ausiliari, verbi
Ausiliari (dal lat. auxilium «aiuto» + -āris) si chiamano alcuni verbi che, oltre al loro uso e significato autonomi (➔ modi del verbo), se impiegati in unione con le forme non finite di altri verbi, svolgono una funzione di ‘aiuto’ nei confronti di questi ultimi in diversi modi. A questa categoria appartengono tipicamente essere (io sono partito), avere (Carlo ha mangiato) e alcuni altri. Secondo Serianni (1988: 331) questo aiuto si manifesta in tre modi, a cui corrispondono tre gruppi di verbi:
(a) nel fornire una determinazione morfologica: verbi ausiliari propriamente detti, che forniscono indicazioni riguardo alle categorie grammaticali di ➔ diatesi, modo (➔ modi del verbo), tempo e ➔ persona;
(b) nell’aggiungere un particolare valore semantico: (verbi modali o servili, che, uniti all’infinito di un altro verbo, aggiungono un’indicazione sulla modalità dell’azione; ➔ modali, verbi);
(c) nel fornire una certa informazione aspettuale (➔ aspetto).
Verbi ausiliari ‘propriamente detti’ sono essere e avere. Essi hanno anzitutto significati autonomi:
(a) Il verbo essere, se usato in unione con un nome o con un aggettivo, ha valore copulativo (➔ copulativi, verbi): è il più alto e il più forte della classe, alza un banco con una mano, mangia sempre, è buono (Edmondo De Amicis). Adoperato da solo, ha il significato di «stare», «trovarsi»: Chi dava a voi tanta gioia è per tutto (Alessandro Manzoni, Promessi sposi).
(b) Il verbo avere ha il significato di «possedere»: Oltre a questo, ch’era l’ornamento particolare del giorno delle nozze, Lucia aveva quello quotidiano d’una modesta bellezza (Alessandro Manzoni, Promessi sposi); e, inoltre, si trova in alcune locuzioni esprimenti uno stato fisico o emotivo (ho fame, ho sonno, ho paura, ecc.) che, forse, hanno potuto concorrere allo sviluppo della sua funzione di ausiliare.
Sia essere sia avere hanno però anche un ruolo fondamentale nella ➔ coniugazione verbale. Entrambi i verbi, infatti, possono essere impiegati per formare i tempi composti.
L’uso degli ausiliari coi verbi transitivi non pone problemi. Infatti, di regola, si usa avere nei tempi composti della diatesi attiva (ho amato, avevo amato, ecc.), mentre si usa essere nella diatesi passiva (sono amato, sono stato amato, ecc.).
Coi verbi riflessivi diretti (in cui soggetto e oggetto coincidono: mi lavo; ➔ riflessivi, verbi), coi verbi riflessivi indiretti o apparenti (in cui l’azione verbale non si ‘riflette’ direttamente sul soggetto: mi chiedo se ho agito bene), coi verbi reciproci (Paolo e Ilaria si amano tanto; ➔ reciproci, verbi), si avrà sempre essere:
(1) mi sono lavato
(2) mi sono chiesto se ho agito bene
(3) Paolo e Ilaria si sono amati tanto
Tuttavia (come avvertiva già Fornaciari 1974: 159), con tutti e tre i gruppi di verbi, nell’italiano antico e nella lingua poetica, è possibile avere: la donna che tanto pietosa s’hae mostrata (Dante); s’aveva messe alcune pietruzze in bocca (Giovanni Boccaccio); rotta s’hanno la piastra e la maglia (Francesco Berni).
I problemi nell’impiego degli ausiliari si incontrano soprattutto in tre casi: coi verbi intransitivi, coi verbi impersonali, coi verbi che reggono un infinito (modali o fraseologici).
Riguardo ai verbi intransitivi «non esiste una regola che permetta di stabilire quale ausiliare debba essere usato con ciascun verbo» (Dardano & Trifone 1997: 287). Come suggerisce Leone (1970: 24) si possono fare alcune generalizzazioni, che sono però solo linee di tendenza. Si può dire che l’ausiliare avere coi verbi intransitivi «atteggia l’azione verbale in dipendenza del soggetto» o, più semplicemente, che avere implica un soggetto ‘attivo’ (ha marciato). Con l’ausiliare essere, invece, «ci si limita a cogliere lo stato in cui il soggetto viene a trovarsi» (è cresciuto). Tuttavia rimangono aperte alcune questioni (perché, ad es., si hanno le forme sei partito e ha sbandato?).
Si dice, allora, che un verbo intransitivo ha l’ausiliare essere quando il suo participio passato può adoperarsi come attributo (uso attributivo): ieri è accaduta una disgrazia / la disgrazia accaduta ieri; ha l’ausiliare avere quando non è possibile l’uso attributivo: Marco ha viaggiato molto / * Marco è viaggiato molto. Inoltre, come aggiunge Serianni, l’ausiliare avere «si adopera con verbi quali esagerare, navigare, riposare, sbandare, nonostante la possibilità di un participio con valore attributivo (severità esagerata, politico navigato, ecc.), poiché tali participi (➔ participio) sono ormai avvertiti come aggettivi autonomi e l’ausiliare avere è necessario quando si voglia sottolinearne l’uso verbale: sei esagerato (aggettivo) con tuo figlio / hai esagerato (verbo) con tuo figlio» (Serianni 1988: 332).
Con taluni verbi, i due ausiliari comportano significati diversi:
(4) ho corso molto
(5) sono corso via subito
Proprio per rimediare a tali problemi, invece di considerare ciascun verbo, caso per caso, dal punto di vista semantico per stabilire i criteri di distribuzione degli ausiliari, alcuni (per es., Salvi & Vanelli 2004: 49-53) preferiscono partire dagli ausiliari richiesti da ciascun verbo per suggerire una nuova classificazione dei verbi non-transitivi (nuova denominazione in luogo di quella tradizionale di intransitivi), suddividendoli in due gruppi:
(a) verbi intransitivi (che vogliono l’ausiliare avere: sorridere → ho sorriso) e
(b) verbi inaccusativi, semplici o pronominali (che vogliono l’ausiliare essere: partire → sono partito, arrabbiarsi → si è arrabbiato).
Coi verbi impersonali si usa essere (mi è sembrato giusto avvertirlo), ma nel caso dei verbi atmosferici si ha un’oscillazione: aveva nevicato tutta la mattina (Alberto Moravia) / la mattina era piovuto (Carlo Cassola). L’uso di avere coi verbi atmosferici è forse marcato diatopicamente (D’Achille 2003: 116).
Coi verbi modali e fraseologici che reggono un infinito, l’ausiliare tende ad essere quello del verbo retto:
(6) ho letto → ho dovuto leggere
(7) sono uscito → sono dovuto uscire
Tuttavia, qualora l’infinito retto sia un intransitivo, il verbo reggente può anche essere costruito con l’ausiliare avere (non ha potuto venire).
Si ricordi che, con un verbo pronominale all’infinito retto da un verbo modale o da un verbo fraseologico, si potrà avere l’uno o l’altro ausiliare a seconda della posizione del clitico: si avrà essere, se il pronome sarà in posizione proclitica (mi sono dovuto accorgere); avere, se il pronome è in posizione enclitica (ho dovuto accorgermi).
Con l’infinito essere, l’ausiliare del verbo reggente sarà sempre avere: avrei voluto essere lì. Se l’infinito è passivo, l’ausiliare del verbo reggente è avere (avrei voluto essere avvisato).
Il verbo essere, in unione con il participio passato dei verbi transitivi, costituisce «un segnale della passività e non comporta [...] nessuna sfumatura o componente semantica aggiuntiva» (Salvi 1988: 101).
Tuttavia la costruzione passiva (➔ diatesi) con essere può comportare ambiguità interpretative. Ad es., alla frase la finestra è aperta possono essere date due interpretazioni: una passiva («aprono la finestra»), una stativa («la finestra si trova in uno stato di apertura»). Solo l’aggiunta di altri elementi può fornire un sostegno all’una o all’altra interpretazione: la presenza di un complemento d’agente o quella di un avverbio di modo indirizzano sicuramente verso il significato passivo (la finestra è aperta da Luigi; la finestra è aperta improvvisamente); la presenza di un avverbiale indicante durata, al contrario, porta ad attribuire alla frase un valore stativo (la finestra è aperta da due ore). Se il verbo è al passato remoto, invece, è possibile solo l’interpretazione passiva (la finestra fu aperta).
Anche per risolvere simili ambiguità, per l’espressione del passivo si preferisce spesso ricorrere agli ausiliari venire e andare in unione con il participio passato:
(a) venire: aggiunge una sfumatura dinamica all’espressione della passività, evidenziando l’azione nel suo svolgimento (la finestra viene aperta). Quest’ausiliare può essere adoperato solo nei tempi semplici, mai in quelli composti (* la finestra è venuta aperta);
(b) andare: esprime, in unione con il participio passato di un verbo transitivo, il passivo o sottolineando lo svolgimento di un processo (il fucile è andato distrutto) o aggiungendo un’indicazione deontica (di dovere: il lavoro va fatto «il lavoro deve essere fatto») e, in questo secondo caso, il verbo può solo figurare ai tempi semplici (* il lavoro è andato fatto).
Vengono infine annoverati tra gli ausiliari utilizzati per l’espressione della passività i verbi avere e volere, in unione con un participio passato che abbia tuttavia un soggetto agentivo espresso o sottinteso: Casca ebbe il braccio ferito da Cesare; il direttore vuole il lavoro terminato per domani. Si noti, tuttavia, che nei due esempi citati i participi fungono più da predicativi dell’oggetto (attributi) che da forme verbali.
L’unione di esse «essere» col participio passato si trova già in latino, sia nella coniugazione passiva sia in quella deponente: laudatus sum «sono stato lodato», natus sum «sono nato». Quasi sicuramente è dai tempi composti dei verbi deponenti che l’uso di esse con il participio perfetto si è esteso ai verbi intransitivi. Inoltre, a favorire l’estensione della forma perifrastica hanno certamente contribuito le due altre forme perifrastiche adoperate per il presente: currens sum «sto correndo» (cioè «sono uno che corre»); e per il futuro: cursurus sum «sto per correre» (cioè «sono uno che correrà»). A queste ultime due, inevitabilmente, si è aggiunta, a completamento, cursus sum «sono corso» («sono uno che ha corso»). Va però detto che la forma esse + participio passato era adoperata per marcare non tanto il tempo, quanto l’aspetto dell’azione: ivit «andò» (azione conclusa) contro itus sum «sono andato» (azione che ha ancora effetti sul presente).
L’uso dell’ausiliare habēre con il participio passato si trova già in latino arcaico e in quello di età classica: omnes res relictas habeo «ho tutte le cose lasciate» = «ho lasciato tutte le cose» (Plauto); quas in aerario conditas habebant (Cicerone); de Caesare satis dictum habebo (Cicerone). Bisogna precisare che queste forme perifrastiche erano impiegate, in latino, per esprimere un effetto o uno stato persistente: epistolam scriptam habeo «ho una lettera che è stata scritta». Progressivamente tali forme dall’espressione di uno stato cominciarono a indicare l’attività stessa: si Dominum iratum haberes (Agostino), episcopum invitatum habes (Gregorio di Tours); per poi essere estese, nel tardo latino, anche ai verbi intransitivi: habeo dormitum. Quest’ultimo passaggio è stato realizzato solo parzialmente dall’italiano (toscano), ché se tutti i verbi transitivi vogliono l’ausiliare avere nei tempi composti della diatesi attiva, gli intransitivi vogliono, come si è visto al § 3, in parte avere e in parte essere. Non così nelle altre lingue romanze (cfr. § 7).
L’ausiliare venire per l’espressione della passività è il frutto di un’evoluzione cominciata già a partire dall’italiano antico: si passa da una prima fase in cui la forma venire + participio passato aggiunge all’azione un’indicazione di involontarietà (un caso fortuito): gli venne questo spago trovato (Giovanni Boccaccio); a una seconda in cui venire è il corrispondente del lat. fieri «diventare»: tosto ve ne verrete ricca (Gianfrancesco Straparola). Infine l’uso si sostituisce al passivo: questo favore mi veniva concesso (Antonio Fogazzaro). Sempre per l’espressione del passivo è da ricordare, nel toscano antico e nella lingua poetica, l’uso di fieri + participio passato, adoperato per il futuro: Vi fia grato? (Francesco Maria Piave).
Nel § 3 è stata considerata la distribuzione degli ausiliari essere e avere nell’italiano. Nei dialetti d’Italia però, come si vedrà subito, vi sono sensibili differenze (Rohlfs 1966-69: §§ 727-738, da cui sono ripresi gli esempi sia nel paragrafo precedente che in questo).
In alcuni dialetti meridionali (Lazio meridionale, Marche meridionali, Abruzzo, Bari) si trova l’ausiliare essere coi verbi transitivi all’attivo in luogo di avere. Il fenomeno si realizza solo con la prima e la seconda persona ([so maˈɲatə] «ho mangiato», [semə maˈɲatə] «abbiamo mangiato»; [si maˈɲatə] «hai mangiato», [ˈsetə maˈɲatə] «avete mangiato»), mentre con la terza persona si ha l’ausiliare avere ([a maˈɲatə] «ha mangiato», [au maˈɲatə] «hanno mangiato» (per lo stesso fenomeno nei dialetti del Lazio meridionale cfr. Tufi 2006). Forse il diverso comportamento degli ausiliari tra le prime due persone e la terza è motivato da due ragioni:
(a) il particolare statuto del participio passato nel tardo latino, che poteva avere un valore passivo, attivo, riflessivo, così che venivano avvertite equivalenti frasi come sono scelto un vestito e mi sono scelto un vestito;
(b) l’uso più frequente nel parlato della prima e seconda persona e la tendenza alla semplificazione (in questo caso la caduta del pronome atono). Nel piemontese, invece, si ha l’ausiliare essere in tutte le persone (i son vist «ho visto», l’è tirá «ha tirato», in dà «hanno dato»).
Sempre nel Meridione l’ausiliare avere è preferito coi verbi intransitivi ad essere: [o ˈʃintə] «sono sceso», [ˈa dːʒo veˈnuto] «sono venuto» (accanto a [so bːeˈnuto]), [ˈaʤə ˈʃtatə] «sono stato». La stessa caratteristica si ritrova in Veneto ga calà e nella fase antica dei dialetti settentrionali (il piemontese antico el avea istà «era stato»).
L’ausiliare avere, infine, si ha nei dialetti meridionali coi verbi pronominali e riflessivi: vedi abruzzese [sə ˈnavɛ ˈitə] «se ne era andata», il napoletano [ta ʃcorˈdatǝ] «ti sei scordato», il siciliano lu carru s’a firmatu «il carro si è fermato».
Come si è accennato nel § 3, l’uso di avere coi verbi pronominali e riflessivi era tipico dell’italiano antico: questi due cavalieri s’aveano lungamente amato (Novellino), m’ho posto in cuore (Giovanni Boccaccio); accanto alle forme con essere: egli non s’era potuto partire (Giovanni Boccaccio). La costruzione con avere permane nel Veneto: m’ho maridà (Carlo Goldoni); e, talvolta, compare nell’italiano letterario: pare che il poeta si abbia posto (Giacomo Leopardi).
I verbi modali che reggono l’infinito, in italiano e toscano (§ 3), prendono l’ausiliare del verbo retto: ella non era ancora potuta venire (Novellino), se io fossi voluto andar dietro a’ sogni (Giovanni Boccaccio). Nei dialetti settentrionali il verbo all’infinito non ha un’influenza decisiva sulla scelta dell’ausiliare (il Veneto: gó dovú partir «sono dovuto partire», no go podesto vignir «non sono potuto venire»). Nel Meridione, se l’abruzzese ha sempre avere ([nun a puˈtutə ˈʤi] «non è potuto andare», [nun a vuˈlutə parˈti] «non è voluto partire»), nel napoletano e in Calabria l’uso oscilla tra essere e avere: aveva potuto essere / possibele che fosse potuta foíre (Raffaele Capozzoli); nun è bbolutu venire / non ha bboluto venire. Per ulteriori approfondimenti si rimanda a Telve (2007).
Nell’Italia meridionale continentale si tende ad adoperare, in alternanza con l’ausiliare avere, il verbo tenere: saccio ca tienə lu fuoc’allumato (Luigi Molinaro) «so che hai acceso il fuoco». Questa costruzione perifrastica c’è anche in italiano, ma viene ad assumere il significato di «persistere», «mantenere»: il marito teneva detto che allumasse il fuoco (Matteo Bandello) «persisteva nel dire»; tengo chiusa la porta «mantengo la porta nel suo stato di chiusura». In piemontese la perifrasi esprime l’aspetto durativo: i tnia dit tra mi «andavo dicendo tra me».
Osservando tali oscillazioni sulla distribuzione degli ausiliari, non solo nell’italiano (§ 3), ma anche nei dialetti d’Italia, si può affermare che «nella questione della scelta degli ausiliari si avvertono ancora segni di instabilità» (Simone 1993: 82).
In francese, come in italiano, si hanno gli ausiliari être e avoir. Il primo viene adoperato con il participio passato (sempre accordato) dei verbi pronominali e riflessivi (elles se sont proménées dans la ville; elle s’est lavée) e dei verbi intransitivi (ils sont venus). Il secondo ausiliare viene adoperato col participio passato dei verbi transitivi con soggetto agentivo (j’ai écrit la lettre) e coi verbi atmosferici (il a plu). Nel francese contemporaneo – tranne in quello metropolitano – si sta assistendo a un’espansione di avoir nel paradigma attivo, anche se être è ancora resistente con alcuni intransitivi (di movimento) e coi riflessivi (Harris 1988: 225).
Solo in spagnolo e in portoghese antico si registrava ancora l’alternanza tra ser «essere» coi verbi intransitivi (participio sempre accordato) e haber / haver (rispettivamente spagnolo e portoghese) con gli altri verbi e col participio accordato con l’oggetto diretto. Alla fine del XV secolo sia haber che haver vengono estesi a tutti i verbi, con il participio passato non più accordato (Green 1988: 101-102). Sin dai tempi antichi, poi, sia lo spagnolo sia il portoghese presentavano una costruzione con il lat. tenere + participio passato: tengo preparada la cena (lat. habeo coenam paratam); tenho o libro leido «ho letto il libro». Lo spagnolo ha conservato in questa costruzione l’accordo del participio passato e la forma perifrastica aggiunge, come avveniva in latino, un’informazione sull’aspetto (nell’esempio sopra: «ho la cena già preparata»). Il portoghese, invece, è andato oltre: il verbo ter ha sostituito haver (non richiedendo inoltre più l’accordo del participio), mentre haver è avvertito come letterario (Parkinson 1988: 150). In ciò le lingue dell’area iberica possono essere confrontate coi nostri dialetti meridionali (§ 6).
Di regola l’ausiliare precede il participio passato a cui è legato (ho mangiato; siamo usciti). Tra ausiliare e participio possono tuttavia interporsi avverbi o congiunzioni (ho veramente mangiato; siamo dunque usciti). Frequente è nell’italiano regionale di Sicilia, del Salento e di Sardegna l’inversione dell’ausiliare rispetto al participio (uscito è; capito mi hai?).
L’inversione dell’ausiliare è tipica anche della lingua letteraria antica e di quella poetica: ma poi che mangiato ebbe (Boccaccio); Ed Argo, il fido can, poscia che visto / ebbe dopo dieci anni e dieci Ulisse, / gli occhi nel sonno della morte chiuse (Ippolito Pindemonte). Inoltre, sempre nell’italiano antico e nella lingua poetica si può avere la tmesi tra ausiliare e participio: Ma poi ch’i fui al piè d’un colle giunto / là dove terminava quella valle / che m’avea di paura il cor compunto (Dante).
Una questione sintattica concernente l’uso degli ausiliari è l’➔ accordo del participio passato nelle forme composte (Serianni 1988: 355; 390-392; per un quadro complessivo sulla situazione italiana, Loporcaro 1998).
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