variazione linguistica
Per variazione linguistica si intende l’importante carattere delle lingue di essere mutevoli e presentarsi sotto forme diverse nei comportamenti dei parlanti. La proprietà di un’entità di assumere diverse manifestazioni, di essere realizzata in modi differenti, di conoscere alternative che non mutano però la natura fondamentale dell’entità stessa, sembra connaturata alle lingue. Essa si estrinseca infatti sia a livello della generale facoltà del linguaggio verbale, nella diversità delle varie lingue in cui si articola la capacità umana di parlare, sia a livello di ogni singola lingua storico-naturale (come l’italiano), nella diversità interna, entro i confini stabiliti dal suo sistema peculiare e dai modi di realizzazione che questo ammette, sia a livello del ➔ repertorio linguistico, nella diversità dell’accesso e dell’utilizzazione da parte dei singoli parlanti delle lingue e varietà di lingua che lo costituiscono. Le lingue e varietà di lingua presenti nel repertorio di una comunità non sono infatti ugualmente a disposizione né possedute nella stessa misura da tutti i membri della comunità. La variazione si manifesta dunque nei comportamenti linguistici non solo nell’uso di forme diverse della lingua, ma anche attraverso l’accesso diversificato alle varietà di lingua e la scelta della varietà da utilizzare in una certa interazione verbale (➔ bilinguismo e diglossia; ➔ commutazione di codice), che sono potentemente condizionate dalla fascia sociale di appartenenza del parlante, dal suo grado di istruzione, dalle caratteristiche della comunità di cui esso è membro (➔ sociolinguistica).
Si tratta di tre grandi aree – la variazione interlinguistica (differenza tra le lingue), la variazione intralinguistica (differenziazione interna a una lingua), e la variazione nel repertorio – che pongono questioni diverse e sono studiate secondo approcci diversi. Quando il termine variazione è usato senza specificazioni, si intende per lo più la variazione intralinguistica. Poiché questa si coglie appieno quando si guardi alla lingua calata negli usi sociali, essa è oggetto specifico di studio della sociolinguistica; la stessa sociolinguistica è anche il terreno proprio di ricerca sulla variazione nel repertorio.
La pervasività della variazione, il fatto che la differenziazione sembri «una caratteristica essenziale e onnipresente, e non occasionale o eccezionale, nel linguaggio» (Lepschy 1979: 120-121), ha indotto a vedervi una funzione simbolica di identificazione connaturata all’essere umano che vive in una società, e più in generale una funzione sociale adattativa, come in Chambers 1995: 250: «the underlying cause of sociolinguistic differences, largely beneath consciousness, is the human instinct to establish and maintain social identity» («la causa sottostante delle differenze sociolinguistiche, largamente sotto il livello della coscienza, è l’istinto umano a stabilire e conservare l’identità sociale»).
Riconosciuta da sempre, in particolare sotto l’aspetto della variazione dialettale, come una delle caratteristiche empiriche evidenti della lingua e dei comportamenti linguistici, la variazione è stata a lungo trascurata dalle correnti teoriche, di impostazione prima strutturalista e poi formalista, dominanti nella linguistica, che la considerano per lo più non rilevante per la comprensione della struttura e del funzionamento delle lingue, ed è diventata oggetto di studio significativo, anche dal punto di vista teorico, solo negli ultimi decenni. Da un lato, è cresciuta l’attenzione per la variazione interlinguistica, per effetto degli interessi convergenti sia della linguistica generativa sia della linguistica funzionale e della tipologia linguistica a studiare ciò che vi è di uguale e ciò che vi è di diverso nelle lingue, e quali sono i principi che regolano unitarietà e differenze e stabiliscono i confini entro cui i sistemi linguistici possono configurarsi. La variazione interna è invece venuta in primo piano grazie alle ricerche sociolinguistiche (➔ sociolinguistica), in ragione del fatto che la gran parte dei fenomeni di variazione che si constatano in una lingua è dotata di significato sociale, cioè correlata in maniera non casuale con fatti più o meno latamente sociali. Questo vale sia per la variazione a livelli alti, la macrovariazione, come l’articolazione di una lingua in ➔ varietà, o, a livelli più alti ancora, la variazione nel repertorio, sia per la microvariazione, vale a dire la presenza di fatti minuti di variazione (in particolare, varianti di pronunce) in una varietà di lingua.
La variazione non va confusa col mutamento diacronico: i due termini non sono sinonimi, in quanto mutamento (o cambiamento) implica il riferimento al trascorrere del tempo, una modificazione lungo l’asse temporale, mentre variazione si riferisce generalmente alla sincronia. Tra variazione e mutamento intercorrono peraltro rapporti molto stretti, in quanto i fenomeni di mutamento linguistico sono spesso alimentati da fatti di variazione linguistica e il mutamento consiste nella sostituzione durante un certo lasso di tempo di una variante con un’altra variante (cfr. § 4), attraverso una fase in cui le diverse varianti coesistono e si distribuiscono secondo tendenze determinate da fattori sociali (età, ceto dei parlanti, valore di prestigio o meno delle varianti, ecc.). Dinamiche di questo genere sono state esemplarmente studiate nell’inglese degli Stati Uniti da William Labov (1972 e 1994-2001), che dette anche dignità teorica alla variazione come proprietà inerente della facoltà del linguaggio, mostrandone la natura di ‘ordinata eterogeneità’ all’interno di un sistema linguistico.
Un altro termine vicino a variazione è variabilità, con cui s’intende la potenzialità di variare, l’essere suscettibile di variazione, e anche l’instabilità o mutevolezza che consegue da tale potenzialità quando viene posta in atto. Le manifestazioni della variazione possono infatti essere intese come fluttuazione e instabilità, e anche come eterogeneità del sistema lingua, impossibile da ricondurre a principi invarianti e sempre ben definiti; tuttavia normalmente anche quelle che sembrano fluttuazioni imprevedibili, garanzia della libertà del singolo individuo parlante, seguono un percorso leggibile in termini di tendenze connesse a fattori sociali.
Se gran parte della variazione in una lingua non è casuale, libera, ma è in correlazione con fattori sociali esterni alla lingua, diventa importante individuare quali siano i fattori fondamentali che correlano con la variazione interna di una lingua, e in un certo senso la determinano. Tali fattori si possono ricondurre ad alcune grandi classi: il tempo, lo spazio, la collocazione sociale dei parlanti e la situazione comunicativa. Si possono corrispondentemente formulare quattro assiomi, che individuano le fondamentali dimensioni di variazione:
(a) la lingua varia attraverso il tempo;
(b) la lingua varia attraverso lo spazio;
(c) la lingua varia attraverso gli strati e i gruppi sociali;
(d) la lingua varia attraverso le situazioni comunicative.
La dimensione diacronica, vale a dire la variazione lungo l’asse del tempo e nella storia, che dà luogo a diversi stati di lingua successivi, e che, come si è detto, viene più precisamente designata con il termine di mutamento (o cambiamento) linguistico, richiede una trattazione a sé ed è terreno di studio di una branca specifica delle scienze del linguaggio, la linguistica storica (o diacronica).
Nella prospettiva sviluppata da Eugenio Coseriu (cfr. Coseriu 1973: 135-152), prevalente nella linguistica europea continentale, e con termini tecnici costruiti mediante il prefissoide dia- e radici lessicali del greco classico, le tre dimensioni sincroniche di variazione, percepibili in un dato stadio temporale di una lingua, vengono designate rispettivamente come diatopia, diastratia e diafasia (➔ variazione diatopica; ➔ variazione diastratica; ➔ variazione diafasica). A queste tre dimensioni fondamentali è stata in seguito aggiunta (anche se la sua introduzione come dimensione autonoma non è condivisa da tutti i linguisti), una quarta dimensione, la diamesia, atta a cogliere la variazione in correlazione col mezzo fisico (canale visivo-grafico oppure fonico-acustico) in cui viene realizzato il messaggio linguistico (➔ variazione diamesica).
Queste dimensioni fungono anche da criteri per classificare le varietà di lingua e situare ogni produzione linguistica all’interno dello spazio di variazione di una lingua. Un qualunque messaggio linguistico è infatti sempre prodotto in una determinata varietà di lingua (nei termini di Coseriu, è sintopico, sinstratico e sinfasico) ed ha una sua collocazione in ciascuna delle dimensioni. Un enunciato come praticamente io sto a cercà ’na sfitinzia (Berruto 1993: 11) si caratterizza anzitutto come regionale romano (per la perifrasi stare a + infinito, per la forma apocopata dell’infinito cercà, per la forma dell’art. indeterminativo ’na), ed è quindi marcato in diatopia. È marcato in diastratia come lingua non colta (dato l’emergervi di decisi tratti regionali), e presumibilmente anche in termini di varietà di gruppo: lingua dei giovani (come indica il lessema sfitinzia «ragazza carina»). È marcato in diafasia, sia per il ➔ registro, che è informale (di nuovo per la presenza di cercà e ’na), sia per il sottocodice (il linguaggio giovanile): oltreché per sfitinzia, anche per la formula di apertura praticamente (➔ segnali discorsivi). Se vogliamo, e per implicazione del fatto che si tratti di un registro chiaramente informale e quindi non appropriato a una formulazione scritta e strutturalmente pianificata, si può dire che è anche marcato in diamesia, apparendo tipicamente parlato quanto a elaborazione del messaggio. Tutte queste informazioni sociolinguistiche si ricavano indipendentemente dalla realizzazione fonetica, che non è rappresentata nella trascrizione dell’esempio: le caratteristiche della pronuncia farebbero aumentare considerevolmente la marcatezza sociolinguistica, soprattutto per quanto riguarda la variazione diatopica.
Da quanto si è osservato circa la marcatezza sociolinguistica dell’enunciato esemplificato, si constata che le dimensioni di variazione non sono fra loro isolate, bensì hanno specifici rapporti. La prima che interviene a caratterizzare un messaggio, un enunciato, una forma, ecc. nei tratti di variabilità linguistica che vi si realizzano è la dimensione diatopica. La marcatezza diatopica comporta anche, solitamente, marcatezza diastratica e, meno direttamente, marcatezza diafasica, dato che la marcatezza diatopica è tanto maggiore quanto più è lontana dall’➔italiano standard e presenta tratti regionali o locali, e dato che il grado di dominio dello standard è più alto nelle classi sociali alte e medie (nei parlanti colti) e più basso nelle classi sociali basse (nei parlanti semicolti o incolti), così come lo standard emerge quando il controllo dell’enunciazione è elevato (quindi nei registri formali e alti).
La dimensione diastratica e quella diafasica si innestano quindi sulla dimensione diatopica, e hanno fra loro rapporti non sempre ben definibili, anche se in linea di principio la seconda dimensione di variazione a intervenire è quella diastratica, e sulla caratterizzazione fornita in primis dalla diatopia e poi dalla diastratia si inserisce infine l’ulteriore caratterizzazione diafasica. Il rapporto fra queste due dimensioni, e la loro frequente sovrapposizione, si possono spiegare con la constatazione che, data una certa varietà diatopica, e azzerata quindi tale dimensione, esistono nella fenomenologia della variazione tre insiemi diversi di tratti sociolinguisticamente marcati:
(a) un insieme di tratti marcati diastraticamente (ma non diafasicamente; che compaiono cioè solo presso parlanti colti o all’opposto incolti ma non variano per registro);
(b) un insieme di tratti marcato diafasicamente (ma non diastraticamente; cioè che variano per registro indipendentemente dal livello socioeducativo dei parlanti);
(c) un terzo ampio insieme di tratti marcati come genericamente ➔ substandard (che possono cioè comparire sia in varietà diastratiche basse sia in varietà diafasiche non sorvegliate).
Esempi di tratti del tipo (a) possono essere, per la morfosintassi: la sovraestensione del clitico (pronominale e avverbiale) ci col valore di pronome obliquo di terza persona (ci dico per gli / le dico; ➔ clitici; ➔ semplificazione; ➔ lingue romanze e italiano); la generalizzazione analogica per regolarizzazione di desinenze nominali (mia moglia per mia moglie, caporalo per caporale); la formazione analitica, e analogica, di gradi aggettivali, che risultano quindi doppiamente segnalati (più maggiore, molto ottimo; ➔ superlativo); certi tipi di ➔ accordo a senso (qualche fumate per qualche fumata), o regolarizzati per analogia (nessuni amici) nel ➔ sintagma nominale; semplificazioni e generalizzazioni regolarizzanti nel paradigma dell’articolo (i amici, un sbaglio).
Per il tipo (b) – presumibilmente meno rappresentato degli altri due – si può menzionare un tratto fonologico come il ➔ troncamento fonosintattico (➔ fonetica sintattica) delle forme verbali alla terza persona plurale (vengon a casa, son arrivati). Tratti del tipo (c) sono invece, sempre per la morfosintassi, per es.: concordanze a senso fra soggetto e verbo, specie quando il soggetto è postverbale (c’è molti pini; tutto il paese lo sapevano); la riduzione della doppia ➔ negazione a negazione semplice (era mai andato per non era mai andato, ho neanche ricevuto per non ho neanche ricevuto; Berruto 1987: 119-121).
La variazione nella lingua si manifesta in primo luogo nell’esistenza di variabili (socio)linguistiche. Variabile è ogni elemento o punto del sistema linguistico che si presenti sotto forme o realizzazioni diverse l’una dall’altra, che ammetta cioè diversi valori. Ogni valore che può essere assunto da una variabile è una variante di tale variabile. Il riconoscimento e la definizione delle variabili avvengono congiuntamente sulla base di due criteri, l’uno linguistico e l’altro sociale. Dal punto di vista linguistico, deve esserci sinonimia: le diverse varianti devono voler dire tutte la stessa cosa, non mutare il significato referenziale e possibilmente nemmeno quello pragmatico dell’elemento interessato (altrimenti, non si tratterebbe della stessa unità del sistema, ma di unità diverse). Dal punto di vista sociale, le varianti devono avere diversa distribuzione sociale, cioè tendere a comparire in usi, contesti, parlanti, ecc. diversi. Un insieme solidale di varianti che cooccorrano negli stessi o analoghi contesti, cioè in contesti che condividono una determinata serie di caratteri, dà luogo a una varietà (di lingua).
Variabili sociolinguistiche ricorrono a ogni livello di analisi della lingua, anche se la ➔ fonetica, la ➔ fonologia e il ➔ lessico sono i settori in cui occorrono più frequentemente. Una fra le numerose variabili fonetico-fonologiche in italiano è la realizzazione del fonema laterale palatale /ʎ/, per es., di figlio, che in posizione intervocalica può venire realizzato in almeno quattro varianti:
(a) come laterale palatale geminata o lunga [ʎː], [ˈfiʎːo], tipica della pronuncia standard;
(b) come laterale palatale semplice, [ʎ], [ˈfi:ʎo], tipica della pronuncia settentrionale colta o accurata;
(c) come semiconsonante o semivocale palatale geminata o lunga, [jː], [ˈfijːo], tipica della pronuncia regionale romana, campana, siciliana e di altre zone;
(d) come nesso di laterale alveolare e semivocale palatale [lj], [ˈfi:ljo], che si ha nella pronuncia regionale piemontese e in altri italiani regionali settentrionali.
Una variabile morfologica è, per es., la forma del pronome clitico dativo di terza persona singolare, che è gli in italiano standard, ci (con estensione del valore del clitico polivalente ci a tale funzione) in ➔ italiano popolare (soprattutto al Nord), le (con analoga estensione) in varietà regionali incolte settentrionali, je in varietà regionali molto marcate dell’Italia centrale: vedo Gianni e gli dò il libro / vedo Gianni e ci dò il libro / vedo Gianni e le dò il libro / vedo Gianni e je do er libbro. Nella morfologia derivazionale, è una variabile diatopica la suffissazione in -aio (standard e settentrionale) contro -aro dell’➔Italia mediana: benzinaio / benzinaro; ed è una variabile diastratica la suffissazione zero (opposta a -zione) in casi come spiega / spiegazione, dichiara / dichiarazione.
Una variabile sintattica è, per es., la costruzione della frase relativa (➔ relative, frasi): le varianti con pronome relativo flesso con accordo di genere e numero (il ragazzo al quale ho dato il libro), con pronome relativo obliquo non flesso (il ragazzo [a] cui ho dato il libro), con che generico polivalente e pronome clitico (il ragazzo che gli ho dato il libro, il ragazzo che ci ho dato il libro, variante più bassa con forma sovraestesa del clitico di terza persona), o con semplice che connettivo (il ragazzo che ho dato il libro) si pongono in una scala di crescente distanziamento dallo standard letterario, con crescente marcatezza diafasica (registro non sorvegliato) e diastratica (lingua incolta, italiano dei parlanti semicolti).
L’italiano è poi particolarmente ricco di casi di sinonimia sociolinguisticamente differenziata che possono essere considerati come altrettante variabili a livello del lessico: ➔ geosinonimi (cacio / formaggio, anguria / cocomero); sinonimi di diverso livello diafasico, differenti per ➔ registro (paura / fifa, uccidere / ammazzare) o per sottocodice (spazzino / netturbino / operatore ecologico, raffreddore / rinite); sinonimi di diverso livello diastratico (strage / macello, imbroglio / inciucio).
Molte variabili hanno una distribuzione che varia contemporaneamente per diafasia e diastratia, e che viene spesso chiamata distribuzione di prestigio (o laboviana, in quanto studiata, anche con raffinati metodi quantitativi, da Labov 1972). Un esempio di tipiche variabili laboviane è costituito da alcuni dei fenomeni fonetici presi in considerazione da Galli de’ Paratesi (1984) per valutare all’inizio degli anni Ottanta le tendenze standardizzanti in atto nella pronuncia dell’italiano. Presenta tipicamente una configurazione di prestigio, per es., la vibrante lunga o geminata nell’italiano di Roma, in cui viene variabilmente realizzata come geminata (variante standard: guerra [ˈgwɛrːa]) o come semplice (variante marcata regionalmente: guera [ˈgwɛːra]) in correlazione con lo strato sociale dei parlanti e con il registro o stile contestuale (la variazione laboviana è anche definita sociostilistica), come si osserva nel grafico della fig. 1 (Galli de’ Paratesi 1984: 130).
Le variabili laboviane vengono infatti tipicamente rappresentate con un diagramma cartesiano, nel quale su un asse (qui, l’asse delle ordinate) sta la quantità proporzionale di realizzazioni non standard e sull’altro (qui, l’asse delle ascisse) stanno gli strati sociali (in questo caso, rappresentati dai livelli socioeducativi dei parlanti, stratificati in: studenti di liceo, R I; studenti di istituti tecnici e magistrali, R II; operai, R III). Le linee r1 e r2 indicano i registri (nel caso: lettura di liste di parole, stile molto controllato, r2; lettura di un testo strutturato dal contenuto informale, stile meno controllato, r1). Il grafico mostra i seguenti aspetti:
(a) c’è differenza diastratica, e la quantità di realizzazioni della vibrante semplice aumenta in relazione inversa alla stratificazione sociale: gli studenti liceali non producono occorrenze di [r] scempia, gli studenti di istituto tecnico ne producono un certo numero, e gli operai un numero sensibilmente più alto;
(b) c’è differenza diafasica, in quanto entrambi gli strati che producono occorrenze della vibrante semplice ne producono di più nel registro meno sorvegliato;
(c) la differenziazione di registro è anch’essa in correlazione con la stratificazione sociale, essendo maggiore con l’abbassarsi del livello socioeducativo.
Questo significa anche che per questa pronuncia c’è nei parlanti sensibilità allo standard, poiché anche i rappresentanti del livello socioeducativo più basso cercano di correggersi, nel registro più controllato, in direzione della pronuncia standard. Molte varianti basse e substandard possono infatti essere stigmatizzate, cioè soggette a un giudizio esplicitamente o implicitamente negativo da parte dei parlanti, che le sentono come scorrette, inappropriate, sintomo di ignoranza.
La variazione interna è spiccatamente evidente nelle parlate dialettali, che, in quanto varietà dell’uso parlato non esposte all’azione uniformante e standardizzante di una norma linguistica esplicita e codificata, sono soggette a estrema variabilità, con moltiplicazione di forme e di varianti all’interno di comunità linguistiche anche di ridotta estensione demografica. Già all’inizio del secolo scorso Benvenuto Terracini poteva analizzare la presenza di molte variabili nella parlata francoprovenzale di Usseglio (un comune montano di poche centinaia di abitanti in provincia di Torino), che presentava numerose differenziazioni nelle diverse frazioni e in relazione ai gruppi familiari, ciascuno portatore attraverso le varianti adottate di una propria identità sociolinguistica e di un proprio orientamento culturale (Terracini 1922). In uno studio sul dialetto di Monte di Procida (un comune campano all’estremità occidentale del golfo di Pozzuoli, che nel 2003 contava 12.973 abitanti), Como (2007: 94-95) giunge a inventariare ben otto forme diverse del pronome soggetto di prima persona singolare variamente presenti nell’uso, differenziate nella loro occorrenza in base al contesto linguistico e in base a fattori sociali e caratteristiche individuali dei parlanti: due forme monottongali ([i] e [e]), tre forme con vocale tonica iniziale ([iə], [iɔ] e [io]), e tre forme dittongali ascendenti ([je], [jɛ] e [jə]). A cui va aggiunta una variante occasionale in cui la [i] è seguita da un suono di transizione costituito da una semivocale anteriore [ij], come nell’es. seguente, che contiene due varianti del pronome soggetto: [ˈwardə iə ˈvagə ij aˈbːaʃːə] «guarda, io vado io giù».
La dinamica del mutamento linguistico è strettamente connessa con la variazione. Dal punto di vista della diffusione nella comunità sociale, il mutamento ha come terreno di innesco una variabile sociolinguistica, di cui la forma innovativa rappresenta una variante. In molti casi il processo di mutamento inizia quando una variante diventa simbolo dei valori socioculturali di un gruppo, operando quindi come variante diastraticamente marcata. Da questo gruppo l’innovazione può diffondersi gradatamente a tutta la comunità parlante; a questo stadio, le forme conservative coesistono nella comunità parlante con le forme innovative. L’innovazione può prendere gradatamente piede (in un processo a lungo termine, che si svolge lungo più generazioni) e arrivare a relegare le altre varianti a forme arcaiche, rare, ecc., o a sostituirle completamente. Molte delle forme che troviamo, per es., nella Appendix Probi (una lista di 227 parole latine considerate errate precedute dalla loro forma ‘corretta’, compilata presumibilmente da un maestro di scuola del IV secolo d.C., e così chiamata perché rinvenuta in coda a un codice contenente scritti grammaticali di uno pseudo-Probo; ➔ latino e italiano) costituiscono varianti innovative a quell’epoca stigmatizzate che poi sono diventate la forma standard unica dell’italiano: calida e non calda, turma e non torma, auris e non oricla (da cui per ulteriore sviluppo fonetico l’attuale italiano standard orecchia).
Un’analisi dei rapporti fra le varianti delle variabili in un dato momento può quindi fornire indicazioni sulla tendenza del mutamento e sul suo presumibile esito. L’innovazione può partire sia da strati sociali alti (mutamento dall’alto) che da strati sociali bassi (mutamento dal basso). Studiosi anglosassoni (per es., Milroy 1992) hanno messo in particolare connessione la dinamica del mutamento con l’appartenenza dei parlanti a tipi diversi di reti sociali e comunicative: le innovazioni nascerebbero nei parlanti che occupano una posizione marginale nella rete e che condividono la partecipazione a più di una rete.
La differenziazione nei modi e nelle strutture con cui le diverse lingue appartenenti alle diverse famiglie linguistiche organizzano il proprio sistema e ne attualizzano le funzioni è studiata dalla linguistica moderna secondo due grandi prospettive. Da un lato, la linguistica generativa ha introdotto, per analizzare e spiegare le differenze esistenti fra le lingue, il concetto di parametro. Un parametro è un punto del sistema linguistico che ammette due soluzioni alternative, fra le quali la lingua ne attualizza una; si tratta quindi di proprietà il cui valore, a differenza di quelle proprietà innate che costituiscono la cosiddetta grammatica universale, è fissato in base all’esperienza. A seconda del valore che ogni lingua assegna ai parametri si determina una serie di differenze sintattiche che distingue una lingua dalle altre. Un parametro molto studiato è quello che in linguistica generativa viene chiamato pro-drop «caduta» (o omissione) «del pronome», o parametro del soggetto nullo, che ammette in certe lingue che il soggetto del verbo possa non essere realizzato da materiale linguistico (➔ soggetto; ➔ sintassi). L’italiano, come lo spagnolo e a differenza dell’inglese, del francese o del tedesco, è una lingua a soggetto nullo: cfr. ital. leggo rispetto a ingl. I read / I am reading, fr. je lis (il solo *lis non è possibile; mentre a io leggo, col soggetto realizzato con valore contrastivo, corrisponde il fr. moi je lis, avendo il francese una serie di pronomi personali soggetto atoni, che l’italiano non ha; ➔ lingue romanze e italiano). Il parametro del soggetto nullo appare correlato con altre proprietà sintattiche, per es., con la possibilità di avere il soggetto in posizione postverbale in frasi non marcate: ital. è arrivata Maria, contro ingl. Mary arrived, e non *arrived Mary.
Dall’altro lato, la tipologia e la linguistica funzionale analizzano le differenze fra le lingue come effetto di risposte diverse date dalla codificazione linguistica alle varie esigenze connesse con l’importanza dei contenuti semantici da esprimere, le capacità e le limitazioni dell’utente, il contesto extralinguistico in cui una lingua si trova ad operare. Simone & Lombardi Vallauri (2008: 530-532), per es., spiegano con ragioni funzionali l’universale implicazionale (proprietà non contraddetta da alcuna lingua conosciuta) che se una lingua ha una distinzione tra forma riflessiva e forma non riflessiva nei pronomi di prima e seconda persona ce l’ha necessariamente anche nel pronome di terza persona, ma non viceversa. L’inglese, per es., ha I wash myself, you wash yourself, come he was-hes himself e non *I wash me, *you wash you, *he washes him, mentre il tedesco, e l’italiano, hanno una forma dedicata solo per il riflessivo alla terza persona: io mi lavo (come tu mi vedi), tu ti lavi (come io ti vedo), ma lui si lava, e non lui lo lava. Le ragioni di questa distinzione starebbero nel fatto che, mentre alla prima persona ogni possibilità di ambiguità nel riferimento del pronome è totalmente esclusa, essendo io ovviamente a referenza unica, e alla seconda persona molto improbabile, alla terza persona l’ambiguità sarebbe molto frequente, vista la frequenza di contesti in cui sono presenti diverse terze persone. Si tratterebbe dunque di una strutturazione del sistema che risponde a una motivazione pragmatica, di efficienza ergonomica del nostro cervello, volta a evitare il più possibile le ambiguità e a codificare con chiarezza la realtà.
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