verbi
Assieme ai ➔ nomi, i verbi sono una categoria di parole (➔ parti del discorso) cruciale nell’organizzazione lessicale e grammaticale delle lingue, al punto da essere considerati un universale linguistico: mentre infatti nelle lingue questa o quella classe di parole può mancare (per es., secondo Dixon 1977, alcune lingue austronesiane sono prive di aggettivi), nomi e verbi non mancano mai (Sapir 1921). La loro centralità si riflette nella quantità di nomi e verbi presenti nel ➔ lessico delle lingue, generalmente ben maggiore del numero di ➔ aggettivi, ➔ avverbi, e altre categorie minori.
Si possono dare diverse definizioni di verbo, a seconda del livello di analisi considerato. Una prima definizione valida per l’italiano (e altre lingue) è quella morfologica: il verbo è quella classe di parole, contenente membri come ridere o mangiare, che si presta a essere modificata morfologicamente per esprimere, ad es., il tempo (rido, ridevo; ➔ temporalità, espressione della), la ➔ persona (rido, ridiamo) e il modo (riderei, ridessi; ➔ coniugazione verbale; ➔ modi del verbo). Questa definizione, tuttavia, dice poco riguardo al contenuto informativo del verbo: a cosa si riferiscono il tempo, la persona e il modo? Inoltre, la definizione non regge se proiettata sulla varietà delle lingue, dato che in molte lingue dalla morfologia scarsa o nulla (dall’inglese fino al cinese), le classi di parole variabili come il verbo italiano devono essere definite su altra base, per es., sintattica o distribuzionale (per una classificazione delle parti del discorso con criteri principalmente sintattici, si veda Hengeveld 1992).
Nella letteratura, specialmente tipologica, sono stati fatti numerosi tentativi di definire le classi di parole in base al significato intrinseco dei loro componenti. Un criterio ritenuto fondamentale da molti (per es., Lyons 1966), ma in verità già presente in riflessioni antiche, è quello che attribuisce al verbo la proprietà di descrivere un evento – intendendo per evento qualsiasi situazione, statica o dinamica, intenzionale o meno, comprese le azioni (dunque sono verbi possedere e rimanere al pari di cadere, dormire, mangiare, saltare, subire, ecc.) – e al nome la caratteristica di riferirsi alle entità (i partecipanti all’evento): persone, animali, piante, luoghi, oggetti fisici o immaginari, concreti o astratti, animati o inanimati, definiti o no, come, ad es., bambino, bicchiere, lupo, acqua, traffico, mare, bellezza.
Anche questa definizione, però, presa da sola, presenta difficoltà. Molti nomi esprimono eventi (tipicamente i nomi deverbali come allenamento, caduta o sostituzione, ma anche nomi morfologicamente semplici come festa, concerto o riunione; ➔ deverbali, nomi); molti verbi vengono usati come nomi per esprimere entità astratte (il potere, il dovere, ecc.; Simone 2004; ➔ sostantivato, infinito); nomi d’azione possono riferirsi a entità concrete (costruzione, parcheggio; ➔ azione, nomi di; ➔ risultato, nomi di), per non parlare degli usi ibridi (il mangiare dei gatti), ecc.
Essenziale per la definizione del verbo è piuttosto la nozione di predicazione, specialmente nella versione che la linguistica ha mutuato dalla logica, in particolare da Frege (1892). Parole come i verbi hanno tipicamente la funzione di predicare, cioè di dire o affermare qualcosa a proposito di qualcos’altro. Le parole che hanno la funzione di predicare sono i predicati (➔ predicato, tipi di), le entità a cui la predicazione si applica sono chiamate ➔ argomenti. Il predicato è un’espressione linguistica incapace di funzionare da sola, che deve essere completata da un certo numero di argomenti per poter dare luogo a una frase. Il ‘dire qualcosa’ consiste tipicamente nell’attribuire una proprietà a un’entità (come fa, per es., splendere nella frase il sole splende), oppure nell’istituire una relazione tra due o più entità (come fa riscaldare nella frase il sole riscalda la stanza).
Benché esistano diversi tipi di predicati non verbali (in particolare nomi e aggettivi; cfr. § 2), si può dire che l’uso qualificante del verbo è quello predicativo (Prandi 2006: 308); in altre parole, la nozione funzionale di predicato è strettamente collegata a quella categoriale di verbo e ne costituisce una proprietà definitoria forte.
In quel che segue si esaminano i tipi e le classi principali di verbi italiani. In particolare si illustrano diverse categorie distinte di verbo secondo la funzione svolta nella frase (§ 2); nei restanti paragrafi sono presentate le classi individuate osservando le relazioni tra il comportamento sintattico e il tipo di significato espresso. Per dettagli sulle singole classi si vedano le voci a cui si rinvia.
Accanto alla già accennata funzione predicativa, il verbo può svilupparne altre, da considerarsi derivate, in particolare quando esso si combina con alcune classi di nomi o entra in specifiche costruzioni.
Le principali funzioni tradizionalmente riconosciute al verbo da questo punto di vista, accanto a quella predicativa, sono le funzioni copulativa, ausiliare e di supporto (Serianni 1997). Funzioni assimilabili a quella di ausiliare sono svolte dai verbi modali (➔ modali, verbi) e da un numero ristretto di verbi che entrano nella costituzione di perifrasi verbali con valore prevalentemente tempo-aspettuale (stare, andare, venire e pochi altri; ➔ perifrastiche, strutture).
Un verbo ha funzione copulativa (➔ copulativi, verbi) quando la funzione di predicare è svolta da un altro elemento, per es., un nome (Luca fa l’ingegnere), un aggettivo (Luca sembra stanco) o un avverbio (Luca sta bene). In questo caso il verbo ha la funzione di collegare il soggetto col predicato non verbale. In genere, il predicato non verbale precisa una qualità, un attributo del soggetto. Il verbo copulativo ha un significato ‘debole’, ‘leggero’, assimilabile a quello di essere.
Alcuni studiosi preferiscono tenere distinta la ➔ copula (essere) dai verbi detti copulativi (diventare, sembrare, stare, restare, rimanere, ecc.) perché, mentre la copula è un puro elemento di congiunzione (un «‘ponte’ tra il soggetto e il contenuto semantico della parte nominale»; Serianni 1997: 65), i verbi copulativi propriamente detti contribuiscono alla semantica del costrutto e svolgono dunque una funzione insieme copulativa e predicativa:
(1)
a. Luca è ingegnere
b. Luca è diventato ingegnere / sembra un ingegnere / fa l’ingegnere.
Come i verbi copulativi, i ➔ verbi supporto sono verbi predicativi che in determinati ambienti sintagmatici fungono da ‘appoggio’ al predicato principale costituito generalmente da un nome, come in prendere una decisione (che vale decidere), dare un consiglio (che vale consigliare), fare una passeggiata (che vale passeggiare).
A differenza delle costruzioni copulative, nelle costruzioni a verbo supporto il nome è di norma un nome ‘insaturo’ (cioè un nome che regge uno o più argomenti: la decisione di Luca, il consiglio di Luca a Gianni, la passeggiata di Luca) e non un nome classificatore, come nel caso di ingegnere (Prandi 2006: 309).
Gli ausiliari, infine (➔ ausiliari, verbi), sono verbi che, oltre al valore primariamente predicativo, ne hanno uno grammaticale. Tale è il caso di avere, che esprime possesso, ed essere, che esprime esistenza:
(2) Luca ha due macchine
(3) non angosciarti per ciò che non è
In unione con le forme non finite di altri verbi (➔ modi del verbo) svolgono una funzione di ‘aiuto’, poiché servono a formare i ➔ tempi composti, accompagnando dunque il predicato verbale del verbo predicativo ed esprimendo tempo, modo e persona.
L’italiano ha due ausiliari principali: essere e avere. Il primo è usato prevalentemente in costrutti intransitivi e passivi (il libro è uscito, il libro non è letto da nessuno; ➔ transitivi e intransitivi, verbi); il secondo in tutti i costrutti transitivi e con una sottoclasse di verbi intransitivi (imparare: i bambini hanno imparato la poesia; dormire: i bambini hanno dormito tranquilli). Proprio la scelta di due diversi ausiliari consente di distinguere due classi principali di verbi intransitivi (➔ inaccusativi, verbi).
Nell’espressione del passivo (➔ passiva, costruzione) emergono altri verbi ausiliari: a essere si aggiungono andare e venire:
(4) il lavoro viene svolto quotidianamente
(5) il tuo lavoro non andrà perduto
In generale, rispetto alle forme con essere, venire focalizza soltanto lo svolgimento dell’azione (infatti, mentre il lavoro è svolto può essere interpretato sia come la descrizione di un’azione sia come la descrizione di uno stato, il lavoro viene svolto ammette soltanto la prima lettura). Il passivo con andare aggiunge un valore modale di dovere (➔ modalità):
(6) il lavoro va fatto [= «il lavoro deve essere fatto»].
Forme verbali assimilabili a quelle ausiliari sono i verbi modali (tradizionalmente chiamati servili; ➔ modali, verbi), che esprimono informazione modale di tipo deontico o epistemico; è il caso di verbi come dovere e potere:
(7)
a. non posso crederci
b. tutti possiamo sbagliare
(8)
a. sono dovuto partire all’improvviso
b. deve essergli capitato qualcosa
Questi verbi sono sempre accompagnati dall’infinito di un altro verbo, che rappresenta il predicato principale; in determinati costrutti, il verbo all’infinito può restare sottinteso, per es., quando è immediatamente recuperabile dal contorno sintagmatico (9), o in altro modo (10):
(9) ognuno fa ciò che può [fare]
(10) la volontà può molto.
Infine, ci sono gli usi fraseologici di verbi come stare per, mettersi a, ecc. (➔ fraseologici, verbi):
(11) sto per terra [stare vale «trovarsi»]
(12) sto per cadere [stare per indica un futuro imminente]
La combinazione di stare per e cadere costituisce una perifrasi verbale (➔ perifrastiche, strutture). Le perifrasi verbali (Bertinetto 1990) sono costruzioni formate da un verbo di modo finito preso entro una classe ristretta di verbi (come stare nell’es. 12) + un verbo principale, coniugato al participio, gerundio o infinito. Nella perifrasi il verbo fraseologico ha un significato diverso da quello usuale e focalizza l’interpretazione su una particolare fase o sfumatura tempo-aspettuale del processo (per es., imminenza, progressione, continuità, conclusione: cfr. Serianni 1997: 280).
Riassumendo, è possibile interpretare la funzione svolta da un verbo nei diversi contesti d’uso come il risultato dell’interazione tra il suo significato intrinseco (o lessicale) e quello degli elementi con cui entra in contatto nella catena sintagmatica.
In particolare sono rilevanti i processi di co-variazione semantica che si attivano tra il verbo e i nomi che riempiono le posizioni argomentali: si vedano i diversi valori di fare in fare una torta (dove è predicativo, nel senso di «preparare, cuocere»), fare l’ingegnere (copulativo, con senso assimilabile a «essere»; su questo valore di fare cfr. La Fauci & Mirto 2003), fare una passeggiata (supporto, con valore di «mettere in atto»), ecc.
In quest’ottica i verbi tendono a distribuirsi lungo una scala di verbalità (o di predicatività: in ingl., scale of verbiness; Sasse 2001), i cui due poli estremi sono rappresentati, rispettivamente, da verbi con significato stabile (poco sensibili a variazioni di senso per effetto del contesto) e da verbi ‘leggeri’ come fare (Jespersen 1954), le cui molte accezioni emergono dall’interazione con la semantica dei nomi che riempiono le posizioni argomentali.
La più tradizionale distinzione dei verbi è quella tra verbi transitivi e intransitivi (➔ transitivi e intransitivi, verbi; una sintesi in Jezek 2005). Un verbo è transitivo quando ammette un complemento ➔ oggetto (o diretto), come nel caso di aggiustare in (13), che non può apparire senza oggetto:
(13) l’idraulico ha aggiustato il tubo rotto / *l’idraulico ha aggiustato
È invece intransitivo quando non ammette complemento oggetto, come nel caso di arrivare in (14):
(14) il postino arriva / *il postino arriva le lettere
Come è noto, alcuni verbi transitivi possono, in talune condizioni, essere usati senza oggetto: da ieri non fumo più (sigarette); ti conviene parcheggiare (la macchina) sotto casa, ecc. Si suppone che in questi casi il complemento oggetto, benché non espresso, sia comunque inferibile facilmente.
Il carattere transitivo o intransitivo di un verbo si accompagna generalmente con altre proprietà, che vengono sfruttate come test diagnostici per riconoscerlo: per es., i verbi transitivi ammettono la forma passiva (il tubo è stato aggiustato dall’idraulico o semplicemente il tubo è stato aggiustato), quelli intransitivi no (*il postino è stato arrivato). Il test della passivizzazione consente di distinguere verbi come aggiustare da verbi come pesare che, in determinati usi, pur presentando un oggetto apparente, non possono essere passivizzati e dunque non sono transitivi a tutti gli effetti:
(15) la torta pesa tre chili / *tre chili sono pesati dalla torta
Si ritiene che la caratteristica di essere transitivo o intransitivo, così come descritta, sia una proprietà che il verbo ha in forza del suo significato. Per es., i verbi transitivi più tipici sono quelli in cui il soggetto fa un’azione che ‘transita’ o ‘passa’ sull’oggetto, cioè ha effetti su di esso, che subisce le conseguenze di questa azione (ad es., il suo stato viene modificato). Questa definizione però, valida per molti casi, come per aggiustare, è inadeguata per molti altri. Ad es., non è valida per frasi transitive come Luca possiede due case, nelle quali il soggetto non fa alcuna azione e l’oggetto non subisce alcuna modifica di stato: possedere è dunque un verbo transitivo, ma di bassa transitività, mentre uccidere o distruggere sono di alta transitività. In generale, l’italiano codifica con verbi transitivi una varietà di relazioni che non sono propriamente transitive, come mostra il fatto che la versione passiva di talune frasi attive non è possibile:
(16) ho mal di testa / *il mal di testa è avuto da me
(17) ho fretta / *fretta è avuta da me
(18) ha vent’anni / *vent’anni sono avuti da lui
Per questo motivo, per definire questi tipi di verbi, è meglio attenersi, almeno in un primo momento, a una definizione grammaticale, basata sulla presenza o sull’assenza del complemento oggetto (una definizione semantica della transitività si trova tuttavia in Hopper & Thompson 1980; per approfondimenti, Jezek 2003: 108-110).
I verbi intransitivi, per parte loro, oltre a non ammettere complemento oggetto né forma passiva, da un punto di vista sintattico si suddividono in due classi principali: gli inergativi e gli inaccusativi (per gli uni e gli altri, ➔ inaccusativi, verbi).
I verbi inergativi sono quelli che in italiano nei tempi composti hanno avere (19), mentre gli inaccusativi hanno essere (20):
(19) Luca ha camminato, lavorato, riso, dormito
(20) Luca è arrivato, caduto, sparito
Gli inaccusativi comprendono anche i verbi intransitivi chiamati pronominali (Luca si è ammalato, pentito, commosso, arrabbiato ecc.; cfr. § 3.3).
Dal punto di vista del significato, i verbi intransitivi esprimono eventi di natura diversa, sicché non paiono possibili generalizzazioni. È stato però osservato (tra gli altri, da van Valin 2005 e Levin & Rappaport Hovav 2005) che esistono numerose correlazioni tra l’appartenenza di un verbo intransitivo a una delle due classi sopracitate e le sue proprietà semantiche e azionali: i primi tendono a esprimere attività intenzionali (lavorare, camminare, nuotare, cantare, ecc.) o funzioni e reazioni corporee non propriamente controllate, colte nel loro procedere (dormire, respirare, piangere, tremare, ecc.); i secondi, a esprimere un brusco cambiamento di stato, indipendente dalla volontà del referente del soggetto (cadere, guarire, esplodere, sparire, morire), un cambiamento di posizione a seguito di un moto direzionato (arrivare, entrare, fuggire, scendere), uno stato (restare, rimanere), un avvenimento (occorrere, succedere), ecc.
È stato anche notato che i verbi intransitivi esprimono eventi diversi dai verbi transitivi, ma a ben vedere ciò non è sempre vero: si trovano infatti coppie di verbi sinonimici di cui l’uno è transitivo e l’altro è intransitivo. Un esempio è dato dalla coppia di verbi chiamare e telefonare: devo chiamare Paolo alle sette (transitivo) rispetto a devo telefonare a Paolo alle sette (intransitivo).
L’italiano ha una numerosa serie di verbi pronominali (➔ pronominali, verbi), cioè verbi nella cui forma appare un pronome clitico (➔ clitici). La classe più ampia è quella dei verbi che si costruiscono obbligatoriamente o facoltativamente con il pronome clitico si. In base al contributo semantico del pronome è possibile distinguere sei classi principali di verbi in -si:
(a) verbi riflessivi, che descrivono un’azione intenzionale che il soggetto compie trattando sé stesso come oggetto: lavarsi, vestirsi;
(b) verbi con uso riflessivo indiretto, il cui oggetto non è la persona in generale ma alcune sue pertinenze tipiche: tagliarsi i capelli;
(c) verbi con uso intensivo (o di affetto), in cui il -si indica una più intensa partecipazione del soggetto al processo descritto: per es., leggersi un romanzo, bersi una birra, farsi una passeggiata;
(d) verbi reciproci, che descrivono eventi in cui partecipano due soggetti, ognuno dei quali promuove e riceve gli effetti dell’evento stesso: salutarsi, sposarsi;
(e) verbi con uso reciproco indiretto, il cui oggetto non è la persona in generale ma sue pertinenze: stringersi la mano;
(f) verbi intransitivi pronominali, i quali, pur presentando il si nella coniugazione, non esprimono un evento riflessivo: arrabbiarsi.
I verbi in -si non esauriscono la gamma dei verbi pronominali dell’italiano. Infatti altri pronomi clitici (ci, la, le, ne) si saldano al verbo, dando luogo a lemmi che alcuni (De Mauro 1999) chiamano verbi procomplementari. Alcuni esempi sono:
(a) verbi con -ci: andarci, entrarci (questo non c’entra);
(b) verbi con -la: finirla, piantarla;
(c) verbi con -le: buscarle; prenderle;
(d) verbi con -ne: volerne (non volermene).
I clitici si combinano tra loro dando luogo a verbi con pronome multiplo, come avercela (con). La classe piu numerosa è quella con -si in combinazione con uno dei pronomi di cui sopra: cavarsela, spassarsela; andarsene, partirsene. A loro volta, le forme lessicalizzate con pronome semplice o multiplo possono occorrere in polirematiche, in cui coinvolgono altri elementi quali avverbi, aggettivi e nomi: mettercela tutta, prenderci gusto, farsela sotto (➔ polirematiche, parole).
Di norma, un verbo non è esclusivamente transitivo o intransitivo, ma entra in più costruzioni, nelle quali assume accezioni diverse. Per l’italiano è possibile riconoscere le seguenti classi di alternanza (Jezek 2003: 67 segg., ripresa in Salvi & Vanelli 2004: 49-51; in chiave lessicografica, Cordin & Lo Duca 2003):
(a) verbi solo transitivi: hanno solo la variante transitiva e non ammettono in genere l’omissione dell’oggetto: abolire, indossare, noleggiare, ecc.;
(b) verbi solo intransitivi: hanno solo la variante intransitiva e se ne distinguono vari sottotipi: inergativi (russare, camminare, dormire), inaccusativi semplici (che hanno solo la variante inaccusativa senza clitico si: arrivare, cadere, morire, ecc.), inaccusativi pronominali (che hanno solo la variante inaccusativa con clitico -si obbligatorio: arrabbiarsi, pentirsi, vergognarsi, ecc.), inaccusativi semplici e pronominali (che hanno sia la variante inaccusativa semplice sia quella pronominale: sedere / sedersi, dispiacere / dispiacersi, ecc.), inaccusativi e inergativi (che hanno una o più varianti inaccusative – semplici e/o pronominali – e una inergativa: rimbalzare, rimbombare, squillare, piovere, nevicare, ecc.);
(c) verbi transitivi e inergativi: hanno una variante transitiva e una inergativa, in taluni casi analizzabile come un costrutto transitivo a oggetto nullo (come si è visto sopra): mangiare, scrivere, leggere, cantare, parcheggiare, ecc.:
(21) il bambino non mangia
(22) non so scrivere
(23) vado a parcheggiare
(24) smetti di fumare
(d) verbi transitivi e inaccusativi: hanno una variante transitiva e una o più varianti inaccusative (semplici e/o pronominali): affondare, aumentare, guarire, migliorare, asciugare / asciugarsi, rompere / rompersi, riempire / riempirsi, ecc.;
(e) verbi transitivi, inaccusativi e inergativi: hanno una variante transitiva, una o più varianti inaccusative (semplici e/o pronominali) e una inergativa: continuare, bruciare / bruciarsi, ecc.
Nel passaggio dall’italiano antico all’italiano moderno si rilevano numerosi spostamenti di alternanza, che colpiscono in particolare alcune classi di verbi (di moto, di cambiamento di stato). Per es., molti verbi che in italiano moderno hanno soltanto la variante inaccusativa semplice, in ➔ italiano antico avevano anche quella pronominale (un’ampia rassegna in Ageno Brambilla 1964; una sintesi in Jezek 2010: 89).
(25) Morra’ti, morra’ti [= «morirai»] (Dante, Vita nova XIV, 42).
Un criterio che migliora la classificazione tradizionale dei verbi è quello basato sulla nozione di struttura argomentale (Grimshaw 1990), che può essere definita come l’insieme di costituenti obbligatori (detti ➔ argomenti) che un verbo richiede per completare il suo significato.
Per es., il verbo abitare ha due argomenti (il soggetto e il locativo: Luca abita è una frase incompleta in italiano), mentre correre ne richiede lessicalmente soltanto uno (il soggetto: Luca sta correndo), sebbene possa presentarsi anche con altre specificazioni, per es., locative (Luca sta correndo nel parco), che però costituiscono elementi detti circostanziali (o accessori). Gli argomenti correlano i partecipanti (animati e non animati) alla situazione descritta dal verbo e variano in numero e tipo a seconda della natura di tale situazione.
Se si include il soggetto tra gli argomenti di un verbo, il numero di questi va generalmente da zero a tre: si hanno dunque verbi con zero argomenti (o zeroargomentali: piovere, nevicare; ➔ atmosferici, verbi), monoargomentali (correre, dormire), biargomentali (abolire, abitare), triargomentali (dare, dedicare, ricevere). La classificazione dei verbi in base alla struttura argomentale consente di distinguere sottotipi di verbi transitivi e intransitivi: in particolare, di distinguere i verbi transitivi biargomentali (abolire la legge) da quelli triargomentali (dedicare un libro al padre) e i verbi intransitivi monoargomentali (passeggiare [nel parco]) da quelli biargomentali (abitare a Milano).
Della nozione di struttura argomentale gli studi hanno dato interpretazioni sintattiche oppure semantiche. Per Pustejovsky (1995: 62-67), ad es., essa rappresenta l’insieme dei partecipanti implicati nell’evento, alcuni dei quali possono rimanere inespressi (sottintesi, nella terminologia tradizionale). In questa accezione, la struttura argomentale di telefonare include lo strumento con cui è effettuata l’azione (il telefono); lo stesso vale per camminare (in cui lo strumento implicato sono gli arti). Che questi elementi siano davvero argomenti dipende dalla nozione di argomento adottata; che siano rilevanti linguisticamente è mostrato dal fatto che espressioni come ?Luisa ha telefonato a Paolo col telefono o ?Luca ha camminato a piedi per due ore risultano ridondanti e agrammaticali, e sarebbero possibili soltanto nel caso che lo strumento avesse ulteriori specificazioni (con un telefono satellitare, a piedi scalzi, ecc.).
Un’interpretazione ampliata della nozione di struttura argomentale è la nozione di frame semantico (Fillmore 1982). Un frame (lett. «inquadratura, cornice») semantico è la struttura cognitivo-concettuale evocata da un verbo, della quale fanno parte un insieme di partecipanti, tra cui alcuni sono argomentali e altri accessori. Per es., il frame viaggio include il viaggiatore, l’origine, la direzione, la destinazione, il percorso, il modo (o mezzo) di trasporto; elementi accessori tipicamente associati a questo frame sono la durata, la distanza, il bagaglio, lo scopo, la frequenza, la velocità, ecc. Un esempio di verbo che evoca questo frame è viaggiare:
(26) Elena ha viaggiato tutta l’Europa in treno in tre settimane con un’unica valigia.
Alle posizioni argomentali dei verbi (e anche degli aggettivi e nomi relazionali, dei quali qui non ci occupiamo) sono generalmente associati diversi tipi di informazioni, per es., i ruoli tematici (agente, esperiente, paziente, ecc.: Gruber 1965; Fillmore 1968; Dowty 1991; per l’italiano Graffi 1994: 139 segg.). Il ruolo tematico non è una caratteristica inerente degli elementi lessicali che riempiono le posizioni argomentali, ma è in genere assegnato dal verbo: per es., il bambino è agente in il bambino corre, e paziente in il bambino cade. In taluni casi, il ruolo tematico è assegnato da fattori contestuali: per es. con bagnarsi, il soggetto è agente in Luca si è bagnato per rinfrescarsi, mentre è paziente in Luca si è bagnato per la pioggia.
Una seconda informazione tipicamente connessa alle posizioni argomentali è la cosiddetta restrizione di selezione (Chomsky 1965: 95 segg.), cioè il fatto che il verbo impone delle restrizioni sugli argomenti che ammette. Per es., morire richiede soggetti animati (fatta eccezione per gli usi metaforici come mi è morto il computer), mentre cadere ammette soggetti sia animati sia inanimati: Luca è caduto in acqua, il libro è caduto dal tavolo; sterminare richiede un oggetto collettivo o multiplo, ecc. Anche le restrizioni di selezione, come i ruoli tematici, sono correlate al significato del verbo: per es., il verbo divorare seleziona cibi nel significato di «mangiare con avidità» (il gatto ha divorato le polpette) mentre seleziona documenti nel significato di «leggere appassionatamente» (ho divorato il suo ultimo romanzo).
Infine, il dibattito è aperto circa la presenza nel verbo di informazione sintattica sugli argomenti. Mentre alcuni sostengono che tale informazione è parte del suo corredo lessicale, per altri la realizzazione sintattica degli argomenti deriva in modo sistematico dalla semantica lessicale del verbo attraverso regole dette di linking («connessione»; van Valin 2005; Levin & Rappaport Hovav 2005).
Il calcolo del numero di argomenti di un verbo è complesso per più ragioni. In primo luogo, come abbiamo già notato, il numero di argomenti di un verbo può variare in funzione del suo significato, sicché, per uno stesso verbo, si danno più strutture argomentali. Per es., piovere, verbo comunemente analizzato come zeroargomentale, richiede due argomenti nell’uso figurato di «scendere, penetrare» (piove acqua dal soffitto); partire è monoargomentale in la macchina non parte («mettersi in moto») e biargomentale in il dolore parte dal naso («avere origine da»).
In secondo luogo, uno stesso elemento può essere, a seconda del verbo e del contesto, argomento in un caso o elemento accessorio in un altro: si confronti oggi ho visto Luca (in cui l’avverbio temporale oggi è elemento accessorio e può essere tralasciato senza compromettere la grammaticalità dell’espressione) con oggi ricorre il nostro anniversario (in cui oggi è un elemento obbligatorio: *ricorre il nostro anniversario non è infatti una frase grammaticale; sugli elementi accessori o circostanziali, si veda Salvi 1988).
In terzo luogo, come già notato, alcuni verbi consentono allo stesso tempo di esprimere o tacere alcuni elementi: per es., atterrare consente di non specificare la destinazione (l’aereo è atterrato in orario), scrivere consente di non specificare ciò che viene scritto (Luca stava scrivendo in cucina) e così via.
Inoltre, alcuni verbi implicano elementi che tipicamente non vengono espressi perché sono incorporati nella semantica del verbo: per es., tagliare implica uno strumento, che varia a seconda dell’entità sottoposta a taglio o ottenuta col taglio (un coltello in tagliare il pane, una forbice in tagliare i capelli, una falce in tagliare l’erba), tradurre un libro in francese implica la creazione di un nuovo libro, ecc. Si tratta di elementi squisitamente semantici, che hanno tuttavia un rilievo linguistico: per es., nel caso di tradurre, il prodotto dell’azione rappresenta il referente del nome deverbale traduzione.
Infine, è opinione condivisa che la dimensione pragmatica abbia un ruolo nel determinare il numero di argomenti obbligatori. Un elemento accessorio può diventare obbligatorio se veicola un’informazione nuova (Grimshaw & Vikner 1993; Goldberg & Ackermann 2001). Per es., in:
(27) Mario lavora da noi
da noi non può essere omesso se l’intera frase è la risposta alla domanda dove lavora Mario? (Jezek 2003: 79).
Un criterio importante per la classificazione dei verbi è quello denominato con termine tedesco Aktionsart (lett. «tipo di azione», termine coniato da Agrell 1908; in italiano, azionalità).
L’Aktionsart indica il modo in cui l’evento espresso dal verbo è presentato dal punto di vista delle fasi che lo compongono. Va distinto dall’➔aspetto, caratteristica non lessicale ma grammaticale, con il quale l’azionalità intrattiene tuttavia correlazioni importanti (verbi con determinate Aktionsart tendono a comparire in determinati costrutti aspettuali e ad escluderne altri; sull’azionalità, Vendler 1967; per l’italiano, Bertinetto 1991: 26-41).
Le principali caratteristiche in base alle quali si possono classificare i verbi dal punto di vista dell’Aktionsart sono: (a) il dinamismo; (b) la durata; (c) la presenza o assenza di un punto in cui l’evento necessariamente si conclude (tecnicamente, la sua telicità, dal gr. télos «fine»). Incrociando queste tre caratteristiche, si ottengono almeno quattro classi principali di verbi (la terminologia utilizzata di seguito è ispirata a Simone 2003, dove essa è applicata ai nomi di processo):
(a) verbi di stato (Pietro possiede due case): indicano una durata, ma nell’arco di tempo in cui l’evento ha luogo non introducono cambiamenti, sicché sono considerati non dinamici; inoltre, le fasi di cui sono composti sono omogenee, cioè sono l’una uguale all’altra, al punto da risultare indistinguibili;
(b) verbi di processo indefinito (Pietro cammina sul marciapiede): indicano una durata, ma sono dinamici, poiché nell’arco di tempo in cui hanno luogo introducono dei cambiamenti (Pietro, ad es., si sposta progressivamente); anche in questo caso, le fasi dell’evento sono omogenee, cioè una uguale all’altra (cambia la posizione di Pietro ma non la struttura temporale dell’azione, anche se i due aspetti non sono sempre nettamente distinguibili);
(c) verbi di processo definito (Pietro ha svuotato la vasca): hanno una durata e sono dinamici, ma, a differenza di quelli di processo indefinito, sono caratterizzati da una progressione dell’evento verso un punto finale, cioè il momento in cui l’evento necessariamente si conclude; in questo caso, le fasi dell’evento non sono tutte uguali: ad es., nel caso di svuotare, a ogni fase corrisponde uno stato diverso della vasca, e nel momento in cui questa è vuota, l’evento termina (sui verbi detti a tema incrementale, cfr. Dowty 1991); inoltre, se l’evento è interrotto, non si potrà dire che ha avuto luogo, proprio perché è proiettato verso un punto finale che deve essere raggiunto per essere vero;
(d) verbi istantanei (o momentanei: Pietro ha trovato le chiavi): non hanno una durata e indicano una culminazione istantanea; in questo caso il punto iniziale e il punto conclusivo dell’evento coincidono.
Oltre alle tre proprietà principali del dinamismo, della durata e della telicità, altre caratteristiche possono essere prese in considerazione per classificare il verbo dal punto di vista della sua Aktionsart. Tra queste ricordiamo:
(a) l’iteratività, presente, per es., in verbi che, pur tecnicamente puntuali, nella maggior parte dei loro usi tendono a esprimere ripetizione: è il caso di tossire (per cinque minuti); tali verbi sono detti anche semelfattivi (cfr. Smith 1991: 55 segg.);
(b) l’ingressività o l’egressività, che indicano rispettivamente l’avviarsi verso un punto o l’allontanarsene, in base a ciò che c’è prima o a ciò che viene dopo l’evento descritto dal verbo: incamminarsi, ad es., è ingressivo rispetto a camminare poiché descrive, per l’appunto, l’ingresso nel processo indicato dal secondo verbo;
(c) l’incrementalità, presente in verbi come crescere, migliorare: questi descrivono un evento costituito da una successione di stadi e presentano caratteristiche sia dei verbi a processo definito sia di quelli a processo indefinito (Bertinetto & Squartini 1995).
Da questo punto di vista, i verbi cosiddetti istantanei possono essere ripartiti in due sottoclassi a seconda che l’evento che descrivono implichi un cambiamento di stato (come nel caso di rompersi: si è rotta la sveglia per cui vale ho notato una sveglia rotta) o no (come nel caso di suonare: ha suonato la sveglia per cui non vale *ho notato una sveglia suonata).
Le caratteristiche azionali di un verbo sono a volte difficili da determinare, poiché si sommano alle informazioni portate:
(a) dal tempo verbale, il quale può presentare un evento come perfettivo (mi portò a casa) o imperfettivo (mi portava a casa; ➔ aspetto);
(b) dall’uso di perifrasi come quella progressiva (piove ~ sta per piovere; ➔ perifrastiche, strutture);
(c) dal contorno sintattico, per es., dalla presenza di un oggetto definito che delimita un processo che in sé è indefinito per quanto riguarda la durata nel tempo (si confrontino Luca disegna e Luca ama disegnare paesaggi, entrambi atelici, con Luca ha disegnato un paesaggio, telico).
In ogni caso, per stabilire quale sia l’Aktionsart di un verbo non basta affidarsi a giudizi intuitivi, ma occorrono test sintattici. Ad es., per stabilire se un verbo è stativo o non lo è, si può verificare se ammette l’➔imperativo o la perifrasi progressiva. Queste due costruzioni non sono di norma ammesse dai verbi di stato (*possiedi due case!, *stai possedendo due case). Per stabilire se un verbo dinamico è durativo o no, si può verificare se ammette di far parte di perifrasi con verbi fraseologici come iniziare (a), poiché solo i verbi durativi lo ammettono:
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a. ho iniziato a camminare
b. ho iniziato a svuotare la vasca
c. *ho iniziato a trovare le chiavi
Infine, per stabilire se un verbo è telico o no, si può verificare se ammette l’avverbiale per un tempo x oppure in un tempo / al tempo x. Soltanto i verbi che ammettono il secondo tipo di espressione sono considerati telici: quindi, Luca ha nuotato per un’ora / *in un’ora non è un’espressione telica, mentre è scoppiato un temporale *per un’ora / alle cinque lo è.
I verbi possono esser classificati anche per significato. L’operazione di identificare le cosiddette classi semantiche – gruppi di verbi aventi lo stesso tipo di significato: per es., verbi di movimento (➔ movimento, verbi di), di percezione (➔ percezione, verbi di), verbi meteorologici (➔ atmosferici, verbi), verbi impersonali (➔ impersonali, verbi), verbi psicologici (➔ psicologici, verbi) o, a un livello più astratto, verbi indicanti reciprocità (➔ reciproci, verbi), riflessività (➔ riflessivi, verbi), ecc. – è un’operazione intuitivamente semplice ma tecnicamente complessa. Per l’italiano, manca una classificazione esauriente, quale si ha per altre lingue (per l’inglese, un elenco di classi semantiche basato sulle alternanze argomentali si trova in Levin 1993, la cui versione elettronica è Verbnet: Kipper-Schuler 2005). I tentativi più avanzati sono quelli della linguistica computazionale (v. la sezione Verbi della risorsa ItalWordNet descritta in Roventini et al. 2003, e il progetto SIMPLE descritto in Lenci et al. 2000).
In generale, le difficoltà di classificazione nascono dal fatto che il significato di un verbo è composto da più elementi con diversa prominenza strutturale: alcuni aspetti del significato del verbo condizionano il suo comportamento sintattico, altri no (Levin & Rappaport Hovav 2005). Si considerino i verbi che descrivono un cambiamento di posizione, come sedersi: pur implicando un movimento da parte della persona che si siede (movimento che si può definire ‘interno’), sedersi non può essere considerato un verbo di movimento al pari di entrare e uscire. Analogo il caso di arrivare: presuppone un movimento ma ne descrive, in effetti, l’esito, costituito dal fatto che la persona arrivata si trova in un luogo diverso da quello in cui si trovava prima. È lecito quindi chiedersi se arrivare sia un verbo di cambiamento di luogo piuttosto che un verbo di movimento, e quale sia il criterio più adatto per distinguere tra le due classi (sui verbi di movimento, in prospettiva lessicale e tipologica, Talmy 1985).
Connesso al precedente, è il problema costituito dalla polisemia, intesa come la proprietà di esibire significati diversi in ambienti sintagmatici differenti (si veda la polisemia di aprire in aprire la porta, aprire una bottiglia, aprire un ristorante, aprire un dibattito, ecc.). Un verbo polisemico appartiene di norma a più classi, una per ciascun senso: vedere, per es., è un verbo di percezione in vedere una stella cadente, mentre è un verbo psicologico in non vedo il problema, la soluzione, ecc. (sui verbi di percezione in chiave tipologica, Viberg 1984). Nella tradizione lessicografica si tende a considerare come basico il significato concreto: in quest’ottica prendere, per es., vale innanzitutto «afferrare» (prendere la palla), e poi «utilizzare» (prendere il treno), «bere» (prendere una birra), ecc.
L’attribuzione di verbi a classi semantiche differenti dipende infine dalla ‘granularità’ delle classi stesse. Per es., correre e rotolare sono entrambi verbi di movimento denotanti processi indefiniti, ma si distinguono in quanto il primo denota tipicamente un’azione volontaria, mentre il secondo descrive per lo più uno spostamento involontario (cfr. Levin 1993: 264-267).
Alla luce delle considerazioni esposte, il criterio più sicuro per operare una classificazione semantica ragionata dei verbi è quello fondato sull’esame del loro comportamento sintattico. In base a tale criterio, due verbi semanticamente affini appartengono a classi diverse se esibiscono diversità nel comportamento sintattico.
Al pari di altre classi di parole, i verbi entrano spesso in espressioni composte da più parole (➔ polirematiche, parole), di cui costituiscono la base. In italiano, una classe numerosa e importante è quella dei cosiddetti verbi sintagmatici (Simone 1997; ➔ sintagmatici, verbi). Questi sono unità lessicali formate da una base verbale (semplice o pronominale) + una particella (di solito un avverbio), che formano insieme un predicato complesso caratterizzato da una ridotta autonomia sintattica dei costituenti: andare fuori, tagliare via, tirare avanti; per i pronominali darci dentro, mettercela tutta, farsela sotto.
Per quanto riguarda le proprietà semantiche, i verbi sintagmatici sono generalmente distinti in due categorie: quelli dal significato composizionale (ricavabile cioè dalla somma dei significati dei singoli costituenti (avere addosso [un bel vestito]) e quelli dove non è rintracciabile l’apporto semantico dei singoli costituenti (fare fuori [tutta la torta]). A ben vedere, tuttavia, nemmeno i casi più composizionali sono veramente composizionali. Nel caso di avere addosso, per es., il senso dell’insieme non è la pura composizione dei significati delle parti: esso è chiaramente specializzato in «indossare», data la presenza del nome vestito in posizione argomentale. In combinazione con altri nomi, il senso dell’insieme cambia:
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a. nessuno di loro aveva addosso documenti [avere addosso vale «portare con sé»]
b. ho addosso un gruppo di mastini [avere addosso vale «avere alle costole»]
Analogo il caso di buttare via, in cui il senso varia al variare del nome che riempie la posizione argomentale (oltreché del contesto situazionale):
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a. Luca ha buttato via la custodia con dentro il manuale [buttare via vale «gettare inavvertitamente»]
b. il malvivente ha buttato via la pistola [buttare via vale «disfarsi, liberarsi»]
c. non butto via il denaro, non spendo mai più di quello che ho [buttare via vale «sperperare»]
Il significato dei verbi sintagmatici, cioè, risulta modulato nel suo complesso, come avviene nel caso delle parole singole.
In italiano l’avverbio presentativo ecco ha in alcuni dei suoi usi un comportamento morfologico e sintattico affine a quello di un verbo. Per es., si collega con pronomi atoni dando luogo a forme quali eccomi, eccolo, eccone; accetta il prefisso iterativo ri- (riecco); in combinazione con un nome segnala il comparire di qualcosa (ecco la pioggia; Serianni 1997: 354-356).
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