Vedi Venezuela dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
La storia recente del Venezuela è stata contraddistinta da una particolare vulnerabilità politica sorta sin dalla morte di Hugo Chávez il 5 marzo 2013. Con le elezioni presidenziali straordinarie del 14 aprile 2013, che videro l’affermazione di misura del suo vice Nicolás Maduro con il 50,66% dei voti sul candidato di opposizione Henrique Capriles Radonski, distanziato di poco più di un punto percentuale, il paese sudamericano è entrato in un circolo vizioso di instabilità e di violenze dal quale ancora oggi fatica ad uscire. Una situazione, questa, che si è acuita nei mesi successivi a causa sia dell’inasprimento delle misure repressive attuate dal governo nei confronti delle opposizioni anti-chaviste, sia del peggioramento generalizzato delle condizioni di vita della popolazione dovuto anche al declino del modello economico bolivariano. L’esplosione di proteste che da febbraio 2014 stanno attraversando il Venezuela è anche il risultato di questa congiuntura politica ed economica negativa. L’omicidio di miss Venezuela Mónica Spear Mootz e di suo marito, avvenuto il 6 gennaio 2014 durante un tentativo di rapina, ha costituito il pretesto per i manifestanti per tornare a protestare contro le autorità di Miraflores accusate di non riuscire a garantire sicurezza e stabilità economica ai suoi cittadini. Sebbene il presidente Maduro abbia provveduto ad alcuni rimpasti di governo – mirati soprattutto a consolidare il suo potere eliminando le fronde interne ed esterne al Partido Socialista Unido de Venezuela (Psuv) – tra il giugno e il settembre del 2014, la situazione nel paese non pare essere rientrata nell’alveo della legalità nè aver ripristinato il consenso all’esecutivo in carica. Le epurazioni di Nicolás Maduro hanno comunque prodotto alcuni cambi rilevanti ai vertici dello stato: si pensi per esempio alla sostituzione dell’ex ministro della pianificazione e delle finanze Jorge Giordani – un civile definito dalle opposizioni come il cosiddetto ideologo della politica economica del regime – e al vero deus ex machina della politica venezuelana, Rafael Ramírez, a sua volta passato agli esteri al posto di Elias Jaua, ex titolare del dicastero del petrolio e presidente della holding di stato Pdvsa (Petróleos de Venezuela). Al loro posto sono stati nominati Ricardo José Menéndez Prieto e, soprattutto, Asdrubal Chávez, cugino del defunto presidente Hugo Chávez. Al timone dell’azienda petrolifera di stato è salito invece un rappresentante civile, l’ingegnere Eulogio del Pino, ritenuto super partes anche dalle opposizioni. Queste ultime si sono dimostrate ancora molto frammentate e paiono aver perso quella presa sulla popolazione che aveva caratterizzato il loro apparente successo durante le prime fasi delle proteste del febbraio 2014. Anche Capriles, ritenuto da molti commentatori politici il migliore candidato presidenziale tra i leader di opposizione, rimane molto defilato dalla scena e incapace di coinvolgere le folle come nell’aprile 2013. Infine, il processo di pace, promosso e mediato dalla Chiesa cattolica per riportare le parti in conflitto a dialogare, è al momento in una fase di stallo e non paiono scorgersi all’orizzonte molte possibilità per rilanciarlo.
Sul piano internazionale, la storia del Venezuela e dei suoi rapporti col mondo è profondamente condizionata dal petrolio, del quale è tra i maggiori produttori ed esportatori mondiali. Tale circostanza rende il Venezuela un attore assai rilevante della politica e dell’economia mondiali, come testimonia il suo protagonismo in seno all’Opec – organizzazione di cui è tra i fondatori – e nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Unsc), dove è stato eletto il 17 ottobre 2014 al posto dell’uscente Argentina come nuovo membro non permanente. Nel 2015 il Venezuela sarà inoltre il primo paese della storia a occupare, allo stesso tempo, un posto all’Unsc e la presidenza del Movimento dei paesi non allineati. Nonostante una politica estera molto attiva, il paese è vulnerabile ai cicli spesso erratici del mercato petrolifero e ai loro corollari politici e strategici.
Se il petrolio permette al Venezuela di avere un orizzonte globale, la sua collocazione geografica ne fa un protagonista delle relazioni nell’emisfero americano sia per i complicati rapporti politici e commerciali che intrattiene con gli Usa, sia per la tradizionale influenza sull’area caraibica, sia, infine, per il crescente peso esercitato in vari paesi del Sudamerica, tra i quali gli alleati dell’Alleanza bolivariana per le Americhe (Alba).
Proprio sul piano regionale, il Venezuela, tra il 2011 e il 2012, è stato al centro del processo di integrazione politica ed economica dell’America Latina. Nel dicembre 2011 Caracas ha ospitato simbolicamente il primo vertice ufficiale del Celac, la neonata Comunità degli stati latinoamericani e caraibici, che nelle intenzioni di Caracas avrebbe dovuto sostituire l’Organizzazione degli stati americani (Oas) escludendo così gli Usa e permettendo, invece, l’ingresso di Cuba. Inoltre, con il vertice di Brasilia del luglio 2012, il Venezuela è stato ufficialmente ammesso come membro a pieno titolo del Mercosur. L’ingresso avvenne al termine di un negoziato durato oltre sei anni e successivamente all’abbattimento di parte dei dazi e delle tariffe doganali.
Sebbene questo processo non implichi il ripudio dei principi economici del nazionalismo sudamericano, risulta evidente un’apertura da parte di Caracas a quelli del libero mercato, a più di 15 anni dall’ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). In realtà l’ambizioso progetto del Celac ha rappresentato il culmine del sogno bolivariano di Chávez, ossia quello di realizzare un’America Latina unita e indipendente della quale il presidente venezuelano aspirava a essere il leader indiscusso.
I trenta milioni di cittadini sono in larga parte meticci, ossia la risultante storica dell’incrocio tra le popolazioni autoctone (nel caso venezuelano sono poco numerose), i colonizzatori spagnoli e la cospicua quantità di africani portati a lavorare nelle piantagioni della costa caraibica nei secoli in cui è stata in vigore la tratta degli schiavi.
Tale caratteristica non rende però la società venezuelana scevra da tensioni etniche. In genere, il 10% circa della popolazione bianca, in buona parte emigrata in Venezuela nella seconda metà del Ventesimo secolo perché attratta dal boom petrolifero, si concentra nelle fasce sociali più elevate, così come quella di origine africana o indiana è più numerosa nelle fasce sociali più basse. La ricchezza generata dal petrolio non ha ridotto le profonde disuguaglianze di reddito tra le classi. Nonostante il Venezuela sia tra i paesi a più elevato reddito pro capite dell’America Latina e benché il governo bolivariano abbia fatto ingenti investimenti nell’ultimo decennio per garantire l’accesso delle fasce marginali della popolazione ai servizi sociali, ottenendo una riduzione rilevante della povertà, ancora oggi circa il 26% dei venezuelani vive sotto la sua soglia.
Anche a causa del peggioramento delle condizioni di vita generali sono in forte aumento nel paese i fenomeni illegali, come il contrabbando di generi alimentari di prima necessità e la piccola criminalità. Quest’ultima in particolare si è resa responsabile di numerosi omicidi, alcuni dei quali politici (l’ultimo è stato quello del deputato del Psuv Robert Serra), contribuendo a trasformare il Venezuela nel paese più violento dell’intero subcontinente. Tra le priorità del governo, infatti, spicca la sicurezza personale, minacciata dalla continua escalation della criminalità nelle grandi città, in particolare a Caracas e nelle sue periferie, ormai attestatasi tra le metropoli con il più elevato tasso di omicidi al mondo. Secondo l’Osservatorio venezuelano sulla violenza, nel 2013 ci sono stati 24.763 omicidi, in aumento rispetto ai 21.692 dell’anno precedente e con un tasso pari a 79,1 ogni 100.000 abitanti, molti dei quali rimasti impuniti.
La República Bolivariana de Venezuela è uno stato federale formato da 23 governatorati, nella quale il potere centrale mantiene estese funzioni politiche e amministrative nei confronti delle giunte locali. Il centro ha una forza preponderante rispetto a tutti i poteri dello stato che, in base alla Costituzione, non sono solo quelli esecutivo, legislativo e giudiziario: ci sono anche quello elettorale, rappresentato dal Consejo Nacional Electoral, e quello morale incarnato dal Consejo Moral Republicano, dalle funzioni in realtà assai vaghe.
Dalla presidenza di Hugo Chávez e soprattutto con il nuovo corso guidato dal suo vice Nicolás Maduro il Venezuela ha assunto i tratti tipici dei regimi populisti latinoamericani: i sostenitori enfatizzano l’ampliamento della cittadinanza sociale, mentre i critici evidenziano l’autoritarismo politico e la compressione dei diritti civili.
Le riforme costituzionali e legislative introdotte da Chávez in poi hanno riconosciuto ampi diritti sociali e agevolato la concentrazione del potere politico nell’esecutivo, in particolare nelle mani del capo dello stato che lo esercita. Abolendo il bicameralismo in favore di un sistema unicamerale, ampliando le funzioni delle forze armate e ponendole direttamente sotto le dipendenze del presidente, accrescendo la sfera dell’intervento statale nei settori informatico ed economico, modificando le circoscrizioni elettorali in modo da favorire i candidati governativi, introducendo la possibilità della rielezione indefinita della massima autorità dello stato, Chávez e Maduro hanno potuto ampliare e perpetuare il loro potere.
Nel complesso, le elezioni venezuelane avvengono in maniera per lo più trasparente, certificando l’elevato benché calante consenso di cui gode il governo. Al tempo stesso, l’ampio ricorso del regime alle risorse pubbliche per assicurarsi il consenso distorce la competizione elettorale, così come impedisce il regolare corso della democrazia la tendenza a frapporre numerosi ostacoli all’azione delle opposizioni. Spiccano, a tale proposito, le forti pressioni esercitate dal governo contro le autorità locali elette nelle liste delle opposizioni, il massiccio ricorso del presidente ai mezzi di informazione come strumento di propaganda, la legislazione introdotta nel 2004 per limitare la libertà di espressione, seguita da frequenti misure volte a colpire le voci critiche su stampa e televisioni.
Pur mantenendo una solida maggioranza parlamentare, il regime chavista ha più volte sospeso le numerose funzioni di cui è investita l’assemblea ottenendone poteri speciali che hanno permesso al presidente di legiferare per decreto su una vasta gamma di materie. In tal senso, se si aggiunge la pesante ingerenza del governo nel settore giudiziario, si può riscontrare come la separazione dei poteri in Venezuela non sia completamente realizzata. Un discorso a parte merita la libertà religiosa. Benché nel complesso sia rispettata, la Chiesa cattolica è più volte entrata in conflitto con il governo, accusandolo di limitare le libertà pubbliche e di invadere il suo ambito pastorale.
Sospinta dagli elevati prezzi del petrolio e dai medesimi fattori esterni che hanno favorito la crescita economica di tutta la regione, l’economia del Venezuela è cresciuta per anni a ritmi elevati, salvo subire il contraccolpo della crisi finanziaria iniziata nel 2008 e mostrare ancora oggi grandi difficoltà a risollevarsi rispetto agli altri paesi latinoamericani. Il Venezuela orfano di Chávez si presenta dunque come un paese afflitto da paralisi, con un’economia al collasso, vittima del suo stesso modello.
Il Venezuela ha rinnegato la via del libero mercato, tornando per molti aspetti ai principi classici del nazionalismo latinoamericano. In tal senso, il governo di Caracas ha invocato il ‘socialismo del Ventunesimo secolo’ nel procedere a numerose nazionalizzazioni, a espropriazioni di terreni e imprese, a crescenti interventi statali in materia di prezzi e cambi e a partnership fondate più sull’affinità ideologica che sulla convenienza economica. I risultati di tale politica, che il governo venezuelano si è adoperato a esportare nei paesi più affini spendendo ingenti risorse, sono controversi. Se i loro fautori ne celebrano gli effetti sociali virtuosi e l’aumento dell’indipendenza nazionale dagli Usa, i critici osservano che tale modello sta mettendo in ginocchio il sistema economico nazionale, rischiando addirittura di condurre il paese verso l’insolvenza finanziaria nel breve periodo. Infatti, il paese con le maggiori riserve di greggio al mondo ed esportazioni petrolifere che superano i 100 miliardi di dollari rischia di diventare il secondo stato del Sudamerica dopo l’Argentina a entrare in default tecnico a causa del mancato pagamento ai creditori internazionali di 6 miliardi di dollari in titoli di stato.
Le ragioni di tale situazione risiedono nella politica economica troppo pervasiva dello stato, nella sua incapacità di attrarre capitali esteri, in una spirale inflazionista senza uguali in America Latina (oltre il 60% nel 2014), nonché nella corruzione e nel malaffare, incentivati dall’enorme e incontrollato potere della classe politica – civile e militare – vicina al regime in tutti i gangli dell’attività economica. Tali criticità si concentrano in particolar modo sulla gestione del vero motore dell’economia venezuelana, ossia il settore energetico (i consumi venezuelani dipendono per oltre l’85% da petrolio e gas naturale) e in particolare la grande impresa che lo gestisce, cioè la Pdvsa (Petróleos de Venezuela), la holding petrolifera nazionale e ‘cassaforte di stato’ che gestisce un budget annuale da 150 miliardi di dollari. Il calo delle esportazioni, i mancati investimenti e, in generale, la pessima situazione finanziaria della società statale ne hanno fortemente accresciuto il debito commerciale con gli investitori esteri (pari a circa 50 miliardi di dollari nel 2013). Le opposizioni politiche osservano, in particolare, come l’impiego ideologico del petrolio come arma da parte del governo abbia causato la diminuzione di investimenti vitali nel settore, il massiccio uso clientelare delle risorse di Pdvsa e un progressivo calo della produzione.
A ciò si aggiungono i ritardi e le inefficienze nel settore idroelettrico che hanno causato estesi blackout in larga parte del paese. Negli ultimi anni, la stessa Pdvsa si è incaricata di dare impulso alla produzione di energie rinnovabili, specie quella eolica, ma nel complesso il Venezuela è ancora arretrato su questo terreno. In generale, la sua performance ambientale è la peggiore tra le potenze continentali latinoamericane.
Nel corso del primo decennio del Ventunesimo secolo le spese militari venezuelane sono cresciute di oltre il 120%, grazie sia alla crescita economica, sia ai ricchi proventi petroliferi, riducendosi solamente in parte per effetto della crisi finanziaria iniziata nel 2008. Per taluni osservatori ciò si deve alle minacce che graverebbero sul Venezuela da quando Hugo Chávez ne ha fatto il paese campione dell’asse anti-americano. Per altri le spese militari sarebbero invece il coerente riflesso della sua spinta espansionista, benché in realtà i due motivi non si escludano tra loro. Oltre a dissuadere i potenziali nemici, nella fattispecie Usa e Colombia, e a garantire il proprio sostegno agli alleati bolivariani, la crescita del potenziale militare è il frutto di una dottrina che ambisce a modernizzare le forze armate dotandole di armamenti tecnologicamente avanzati, a coltivare il consenso dei militari verso il regime e ad accrescere la formazione militare della popolazione civile, sancita nel 2009 con il riconoscimento dello status militare alla milizia bolivariana, voluta dal governo a ogni costo. Nell’ambito della corsa al riarmo e delle forti tensioni che a più riprese hanno caratterizzato i rapporti con la Colombia, ha fatto molto discutere il prestito di 2,2 miliardi di dollari contratto dal Venezuela con la Russia per l’acquisto di sistemi anti-aerei e di carri armati. Le persistenti tensioni nella regione, causate sia dalla guerra interna colombiana e dalla presenza militare statunitense nel paese andino, sia dal radicalismo ideologico del governo di Caracas, inducono a pensare che il potenziamento militare del Venezuela non sarà sospeso nel breve periodo
In risposta alle proteste popolari e alla crisi politica e socioeconomica in cui versa il paese, si sono incontrati il 10 aprile 2014 nel palazzo presidenziale di Miraflores a Caracas i rappresentanti del governo venezuelano e delle opposizioni dando vita al dialogo nazionale per la pace in Venezuela. La conferenza è stata istituita su pressioni della Santa Sede – rappresentata dal nunzio apostolico Aldo Giordano – dei ministri degli esteri di Brasile, Colombia ed Ecuador e con l’ausilio dell’Unasur. In rappresentanza del governo hanno preso parte agli incontri il presidente Nicolás Maduro e il suo vice Jorge Arreaza, mentre per le opposizioni è stato designato Ramon Guillermo Aveledo, segretario di Unidàd Democratica (Mud), quale portavoce unico. Nonostante il tentativo di conciliazione, il dialogo si sta dimostrando particolarmente complesso a causa dell’indisponibilità di entrambe le parti a cercare una strategia politica comune per uscire dalla crisi. Come ha spiegato Aveledo poche settimane dopo i primi incontri, al momento, «il dialogo bilaterale è congelato». Le proteste degli studenti in Venezuela vanno avanti ormai da mesi e non sembrano avere tregua. Al dicembre 2014, in seguito alle manifestazioni anti-governative, si contavano nel paese 42 morti, 800 feriti e circa 3.000 arresti
A due anni dalla morte di Chávez, la regione latina legata al chavismo in salsa bolivariana si ritrova ancora orfana di un leader carismatico capace di assumere anche l’eredità di una leadership regionale. Nonostante il passaggio di testimone da Chávez a Maduro, qualcosa è cambiato. Il minor carisma e abilità del successore, ma soprattutto la crisi politica e socioeconomica venezuelana hanno ridimensionato notevolmente il ruolo del paese nelle dinamiche geopolitiche subcontinentali. Una condizione divenuta manifesta anche nelle intenzioni del successore del caudillo di Barinas che, con un processo lento ma costante, si sta smarcando dalla politica regionale di aiuti economici – in particolare petroliferi – del suo predecessore per perseguire una politica molto più improntata alle questioni interne. A farne le spese è stata soprattutto l’Alba (Alleanza bolivariana per le Americhe), il progetto di cooperazione politica, sociale ed economica bolivariana tra i paesi del Sudamerica sorto nel 2004 per volontà di Chávez e Fidel Castro in contrapposizione alle iniziative di integrazione regionale liberiste come il Mercosur o l’Alca (Zona di libero scambio delle Americhe). L’Alba conta otto paesi membri – Antigua & Barbuda, Bolivia, Cuba, Dominica, Ecuador, Nicaragua, Venezuela, e St. Vincent & Grenadines – e fino a quando è stata guidata da Chávez è stata in grado di contenere l’influenza nordamericana nello spazio meridionale del continente sostituendo politicamente l’Oas (Organizzazione degli stati americani). Allo stesso tempo, l’Alba si è dimostrato un utile strumento per accrescere il peso geopolitico venezuelano nel continente in funzione anti-Brasile, unica vera potenza regionale.