormai abbandonato anche nelle scuole di recitazione (è piuttosto la presenza del tratto a connotare diatopicamente la varietà toscana). Il riferimento allo standard ha talvolta portato a considerare regionali tratti morfosintattici censurati dalle grammatiche prescrittive, ma che sono in realtà panitaliani, come il ➔ che polivalente.
Un altro aspetto generale delle ricerche è l’aver privilegiato il dato qualitativo su quello quantitativo (ma per la Svizzera italiana v. Pandolfi 2006); la variazione diatopica si coglie però anche nella frequenza di certe forme: così, al Nord, la preferenza per mica rispetto ad altre negazioni; a Roma, l’uso di manco invece di neppure, neanche, nemmeno; al Sud la maggiore vitalità del passato remoto, che al Nord è più raro, ecc. Inoltre, la variazione diatopica riguarda anche il sistema dei ➔ gesti e il piano testuale, l’uno e l’altro tuttora poco studiati in questa prospettiva variazionale (sui gesti, cfr. comunque Diadori 1993). Basterà solo ricordare come nell’estremo Sud l’espressione della ➔ negazione possa essere resa, in linguaggio non verbale, anziché con lo scuotimento del capo, con il suo sollevamento e spostamento all’indietro, accompagnato da un clic apicodentale, e come tra i segnali discorsivi ce ne siano alcuni certamente marcati regionalmente, come la formula di chiusura e cosa, usata a Napoli.
I livelli in cui la dimensione diatopica è particolarmente evidente, come si è detto, sono quelli dell’➔intonazione e della ➔ fonetica, che lasciano quasi sempre percepire la provenienza del parlante (per un quadro generale cfr. Canepari 19863; Schmid 1999; Maturi 2006): dall’intonazione, che nel linguaggio comune viene indicata come calata o accento, alla lunghezza sillabica, dal diverso grado di apertura delle vocali medie toniche alla presenza di foni assenti nello standard, fino a fatti di ➔ fonetica sintattica come le ➔ aferesi e le apocopi. Nel consonantismo, un esempio delle differenze tra varietà regionali è la resa della laterale palatale in parole come figlio e famiglia (➔ laterali); il fono, che muove per lo più dal lat. -lj- (che ha avuto nei dialetti esiti molto diversi: cfr. Grassi, Sobrero & Telmon 1997: 159, fig. 20), nello standard e nella varietà toscana è sempre intenso ([ʎʎ]); nelle varietà settentrionali è tenue ([ʎ]), ma può anche essere realizzato con un nesso di due foni [lj] (Telmon 1993: 105-106); in molte varietà centrali e meridionali è reso con [jj] o anche con [j], che a volte costituisce un tratto caratterizzante anche in diastratia (come a Roma), a volte no (come a Napoli).
Anche sul piano fonologico, in diatopia si possono cogliere sia neutralizzazioni di opposizioni proprie dello standard (come la uguale pronuncia di salsa e s’alza in tutto il Centro-Sud) o sviluppo di nuove coppie minime, come quella tra vizi e vizzi al Nord, data la conformità della resa fonetica alla grafia (➔ coppia minima).
Nella morfologia la variazione diatopica si rileva, per es., nel sistema dei pronomi: qui alcune ➔ varietà centrosettentrionali (soprattutto basse, da Roma in su) si caratterizzano per l’uso di te come ➔ soggetto (il Sud è fedele a tu), quelle meridionali per la vitalità del voi come allocutivo di cortesia (➔ allocutivi, pronomi); tra i ➔ clitici, al posto di gli / le / loro previsto dalla norma si può trovare non solo la generalizzazione di gli, che è propria del neostandard (Berruto 1987: 75), ma anche l’uso di ci, a Milano come a Palermo, e di le al maschile, in Italia centrale e anche nel Nord-Ovest; si tratta però di tratti marcati anche in diastratia come popolari.
Sul piano sintattico, un elemento di forte caratterizzazione diatopica è costituito dall’➔accusativo preposizionale, che in una frase con l’ordine normale soggetto + verbo + oggetto (➔ ordine degli elementi; nelle varietà siciliana o sarda il verbo è alla fine) è un tratto meridionale (ho chiamato a Giuseppe); in presenza di ➔ dislocazioni (a destra e a sinistra), però, appare esteso anche al Centro (Giuseppe l’ho chiamato, ma anche a Giuseppe l’ho chiamato), mentre con determinati verbi (Lorenzetti 2002: 86-88) è in espansione anche al Nord (a Giuseppe nessuno lo ha invitato oltre che Giuseppe nessuno lo ha invitato; a me non mi convince e anche a me non convince).
Per quanto riguarda il lessico, si è già accennato ai regionalismi e ai geosinonimi, alcuni dei quali sembrano resistere al processo di standardizzazione: si pensi, tanto per fare un esempio, alla concorrenza, nel linguaggio gastronomico (➔ gastronomia, lingua della), tra uva passa, uva passita, uva sultanina, uvetta, zibibbo e passolina. Forse più interessanti alcuni aspetti relativi alla formazione delle parole, dove, per es., alcuni suffissi alterativi caratterizzano determinate aree: a Roma si sentono spesso caruccio, caruccetto invece di carino, carinetto; è certamente settentrionale la terminazione in -azzo / -a in paninazzo «pagnottella»; il suffisso -accio / a è particolarmente frequente in Toscana, dove può anche non avere valore spregiativo; a Napoli risalgono dal dialetto i suffissi -illo / -élla in bellillo / bellélla «bellino / bellina»; in Sicilia è caratteristica non solo del dialetto ma anche della varietà d’italiano la produttività del suffisso -ina.
Dagli anni Novanta del Novecento una serie di ricerche hanno documentato l’esistenza secolare di usi regionali della lingua nazionale (cfr. i contributi raccolti in Bruni 1992 e 1994; Bernhard & Gerstenberg 2009) e hanno valorizzato anche alcuni espliciti richiami alla presenza di tratti regionali nel parlato che si leggono in testi del passato. Tra questi viene spesso segnalato quello contenuto nel trattato La civil conversazione di Stefano Guazzo, del 1574, il quale ammetteva, nella conversazione quotidiana, un «parlar misto» con elementi lessicali diffusi in Italia settentrionale, come barba «zio» o verzi «cavoli» (Marazzini 1999: 103-105). Importante è anche il riferimento all’uso romano contrapposto a quello fiorentino nelle osservazioni di Alessandro Tassoni alla prima edizione (1612) del Vocabolario degli Accademici della Crusca, che per altro si riallacciava alla teoria cortigiana del primo Cinquecento (➔ accademie nella storia della lingua; ➔ cortigiana, lingua). Molto note, infine, sono le riflessioni sul tema di ➔ Alessandro Manzoni, che nei Promessi sposi rifiutò il «colore locale» di cui aveva parlato nella prima Introduzione al Fermo e Lucia e nella Lettera a Giacinto Carena (1847) criticò il lessicografo piemontese perché nel suo Vocabolario domestico aveva talvolta accolto voci e locuzioni non fiorentine ma di altra provenienza regionale. Ma, se si guarda all’effettiva diffusione nel parlato di un italiano diatopicamente connotato, si può senz’altro concordare con De Mauro (19702), che colloca la nascita delle varietà regionali in epoca postunitaria, parallelamente al processo di italianizzazione dei dialetti e alla crescita dell’italofonia.
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