vescovo
Nel cristianesimo primitivo e in molte Chiese cristiane non cattoliche, capo di una comunità di fedeli. Tale ruolo del v. emerge al principio del 2° sec. d.C. e soppianta progressivamente le altre forme di governo delle Chiese locali, come il collegio di presbiteri. Nella Chiesa cattolica, il v. è il prelato che ha il governo ordinario di una diocesi, con autorità superiore a quella dei presbiteri. L’origine dell’episcopato monarchico e la sua natura costituiscono un problema di primaria importanza, oggetto di accurate ricerche storiche e di vivace discussione non solo tra cattolici e protestanti, ma anche tra le varie confessioni riformate, essendosi queste date un ordinamento di tipo episcopale o presbiteriano. Il Concilio vaticano II ha sviluppato in misura notevole la dottrina relativa all’episcopato. Non potendosi addentrare nella questione riguardante il passaggio dagli apostoli al ministero sacramentale dell’ordine stabilmente distinto in episcopale, presbiterale e diaconale, si è limitato ad affermare: «Cristo, consacrato e mandato nel mondo dal Padre (cfr. Giovanni 10,36), per mezzo dei suoi apostoli ha reso partecipi della sua consacrazione e della sua missione i loro successori, cioè i v., i quali hanno legittimamente affidato, secondo diversi gradi, l’ufficio del loro ministero a vari soggetti nella Chiesa. Così il ministero ecclesiastico di istituzione divina viene esercitato in diversi ordini, da quelli che già anticamente sono chiamati v., presbiteri, diaconi» (Lumen gentium, n. 28). Dai testi del Nuovo Testamento, che nel loro insieme, secondo la dottrina cattolica, sono documenti storici e ispirati, risulta che gli apostoli si sono, o direttamente o accettando coloro che venivano loro proposti, scelti dei collaboratori nel loro ministero. Nonostante una certa diversità di organizzazione nelle comunità primitive, coloro che le dirigevano, quando gli apostoli, che avevano una caratteristica unica, erano ancora vivi o dopo la loro morte, furono chiamati presbỳteroi-epìscopoi. Ricevendo il ministero o direttamente dagli apostoli o dai loro successori, venivano collegati alla missione e all’autorità del signore stesso, a cui per loro tramite le comunità si sottomettevano. La scarsità dei documenti non permette di precisare i passaggi verificatisi. Mentre nella seconda metà del 1° sec. sembra che per opera degli apostoli, dei loro collaboratori immediati e dei loro successori si siano costituiti collegi locali di presbiteri e v., al principio del 2° sec. la figura del v. unico, a capo di una comunità in cui ci sono presbiteri, diaconi e laici, balza evidente dalle lettere di s. Ignazio di Antiochia, il quale afferma che tale istituzione si trova stabilita fino ai confini della terra (Lettera agli Efesini 3,2). L’ordinazione con l’imposizione delle mani è ritenuta necessaria per la successione nel ministero e per la tutela della tradizione apostolica. L’impostazione cultualistica del sacerdozio, iniziatasi piuttosto presto, portò gradatamente a una visione staccata dei poteri di ordine e di giurisdizione e a considerare il v. come colui che detiene soprattutto una pienezza di giurisdizione nella sua diocesi, ricevuta secondo alcuni dal papa. Il Concilio di Trento, definendo la sacramentalità dell’ordine, si limitò a dichiarare che i v., quali successori degli apostoli, sono al vertice della gerarchia ecclesiastica e quindi superiori ai presbiteri, senza dire nulla sulla sacramentalità dell’episcopato e sull’origine della sua giurisdizione. Il Concilio vaticano II collegando, con la precisazione anche delle differenze, il collegio episcopale al collegio degli apostoli e a Cristo, ha insegnato che «con la consacrazione episcopale viene conferita la pienezza del sacramento dell’ordine» (Lumen gentium, n. 21), per la quale a chi la riceve deriva direttamente da Cristo, in tutta la sua portata, la potestà di insegnare, santificare e governare. Questa triplice funzione pastorale dev’essere esercitata «per sua natura» nella comunione gerarchica col collegio episcopale e il suo capo, il v. di Roma. Si diventa membri di questo collegio «in virtù della ordinazione episcopale e mediante la comunione col capo del collegio e con le membra» (Nota explicativa praevia, n. 2). Il v. di Roma, vicario di Cristo, successore di Pietro, capo del collegio episcopale e pastore universale, «è il perpetuo e visibile principio e fondamento della unità sia dei v. sia della moltitudine dei fedeli» (Lumen gentium, n. 23), e «ha sulla Chiesa la potestà piena, suprema e universale, che può esercitare sempre liberamente» (ibid., n. 22) per il bene dei fedeli. Il collegio episcopale, «insieme col suo Capo il Romano Pontefice e mai senza questo Capo, è pure soggetto di suprema e piena potestà sulla Chiesa universale, sebbene questa potestà non possa essere esercitata se non consenziente il Romano Pontefice» (ibid., n. 22). Mentre la potestà strettamente collegiale viene esercitata nel concilio ecumenico in modo solenne e quando il capo del collegio chiama i v. sparsi per il mondo a un’azione collegiale o almeno approva o liberamente accetta la loro azione, la collegialità trova una vasta gamma di fruttuose applicazioni in quella «sollecitudine per tutte le Chiese» inerente a ogni membro del collegio. Espressioni significative di questa sollecitudine, non esercitata con atti giurisdizionali, sono le conferenze episcopali a livello regionale, nazionale e continentale e il Sinodo dei v., istituito da Paolo VI. Fermo restando il diritto del romano pontefice di nominare liberamente i v. e di conferire loro l’ufficio, e salva la disciplina delle Chiese orientali, le conferenze episcopali almeno ogni triennio trattano sotto segreto degli ecclesiastici degni d’essere promossi all’ufficio episcopale e propongono alla Sede apostolica i nomi dei candidati, secondo le norme stabilite dalla Santa Sede.