VERCELLI
(lat. Vercellae)
Città del Piemonte, capoluogo di provincia, situata in posizione pianeggiante, sulla riva destra del fiume Sesia.
L'insediamento moderno insiste sui preesistenti nuclei antichi, sovrapponendosi all'oppidum celtico dei Galli Libicii e al successivo municipium romano di Vercellae (dal 42 a.C.). A metà del sec. 4°, V. divenne la prima sede episcopale dell'od. Piemonte; l'organizzazione ecclesiastica nella città e nel territorio fu compito precipuo del vescovo Eusebio (345-355, 361-370), al quale si devono diverse fondazioni di culto, fra cui quella dell'oratorio-martyrium di S. Teonesto, sorto nell'area cimiteriale posta fuori delle mura, a N della città. Tra i secc. 5° e 6°, quest'edificio venne sostituito dall'ampia basilica dedicata allo stesso Eusebio, con cinque navate a colonne e un atrio, di cui è nota una pianta parziale della fine del sec. 17° (Torino, Bibl. Naz., Q.I.64, dis. 26; Carità, 1994, p. 62) anteriore alle ricostruzioni barocche. L'originaria cattedrale eusebiana, dedicata alla Madre di Dio, era invece situata altrove, a ridosso della cortina orientale del castrum romano; adiacente a essa sorgeva la chiesa della SS. Trinità, a navata unica con corpo absidale triconco, demolita nel 1779.A dispetto dell'intensa attività edilizia dei presuli vercellesi, le testimonianze pervenute dei primi secoli cristiani sono relativamente modeste, come del resto quelle di epoca altomedievale, quando la curtis di V. fu probabilmente sede ducale longobarda (secc. 7°-8°) e poi comitale nell'ambito dell'impero carolingio. Dopo oltre due secoli di egemonia feudale vescovile, in età comunale (notizie di consoli dal 1141) la città si rinnovò gradualmente, con un più ampio circuito murario - che inglobava anche la chiesa di S. Eusebio, ormai divenuta cattedrale -, l'erezione di case e torri signorili (alcune parzialmente conservate), il conseguente rifacimento del tessuto urbano, le nuove fondazioni conventuali e la ricostruzione delle antiche chiese.Anche l'originaria cattedrale paleocristiana - nel frattempo ridotta a collegiata - fu allora abbattuta e riedificata in forme romaniche di grande interesse (consacrazione nel 1148), per essere infine completamente distrutta nel 1776-1777. Una serie di disegni (Vercelli, Ist. di Belle Arti; Carità, 1994, pp. 134-135) ne restituisce l'assetto medievale - assai simile a quello del S. Michele Maggiore di Pavia -, dall'impianto basilicale accorciato a croce latina, con tre navate e profondo presbiterio monoabsidato, e sistema alternato dei pilastri interni che denunciava una copertura a crociere costolonate. Il transetto era aggettante, le navate laterali sostenevano matronei, mentre la facciata a salienti si apriva in basso su un vestibolo porticato con una galleria al livello superiore. Dalla distruzione furono recuperati solamente il portale centrale (ricomposto nel giardino di palazzo Arborio di Gattinara), nonché diversi lacerti del tessellato romanico (Vercelli, Mus. C. Leone), riferibile alla metà del sec. 12°, con scene veterotestamentarie (Storie di Giuditta), cavalleresche (Monomachia, con un duellante moro) ed episodi favolistico-moraleggianti (Funerale della volpe).Nell'ambito dell'architettura romanica del sec. 12° - oltre ad alcuni campanili (S. Eusebio, S. Michele, S. Vittore), tutti ripartiti da corsi di archetti pensili - si conserva ancora la chiesa dell'originario priorato di S. Bernardo, rimaneggiata e ampliata a partire dal transetto. Nell'impianto basilicale a tre navate, soltanto le prime quattro campate sono autentiche e presentano un'insolita quanto precocissima (ca. 1164) soluzione spaziale 'a sala', con la medesima quota d'imposta per tutti gli archi delle crociere. I pilastri polistili in laterizio recano capitelli lapidei scolpiti a fogliame e a motivi zoomorfi. Il repertorio plastico superstite è integrato da appena due formelle in bassolirilievo, con un sagittario e un cervo ferito, murate nella facciata a capanna.Monumento principe dell'architettura medievale vercellese è la chiesa di S. Andrea, con i suoi annessi e pertinenze - il chiostro maggiore, sul quale affacciano la sagrestia, la sala capitolare, il parlatorio, oltre al portico della domus hospitalis - appartenuti a un complesso abbaziale, situato ai margini settentrionali della città, che in origine era a sua volta recintato e perimetrato da un canale. L'opera venne iniziata nel 1219 e completata rapidamente entro il 1227, per volontà di un mecenate appassionato, colto e munifico, il cardinale Guala Bicchieri, sostenuto nell'impresa anche dalla comunità e dal vescovo Ugone di Sesso. Egli avrebbe affidato l'abbazia alle cure dei Canonici di Saint-Victor, espressamente chiamati da Parigi, e, oltre a dotarla di un dovizioso corredo di suppellettili liturgiche e di manoscritti, alla sua morte (1226) avrebbe legato tutto il proprio cospicuo patrimonio all'istituzione.
L'assetto generale segue uno schema basilicale con transetto sporgente, tre navate ripartite da robusti pilastri lapidei a fascio secondo il sistema uniforme, abside principale a terminazione rettilinea e coppie di absidiole degradanti ai due lati. Tutte le campate risultano coperte da crociere costolonate archiacute, mentre sopra l'incrocio si eleva il tiburio a base ottagonale coperto a spicchi, che all'esterno tende ad assumere la conformazione di una vera e propria torre nolare. Le pareti si presentano spoglie, semplicemente intonacate, ravvivate però dal cotto lasciato in vista sia nelle ghiere degli archi minori di navate e transetto - mentre gli archi maggiori appaiono profilati in pietra - sia nelle spalle strombate delle finestre, oppure, alternato a conci lapidei, nelle nervature delle crociere. La decorazione pittorica, rigorosamente aniconica, è limitata al ventaglio della cuffia delle trombe angolari del tiburio e alle fasce che accompagnano i costoloni o circondano le chiavi di volta.All'esterno, la poderosa mole dell'edificio - cui appartiene anche la maestosa torre campanaria adiacente all'absidiola meridionale - è ritmata dai contrafforti e alleggerita da sequenze continue di loggette, corsi di archetti pensili intrecciati su mensoline lavorate, pinnacoli a edicola, tutti realizzati in marmo e contrapposti cromaticamente al restante paramento murario in laterizio. L'ampio prospetto a capanna, stretto alle estremità fra due svettanti campanili cuspidati, è rivestito di pietra verdegrigia di Varallo, scandito in verticale da due contrafforti a fascio e percorso in larghezza da due ordini di loggette - come sulle testate del transetto e nell'abside - sotto cui si apre il grande rosone centrale. I portali, profondamente strombati, sono arricchiti da colonnine sugli sguanci e coronati da archi a pieno centro in ghiere multiple. Due delle lunette, incorniciate da archivolti intagliati a racemi, foglie d'acanto e rosette, recano bassorilievi di impronta antelamica: in quello centrale, il meno compromesso dai restauri ottocenteschi, è rappresentata la Crocifissione di s. Andrea. Altre opere scultoree - tradizionalmente ascritte a maestranze antelamiche, ma ora più correttamente attribuite anche ad artisti campionesi e francesi - si conservano non soltanto nella chiesa (simboli degli evangelisti alla base delle trombe del tiburio; chiavi di volta; mensole figurate), ma anche presso il Mus. C. Leone (altorilievi frammentari pertinenti a un ambone smembrato, già della cattedrale di S. Eusebio, tra cui spicca la figura di un assorto Mago adorante) e, infine, nello stesso duomo, probabilmente appartenuta a quel medesimo pergamo, una statua della Vergine in trono con il Bambino (Madonna dello Schiaffo), da datare forse intorno al 1210, che sembra palesare dirette ascendenze emiliane.Nell'ambito del complesso abbaziale di S. Andrea va segnalato il grande chiostro quadrato, aperto da una serie di arcate a tutto sesto rette da colonnine marmoree raggruppate per quattro. Affacciano sul lato nordorientale l'elegante sala capitolare, a pianta quadrata, ripartita da quattro colonne con capitelli a crochets in nove campate coperte da crociere ogivali con archi e nervature in cotto, e l'ampio parlatorio (o calefactorium), di schema analogo, ma con un'unica colonna libera centrale e quattro campate con crociere ribassate a spigoli vivi.Le restanti chiese gotiche di V. - tutte fondazioni conventuali del Duecento - recano invece il segno della più schietta tradizione lombarda, per taluni aspetti non ancora del tutto emancipata dalle forme romaniche. Così, la chiesa domenicana di S. Paolo (ca. 1260), e quella di S. Francesco (iniziata nel 1292), entrambe alquanto rimaneggiate, mostrano impianti basilicali con transetto e soluzioni spaziali convenzionali, fatta eccezione per lo sviluppo ormai poligonale delle absidi (più tarde, al pari dei campanili, già quattrocenteschi). Per contro, la chiesa di S. Marco, degli Eremitani, eretta a partire dal 1266, rivela una più aggiornata concezione spaziale nell'interno a tre navate slanciate, coperte da crociere costolonate sostenute da pilastri cilindrici.
Le testimonianze della pittura bassomedievale vercellese sono sfortunatamente troppo sporadiche per poter definire i contorni di un'eventuale scuola locale sviluppatasi nell'alveo della tradizione lombarda. Due episodi notevoli, indipendenti fra loro e separati da oltre mezzo secolo, confermerebbero l'evidenza di tale impronta stilistica fra 13° e 14° secolo. Il primo è costituito dall'affresco ritrovato in un ambiente che corrispondeva alla campata terminale di destra della chiesa di S. Paolo. Si tratta di una composizione su due registri con una teoria di santi in posture frontali, ciascuno inserito entro un'arcatella, al di sopra della quale è rappresentata la Crocifissione. L'opera, riferibile alla fine del Duecento, rivela caratteri romanici attardati, anche se taluni particolari rimandano a modi francesi - le figure oltremodo allungate - e mediobizantini.Alla metà del secolo successivo va assegnato il monumento funerario gotico dell'abate Tommaso Gallo (m. nel 1246), eretto nella chiesa di S. Andrea, nella cappella destra del transetto. Per la scelta del programma iconografico, esso doveva coniugare la destinazione sepolcrale con l'intenzione celebrativa del defunto, primo superiore dell'abbazia e illustre teologo vittorino, autore dei Commentaria seu paraphrasis in S. Dionysium Areopagitam. Il monumento si compone di un arcosolio delimitato da binati di colonnette su cui s'imposta un arco trilobato dal vistoso archivolto decorato, sormontato da un'ampia cuspide: su questa è dipinta una Incoronazione della Vergine, mentre in basso, ai due lati, figurano due gruppi di angeli musicanti. Sul muro di fondo della nicchia, invece, campeggia un affresco con l'abate docente tra i monaci discenti. In ultimo, il fronte dell'urna, posta in basso a mo' di predella, reca in altorilievo una Madonna in maestà al centro, affiancata su un lato dal vescovo di Parigi s. Dionigi (all'epoca identificato con l'Areopagita) e s. Caterina d'Alessandria (patrona delle discipline filosofiche), sull'altro da s. Andrea nell'atto di presentare alla Vergine l'abate Gallo inginocchiato. Un'epigrafe, oggi perduta ma tramandata dalle fonti, ricordava i nomi degli artefici impegnati nelle parti scultoree: "Fakiriolus quatrator et frater eius Cretonarius" (Brizio, 1935, p. 22).Vanto indiscusso dell'eredità artistica medievale in V. è il patrimonio ancora cospicuo di oreficeria ecclesiastica. Nel duomo è collocato il magnifico crocifisso del tipo triumphans in lamina d'argento sbalzata, opera di un artista forse milanese: la critica più recente lo attribuisce agli anni del vescovo Leone (999-1026), figura autorevole e influente della politica ottoniana in Italia. Lamine minori, apparentemente coeve, con le rappresentazioni dell'Ascensione e dell'Anastasi, ornano rispettivamente la sommità della croce e il suppedaneo.
Di altrettanto interesse sono poi due legature di libri sempre in argento sbalzato (Vercelli, Bibl. Capitolare). Entrambe ascritte a officine lombarde, la più antica appartiene al Codex Eusebianus e - stando all'iscrizione - sarebbe stata donata alla Chiesa vercellese da re Berengario (più credibilmente Berengario II; 950-961). Sul piatto anteriore, purtroppo assai guasto nel centro, è raffigurata entro una mandorla la Maiestas Domini con i simboli degli evangelisti; sul piatto posteriore compaiono l'immagine stante di S. Eusebio, sbalzata e incorniciata da larghi bordi con tralci, e la scritta dedicatoria. L'altra legatura, più tarda di oltre un secolo, è pertinente a un evangeliario, cui i due piatti vennero appositamente adattati. Quello anteriore reca una figura cesellata di S. Michele Arcangelo, dal disegno sicuro ed elegante, mentre quello posteriore mostra una Crocifissione, in cui l'argento sbalzato è accompagnato da inserti di smalti cloisonnés, contorni in filigrana e pietre semipreziose a cabochon.Il Tesoro del duomo ospita una ragguardevole raccolta di reliquiari di epoche e fogge diverse: da quello di S. Giovanni Battista, con rivestimento in placchette eburnee lavorate al traforo, plausibile opera siciliana del sec. 11° per le evidenti connotazioni islamizzanti, a una lunga serie di manufatti in metallo sbalzato, fra cui spiccano le varie cassette-reliquiario della Vergine, del Presepio, dei Ss. Nazario e Celso - di officine lombarde del sec. 11°-12° -, fino al reliquiario di S. Caterina d'Alessandria (inizi sec. 13°), in rame dorato con smalti policromi champlevés e pietre dure di produzione limosina, da collegarsi presumibilmente al collezionismo del cardinale Guala Bicchieri.
Bibl.:
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V. fu senza dubbio un centro importante per la miniatura, non tanto forse per i manoscritti prodotti in loco, quanto per quelli arrivati da fuori, donati o lasciati in eredità da vari personaggi. Tra i primi illustri donatori vanno ricordati gli stessi vescovi di V., come Liutvardo (880-899), Attone (924-960) e Leone (999-1026), che non furono però i soli ad arricchire le biblioteche delle chiese e dei monasteri vercellesi: donarono libri, per es., l'arcidiacono Pietro di Robbio (1163), il canonico Cotta (1194), il vescovo Giacomo de Carnario (1241) e il cardinale Guala Bicchieri, che nel 1227 lasciò in eredità all'abbazia di S. Andrea, da lui fondata, addirittura un centinaio di volumi, anche miniati.La ricchezza di queste testimonianze dà la misura della vivacità culturale di V. nel Medioevo, ancora riscontrabile nelle biblioteche vercellesi e torinesi, dove restano molti dei manoscritti citati dalle fonti, ma soprattutto nella Bibl. Capitolare di V., dove si conserva un cospicuo fondo librario proveniente dal duomo e dai monasteri della diocesi. Qui è da segnalare un importante e noto gruppo di manoscritti di età carolingia, di cui fanno parte le Homiliae di Gregorio Magno (CXLVIII), dell'800 ca., l'Apollo medicus, contenente le Etymologiae di Isidoro di Siviglia (CCII), del primo quarto del sec. 9°, i Canones Conciliorum (CLXV), del secondo quarto del sec. 9°, e un salterio compreso nel manoscritto LXII, dell'ultimo quarto del sec. 9°, l'unico del gruppo scritto a Vercelli.
Nel fondo capitolare si conservano anche i manoscritti appartenuti al vescovo Leone, riconoscibili per le note autografe, e un lussuoso sacramentario eseguito a Fulda (CLXXXI), della fine del sec. 10°, portato forse a V. dallo stesso Leone. Vi sono poi codici acquistati Oltralpe, come il manoscritto (XXV) del 1150 ca., uno dei primi esemplari miniati inglesi del Decretum Gratiani, donato da Pietro di Robbio nel 1163, o il bel salterio di decorazione franco-settentrionale (LXXXVII-LXXXVIII), del 1175-1180, acquistato a Parigi dal canonico Cotta insieme ad altri manoscritti biblici glossati, lasciati poi al Capitolo nel 1194.Altri codici sono di produzione locale: per es. un messale (XLII), del 1173-1180, con vivaci iniziali figurate, e un evangelistario di lusso (C), del 1190 ca., con legatura in oreficeria, destinato al duomo - come prova la miniatura con il Martirio di s. Eusebio (f. 42) inserita entro un ciclo di storie evangeliche -, vicino per stile al c.d. rotulo di V. (senza segnatura), del 1195 ca., e a pochi altri manoscritti prodotti in loco negli stessi anni.Il rotulo di V. è un grande disegno con diciotto scene tratte dagli Atti degli Apostoli, che rileva, come informano due distici, antichi affreschi in cattive condizioni, di cui si progettava il restauro. Il disegno viene generalmente riferito all'antico duomo di V., dove secondo le fonti erano dipinte Storie di s. Eusebio e degli apostoli: esso costituisce quindi testimonianza di un ciclo scomparso e nello stesso tempo un eccezionale documento programmatico. Tra i manoscritti duecenteschi sono da citare i Libri IV Sententiarum di Pietro Lombardo (CXXV), del secondo quarto del sec. 13°, con belle iniziali e filigrane di mano inglese, e il Tractatus de medicina di Avicenna (XCVI), del 1270-1280, decorato invece secondo i modi del c.d. primo stile della miniatura bolognese.
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