Vicino Oriente antico. Il comportamento
Il comportamento
di Wilfred G. Lambert
Nella Mesopotamia antica, come in ogni altra civiltà, la condotta dell'uomo era soggetta a restrizioni e, in certa misura, disciplinata. I presupposti teorici a fondamento del comportamento sono rintracciabili nella produzione letteraria mesopotamica: i miti della creazione, nonostante le numerose e sostanziali differenze, affermano che, prima della comparsa della razza umana, gli unici esseri viventi dell'Universo erano gli dèi, i quali avevano, in seguito, creato gli uomini, ponendoli al proprio servizio (v. cap. XVI, par. 1). Questa concezione stabiliva dunque, fin dall'inizio, una limitazione molto netta riguardo alla condotta umana: la realizzazione di sé o l'appagamento non erano consentiti agli uomini qualora tali aspirazioni fossero in conflitto con la volontà delle divinità.
Se questo era il principio fondamentale, elaborato dall'élite intellettuale della società, nello svolgimento della vita pratica esisteva, invece, una sorta di consenso di massima riguardo a ciò che rappresentava un comportamento accettabile oppure no, e tale consenso era rafforzato (almeno in teoria, e spesso anche in pratica) dai provvedimenti dei governanti e tramandato oralmente nell'ambito della famiglia e della cerchia di conoscenze.
Da un lato, dunque, esistevano le razionalizzazioni degli eruditi, documentate nei miti della creazione, dall'altro le reali consuetudini, dettate dalla tradizione e modificate nel corso del tempo, a seconda delle circostanze. Le usanze tradizionali furono spiegate, a loro volta, nella mitologia, come derivanti dalla volontà degli dèi; si riteneva, infatti, che in origine gli esseri umani fossero vissuti nella barbarie, come gli animali e, in seguito, le divinità avessero fornito loro uno schema completo della struttura sociale e li avessero così civilizzati. Nei miti sumerici si racconta del dono dei me: ciascun me, assimilabile a una sorta di idea platonica, rappresentava il modello ideale di particolari settori e attività della società.
Allo stesso modo, la Lista reale sumerica inizia con la consegna della regalità al genere umano da parte del cielo, e quando, a causa di un grande diluvio, l'istituzione della regalità andò perduta in seguito alla distruzione della razza umana, essa dovette essere inviata dal cielo una seconda volta per garantire un'adeguata organizzazione dei superstiti e della loro progenie. Questa stessa dottrina è espressa in greco da Beroso, un sacerdote babilonese contemporaneo di Alessandro Magno, che fondò una scuola nell'isola di Coo, nella quale insegnava ai Greci i costumi degli antichi Babilonesi. Egli racconta che, dopo la creazione del genere umano, per un certo periodo, una strana creatura chiamata Oannes emerse ogni giorno dal 'Mar Rosso' (il Golfo Persico) e insegnò agli uomini i principî della civiltà in modo talmente completo che non fu mai necessario aggiungere nulla di nuovo.
Ciò che le divinità ordinavano al genere umano era dunque stabilito chiaramente dall'inizio, almeno in teoria. Nel caso dell'istituzione della regalità, una tale forma di governo non era concepita come il risultato dell'elaborazione di un'esperienza maturata da una specifica società per venire incontro alle proprie esigenze ‒ adatta quindi a quelle particolari condizioni ‒ ma piuttosto come qualcosa che era stato donato agli uomini dagli dèi.
Tale concezione eliminava in gran parte i contrasti presenti in un mondo politeistico. Allo stesso modo, essendo la civiltà mesopotamica principalmente urbana si riteneva che, al principio, gli dèi avessero decretato che l'uomo doveva vivere in città. Nella composizione letteraria babilonese intitolata Teodicea, un personaggio, che sostiene la posizione ortodossa, dialoga con un uomo la cui vita è segnata da sfortune e sofferenze; egli manifesta la sua intenzione di sfuggire alle proprie disgrazie abbandonando la vita di città e andando a vivere come un vagabondo. Il personaggio che incarna l'ortodossia lo rimprovera immediatamente per il suo proposito empio: abitare in città non era semplicemente una delle opzioni possibili, bensì un comportamento che era stato ordinato al genere umano dagli dèi.
Nel mito sumerico Inanna ed Enki è elencata una lista di me, che comprendeva originariamente più di 100 voci, di cui non tutte sono conservate. La lista inizia con ciò che rappresenta per noi una strana mescolanza di cariche ufficiali politiche e religiose, tra cui "il trono regale" (5), l'"autorità regale" (10) e altri me che facevano riferimento al governo dello Stato. Nel suo complesso si propone di fornire un elenco esaustivo degli aspetti caratteristici della società umana e include sia gli elementi che consideriamo positivi sia quelli che reputiamo negativi. Sono, infatti, elencate di seguito "frode" e "giustizia" (55-56) e sono nominate la "calunnia" e la "falsità" (42, 60). Funzioni naturali del corpo umano, quali "rapporti sessuali" e "baciare", precedono immediatamente un'attività socialmente condizionata come la "prostituzione" (37-39). Sono elencati i mestieri, che noi consideriamo il risultato dell'ingegnosità degli uomini e della loro capacità di sperimentazione, tra i quali, per esempio, l'"arte dello scriba", l'"arte del fabbro", la "lavorazione del cuoio" (65-72). Sono registrati anche certi aspetti del comportamento umano come "litigare" (89). In alcuni casi le ragioni per cui alcune voci sono state incluse nell'elenco non sono immediatamente chiare; nella coppia "accendere un fuoco" e "spegnere un fuoco" (83-84), per esempio, se il primo elemento può essere considerato un fattore di grande progresso nell'esistenza dell'uomo primitivo, il secondo concerne, invece, una questione pratica che non riveste alcuna particolare importanza culturale. Sembrerebbe quindi che la voce "spegnere un fuoco" sia frutto di un'elaborazione intellettuale intesa a formulare una coppia di elementi nell'elencazione, piuttosto che derivare da una riflessione sull'esperienza della vita reale.
Questa lista di me si proponeva chiaramente di fornire un quadro esauriente della società umana e delle sue attività, con uno scarso interessamento per la morale intesa in senso giudaico-cristiano. La società umana era concepita, infatti, come un insieme di istituzioni sociali nel quale i concetti di bene e di male facevano soltanto sporadiche apparizioni; non sembra esistesse un imperativo morale.
Nella Teodicea è confermato il concetto che il bene e il male furono dati al genere umano, in origine, insieme a tutti gli altri principî di civiltà. L'uomo colpito dalle disgrazie si lamenta di essere perseguitato da criminali; il personaggio che incarna l'ortodossia, quando non può più negare la verità di quanto è affermato e dopo che tutti gli altri suoi tentativi di spiegazione si dimostrano insufficienti, dichiara, infine, che quelle cose sono successe perché in principio, quando gli dèi crearono la razza umana, "le donarono la menzogna e non la verità" (riga 280). La "menzogna" è uno dei me contenuti nel mito sumerico analizzato precedentemente, tuttavia l'autore del dialogo babilonese altera il concetto sumerico nel senso che lo scrittore sumerico avrebbe scritto "la menzogna e la verità" e non "la menzogna e non la verità". Questa alterazione è chiaramente significativa.
Per quanto riguarda queste tematiche, il mondo giudaico-cristiano differisce da quello sumero-babilonese principalmente sotto due aspetti: in primo luogo, la scoperta dei mestieri è attribuita a personaggi specifici dei tempi antichi, una conclusione che il pensiero scientifico moderno accetta in linea di principio. In secondo luogo, il male morale non è attribuito a Dio ma al peccato dei nostri progenitori nel giardino dell'Eden, una posizione che non ha nessuna relazione con il pensiero scientifico moderno. Il concetto sumero-babilonese secondo il quale il male morale esiste perché gli dèi stessi hanno creato gli uomini con una tale propensione è abbastanza logico, ma produce un dilemma spirituale: la convinzione che siano state le divinità a infondere il male morale nel genere umano implica, infatti, una giustificazione di ciò che è moralmente sbagliato. Per l'autore del dialogo babilonese questo aspetto era una delle questioni di maggiore importanza e ne fece il punto culminante della sua opera. Dopo aver discusso ed essersi trovati in disaccordo fin dall'inizio, l'uomo sofferente e il personaggio che incarna l'ortodossia sono infine perfettamente d'accordo sul fatto che le divinità hanno creato l'uomo incline alla menzogna e non alla verità, e il dialogo termina senza ulteriori discussioni.
Ciò che è stato illustrato fin qui è una razionalizzazione, in base alle nostre conoscenze, dei principî della condotta dell'uomo elaborati dai Sumeri e dai Babilonesi. In questo campo, come peraltro in quello della teologia (v. cap. III, par. 1), il pensiero sumerico, più antico, tende maggiormente alla razionalità, mentre quello babilonese, più tardo, fa qualche concessione in più ai sentimenti umani e alle emozioni.
La 'sapienza'
Nella vita reale dell'epoca, le effettive norme morali a cui attenersi erano riconosciute nell'ambito della vita comunitaria. I codici giuridici (v. par. 3), quando esistevano, non si proponevano di regolamentare quegli aspetti della società le cui consuetudini, accettabili o no, erano note a tutti. Ogni cittadino doveva conoscere i principî fondamentali su cui si basava la società, quali, per esempio, non rubare, non commettere omicidio, onorare i genitori, non rompere un patto per il quale ci si è impegnati volontariamente. I tribunali emettevano le loro condanne in relazione a tali questioni sulla base di valori tradizionali, tramandati oralmente. Di solito operava un intero gruppo di magistrati, cosa che consentiva di attingere a una saggezza collettiva, ottenuta per accumulazione e fondata su quei valori.
I testi che insegnavano precetti di questo tipo circolavano oralmente; anche i semplici proverbi potevano servire per inculcare il senso del bene e del male; inoltre, alcuni brani letterari più estesi, ma ancora abbastanza corti da poter essere imparati a memoria, fornivano insegnamenti morali più particolareggiati ed espliciti. Una parte di questo materiale ebbe un'ampia diffusione e non rimase limitato alla sola Mesopotamia, come si verificherà, per esempio, con i proverbi e le favole di Esopo, che hanno spesso un contenuto morale.
I testi scritti di questo genere sono di solito denominati 'sapienza'. Le opere compilative tradizionali di questo tipo erano spesso attribuite a qualche saggio famoso, che se ne sarebbe servito per istruire il figlio. Esiste una raccolta di proverbi in sumerico attribuita a Shuruppak, il quale poi la tramandò al figlio Ziusudra, l''eroe del diluvio'. Le prime copie documentate risalgono al 2500 ca., ma ci sono pervenuti esemplari in sumerico di epoca più tarda; nel II e nel I millennio ne circolarono traduzioni in babilonese. Si diffusero anche diverse raccolte di materiali di questo genere in aramaico e in altre lingue attribuite a un certo Ahiqar, che sarebbe stato consigliere dei re assiri Sennacherib ed Esarhaddon, sebbene finora le fonti assire non abbiano restituito alcun materiale concernente questo personaggio e la sua sapienza. Inoltre, nel periodo paleobabilonese (XIX-XVI sec.), circolava un gran numero di raccolte sumeriche di proverbi non attribuite ad alcun autore e, nei secoli successivi della civiltà assiro-babilonese, alcune di esse sopravvissero in versione bilingue, con la traduzione in babilonese. Non ci è pervenuto molto riguardo alle raccolte di proverbi esclusivamente babilonesi, e questo senza dubbio riflette l'atteggiamento che gli scribi babilonesi avevano nei confronti della materia; essi non erano affatto interessati, infatti, a redigere e a far circolare in forma scritta ciò che chiunque poteva sentire anche dalla bocca degli analfabeti a ogni angolo di strada. Anche per quanto riguarda le raccolte di proverbi sumerici sorge spesso il sospetto che il materiale in nostro possesso rappresenti una selezione operata in ambito letterario piuttosto che l'espressione immediata della saggezza popolare. Vi sono poi altri testi sumerici e babilonesi di analogo contenuto, tra cui l'esempio più significativo è forse la raccolta babilonese nota con il titolo Consigli di sapienza.
In questo genere di letteratura gli insegnamenti di carattere etico costituiscono soltanto una piccola percentuale; se abbondano, infatti, le osservazioni acute sulle debolezze del mondo in generale e le facezie su qualsiasi argomento, le esortazioni a vivere moralmente sono, invece, meno frequenti. Anche gli ammaestramenti impartiti dai padri ai figli tendono soprattutto a fornire consigli su come badare a sé stessi e proteggere i propri interessi piuttosto che su ciò che noi chiameremmo condotta morale; persino quando ci si riferisce alla condotta morale ne è spesso sottolineato l'aspetto egoistico. Nel cap. XXXIV degli Insegnamenti di Shuruppak, per esempio, si dice "Non sedere [da solo] in una stanza con una donna sposata", non volendo tuttavia raccomandare di sfuggire alla tentazione, ma sottintendendo piuttosto di evitare il rischio di essere accusato di adulterio, in quanto questo avrebbe potuto avere gravi conseguenze. Il capitolo successivo, "Non attaccar lite con nessuno; non umiliarti", fornisce esplicitamente consigli pratici privi di alcun contenuto morale, e gli stessi temi compaiono anche nei capitoli XXII-XXIII: "Non indugiare sul luogo dove si svolge un litigio. Non comparire come testimone di un litigio". Il criterio adottato non è tanto quello della responsabilità pubblica, ma quello dell'istinto di conservazione. L'opera babilonese Consigli di sapienza approfondisce questo concetto: "Non frequentare i tribunali, non indugiare nel luogo dove si svolge un litigio, poiché nel corso della lite ti faranno fare da arbitro, e quindi diventerai il loro testimone". L'ulteriore elaborazione dell'argomento è poi seguita da "Non restituire il male che ti viene fatto da chi è in lite con te, contraccambia chi ti reca offesa con la bontà, mantieniti giusto nei confronti del tuo nemico, sorridi al tuo avversario" (righe 31 segg.). Non si tratta di un'anticipazione del biblico 'discorso della Montagna', ma di una serie di consigli pratici per tenersi lontano dai guai. Di tanto in tanto però i Consigli di sapienza prendono in considerazione anche quegli aspetti della condotta dell'uomo che noi definiremmo etici, per esempio: "Dona cibo da mangiare, birra da bere, concedi ciò che ti viene chiesto, provvedi al sostentamento e rispetta i tuoi impegni. In questo modo il dio degli uomini si compiace, Shamash si compiace e li ricompenserà concedendo loro la propria benevolenza. Compi azioni caritatevoli e accorda favori ogni giorno" (righe 61 segg.). Anche in questo caso, però, si sottolinea che essere caritatevoli avrebbe consentito di ricevere un'adeguata ricompensa.
Divinità e comportamento umano
Tutte le divinità s'interessavano, naturalmente, al comportamento di chi le adorava, ma alcune prestavano una particolare attenzione alla condotta degli uomini. Shamash, il dio del Sole, era una di queste, per due motivi: in primo luogo era il dio della giustizia e ogni questione di carattere forense era di sua competenza; secondariamente, durante il suo percorso giornaliero attraverso il cielo, egli era testimone di tutti gli eventi, ed era considerato il protettore di coloro che si trovavano in una situazione di isolamento e lontani da tutti. Un lungo inno babilonese di 200 versi a lui dedicato, contiene una sezione di 40 versi nella quale s'illustrano i comportamenti umani considerati riprovevoli; nell'elenco di coloro che compiono azioni da biasimare sono inclusi i ladri, coloro che giurano sul suo nome con superficialità, chi desidera la moglie del proprio vicino, le persone sleali, i giudici corrotti, i mercanti senza scrupoli e i mercanti che usano pesi e misure alterati. Se escludiamo il giuramento nel nome del dio, tutte le altre sono questioni di pertinenza di un tribunale, ossia non vi sono questioni riguardanti la religiosità personale o la santità. Nel mondo semitico, tuttavia, Shamash era l'unica divinità comunemente considerata in grado di fornire la chiave per discernere il bene dal male. In una iscrizione reale di epoca paleobabilonese l'assoluta rettitudine di Kudur-Mabug, sovrano di Larsa, è sintetizzata in questa frase: "Non fece mai ciò che non è gradito a Shamash"; in una lettera dello stesso periodo, la persona che scrive si lamenta di un maltrattamento ricevuto con queste parole: "Ciò che non è gradito a Shamash, ecco ciò che mi ha fatto!", senza specificare esattamente la natura dell'azione. Questa formula "gradito/non gradito a Shamash" alla fine si estese anche al mondo di lingua aramaica, nei Detti di Ahiqar, a testimonianza di quanto fosse popolare e diffusa.
Il dio del Sole rappresentava una fonte di moralità chiara e diretta, mentre altri aspetti del mondo babilonese non si mostravano altrettanto trasparenti e risultavano quindi, in un certo senso, minacciosi. I Consigli di sapienza dedicano particolare attenzione alla questione delle parole dette avventatamente, in quanto, una volta pronunciate, non potevano più essere ritirate e producevano il loro effetto, buono o cattivo che fosse. Vi sono delle similitudini con le benedizioni e le maledizioni di cui si parla nell'Antico Testamento le quali, allo stesso modo, una volta proferite non potevano essere modificate o ritirate. Questo aspetto del pensiero antico era basato sulla convinzione che agissero nel mondo forze soprannaturali distinte dagli dèi personificati. Per i Sumeri e i Babilonesi i destini erano un insieme di leggi in base al quale funzionava tutto l'Universo, e sia gli dèi sia gli uomini vi erano sottoposti. I teologi ritenevano che tali leggi potessero essere modificate o da un'assemblea di tutti gli dèi, oppure dai più potenti tra loro, i quali, proprio in virtù di questo potere, erano in grado di dominare i destini. Sul piano meno strettamente teologico, l'esistenza di tabù e di divieti era ampiamente accettata; essi erano sempre validi, ed era possibile sottrarvisi, attenuarli, oppure espiare la colpa di averli infranti soltanto attraverso pratiche magiche o di culto. In linea di principio, tutti gli aspetti della vita di una persona potevano essere sottoposti a vincoli di questo tipo; tuttavia mentre abbiamo numerose testimonianze a riprova di quali restrizioni, anche gravi, tali regole imponessero alla vita dei sovrani, non possediamo una documentazione che ci consenta di valutare in che misura questa disciplina fosse estesa alla massa della popolazione. La gravidanza e il parto, per esempio, rendevano sicuramente le madri babilonesi ritualmente impure, però non sappiamo quanto faticoso fosse il processo di purificazione, e nemmeno se l'impurità della donna potesse contaminare persone e cose, rendendo necessarie ulteriori pratiche purificatorie. Allo stesso modo, esistevano giorni fausti e infausti nel mese per compiere qualsiasi genere di attività (Tav. II).
A quanto sembra, i sovrani seguivano le indicazioni dei loro dotti consiglieri in merito a tali questioni, e organizzavano le proprie attività in modo da adeguarsi alle restrizioni relative al calendario.
Non sappiamo tuttavia se la gente comune fosse altrettanto rispettosa e nemmeno se avesse realmente accesso a informazioni di questo tipo. Certamente le principali ricorrenze religiose erano note a tutti e in generale erano osservate, anche se la gente comune non partecipava alle pratiche di culto che si tenevano nel tempio; in questi casi però si trattava di giorni sacri o di giorni festivi, cioè di qualcosa di diverso dai tabù, che potevano dimostrarsi anche molto opprimenti.
Tabù e divieti
La magia e la stregoneria erano comprese tra le forze soprannaturali in cui credevano i Babilonesi e i Sumeri; gli incantesimi elaborati per contrastare gli effetti di queste forze erano tra i testi di carattere religioso più comuni, e andavano dalla semplice formula magica a composizioni letterarie più articolate. Tradizionalmente la responsabilità di tutte le malattie e le disgrazie era attribuita ai demoni, alle ombre dei morti insepolti e ad esseri umani malvagi, ed esistevano di conseguenza incantesimi adeguati, cui si associavano alcuni rituali, per sottrarsi ai loro influssi o per sconfiggerli. Intorno al 1000 comparve, nell'ambito di questa categoria, il rituale māmītu, letteralmente 'giuramento', ma anche 'divieto' o 'maledizione', inteso anche come una sorta di potere demoniaco. Nella serie di incantesimi Šurpu ("combustione"; v. cap. IV, par. 4) è dato largo spazio al rituale māmītu. Questi rituali sono in relazione con la condotta dell'uomo e servono a purificarlo da un comportamento sbagliato. Le violazioni cui si fa riferimento differiscono, però, da quelle sulle quali ci si è soffermati finora, in primo luogo poiché si tratta di peccati che possono essere stati commessi inconsapevolmente; in secondo luogo, per il fatto che non è fatta distinzione tra violazioni di ordine morale e di ordine rituale. Per esempio, rispondere 'sì' invece che 'no', oppure 'no' invece che 'sì', e calunniare qualcuno vengono immediatamente dopo l'assunzione di cibo reso tabù da un dio o da una dea (II 5-7); "mangiare cibo rubato" e "orinare nel fiume" sono posti sullo stesso piano (III 58, 63). Lo Šurpu fornisce un elenco di questo tipo di trasgressioni, rivelando quindi quali aspetti della condotta dell'uomo erano considerati riprovevoli; talvolta si riscontrano parziali coincidenze con alcuni dei comportamenti non graditi a Shamash ‒ per esempio l'uso di pesi e di misure alterate da parte dei mercanti ‒ ma le differenze sono assai più notevoli e la divinità che sovrintende a tali comportamenti non è Shamash ma Marduk, tradizionalmente deputato alla magia e agli incantesimi.
In precedenza si è operata una distinzione tra le teorizzazioni degli eruditi, elaborate sulla base della condotta degli uomini, e i reali standard di comportamento in vigore nella società umana. Nello Šurpu assistiamo a una sistematizzazione intellettuale dei tabù primitivi; non vi è alcun motivo per ritenere che l'inno babilonese a Shamash e lo Šurpu rappresentino due tipi di religiosità distinti e diversi. Il primo si occupa di questioni che potrebbero essere di competenza di un tribunale, il secondo di quelle forze primordiali che allora si riteneva agissero nell'Universo; certamente i Sumeri e i Babilonesi accettavano in certa misura come reali entrambi questi aspetti.
Tuttavia si ritiene che lo Šurpu sia stato redatto soltanto più avanti nel corso del II millennio, e il fatto stesso che sia stata operata questa sistematizzazione dimostra un interesse maggiore, rispetto al periodo precedente, nei confronti di queste forze primordiali. È possibile dunque che la compilazione dello Šurpu sia testimonianza di un cambiamento nel modo di pensare in atto in quel periodo. Sappiamo che i re assiri del VII sec., erano a volte tormentati da paure superstiziose; non ci risulta invece che questo succedesse ai sovrani del periodo precedente. Tale differenza comportamentale, però, può dipendere da lacune nella documentazione; è possibile che nel corso dei secoli questa civiltà abbia sviluppato un maggiore interesse nei confronti della superstizione e che il comportamento ne sia stato influenzato.
Per quanto riguarda il comportamento relativo alla sfera sessuale, sappiamo che, come in altre società dell'Antichità, la condotta delle donne era, almeno in teoria, rigidamente disciplinata: dovevano rimanere vergini fino al matrimonio ed essere poi fedeli al loro consorte. Per gli uomini le regole non erano così rigorose, anche se avere rapporti con una donna libera non sposata, o con la moglie libera di qualcuno, era considerata una trasgressione grave. La prostituzione era diffusa e in realtà, sotto certi aspetti, anche incoraggiata attraverso il culto della dea Inanna/Ishtar, protettrice della sessualità degli uomini e degli animali; talvolta però troviamo anche espressioni di disapprovazione riguardo a questa pratica.
Poiché si riteneva che dopo la morte tutti quanti discendessero in un aldilà orribilmente angoscioso, senza differenziazioni, le punizioni previste per un comportamento scorretto si ricevevano soltanto in questa vita. Sebbene uno dei poemi epici sumerici su Gilgamesh affermi che determinate imprese compiute in vita potevano permettere di ottenere una posizione leggermente migliore nell'oltretomba, non sembra che si trattasse di un'opinione largamente condivisa e, in ogni caso, non era sufficiente ad attenuare l'orrore che ispirava l'aldilà.
Per fare giustizia dunque si doveva agire in questa vita. I tribunali e le diverse divinità si occupavano delle procedure opportune, tuttavia l'esperienza pratica obbligava ad ammettere che, in alcuni casi, azioni chiaramente criminose restavano impunite; oppure che esistenze assolutamente rette sembravano essere ricompensate con gravi e prolungate sofferenze. Questi 'Giobbe babilonesi' raccontarono le proprie sventure in forma letteraria, senza tuttavia riuscire a risolvere il dilemma. Un autore più audace osò suggerire che in realtà agli dèi non interessa affatto la condotta degli uomini e che quindi essi dovrebbero praticamente ignorarli. Di questa opera arguta, intitolata Dialogo del pessimismo, furono fatte copie, per quanto ne sappiamo senza restrizioni, fino alle epoche più tarde; non sappiamo tuttavia come essa fu accolta dalla maggioranza, apparentemente ortodossa, della popolazione.
di Maurice Gilbert
I testi biblici presentano un vasto ambito comportamentale che non era regolato né dalle ingiunzioni imposte dai codici giuridici né dalle implicazioni del culto e della religione; in questo contesto di quotidianità più ordinaria, era necessario per l'uomo poter trovare il proprio cammino. I libri della 'sapienza' costituirono la risposta a questa richiesta; in essi venne registrato un sapere degno di essere trasmesso per illuminare e far riflettere chiunque cercasse la propria via.
Nella Bibbia ebraica vi sono tre libri che appartengono a questa categoria di scritti: i Proverbi, il libro di Giobbe e il libro di Qoelet (Ecclesiaste). La Bibbia greca, la Settanta, ha aggiunto loro due libri: il Siracide (Ecclesiastico) e il libro della Sapienza di Salomone.
Oltre a questi cinque libri di argomento specificamente sapienziale, molti altri testi della Bibbia ebraica, della Settanta e del Nuovo Testamento s'iscrivono nella stessa corrente: per esempio, il racconto del giardino dell'Eden in Genesi, 2-3, i brevi racconti o novelle di Rut, Giona, Tobia, Giuditta, Ester e Susanna e la descrizione del regno di Salomone contenuta in I Re, 3-11. Altre narrazioni assimilabili a quelle sapienziali sono il racconto di David e Abigail (I Samuele, 25) o quello di Roboamo, causa della scissione del regno (I Re, 12). Vi sono anche favole, come l'apologo di Iotam (Giudici, 9); enigmi, come quello di Sansone (Giudici, 14); parabole, come quella di Natan (II Samuele, 12) e soprattutto quelle di Gesù nei Vangeli (Matteo, 13; Marco, 4); raccolte di sentenze, come in Tobia, 4 o in Matteo, 5-7 (il Discorso della montagna); un insegnamento, come la lettera di Giacomo e alcuni salmi che contengono riflessioni sul senso dell'esistenza (Salmi 73; 139) o, ancora, le contestazioni profetiche della sapienza troppo pretenziosa dei re (Isaia, 19, 11-15; Geremia, 9, 22-23; Ezechiele, 28), per citare soltanto i testi principali.
La corrente sapienziale percorre di fatto l'intera Bibbia. La 'sapienza' biblica costituisce l'ultima rappresentante di una tradizione culturale e letteraria documentata nel Vicino Oriente antico, dalla Mesopotamia all'Egitto, la quale si è trasmessa in forma scritta fin dal III millennio. Sebbene si inserisca in un contesto culturale più ampio, la sapienza biblica svilupperà tematiche proprie. Per comprendere la conoscenza biblica legata al comportamento, saranno analizzati, in ordine cronologico, i cinque libri sapienziali fondamentali.
Il libro dei Proverbi
Il libro dei Proverbi è il più antico dei cinque e riunisce sette collezioni di proverbi anteriori all'esilio babilonese del VI secolo. Due di queste collezioni furono costituite dal potere regale, da Salomone (10-22, 16) e dagli uomini di Ezechia (25-29); altre due sono attribuite a saggi anonimi (22, 17-24, 34); due collezioni più brevi, quelle di Agur (30, 1-14) e di Lemuel (31, 1-9), sembrano aver avuto origine al di fuori del popolo di Israele, mentre l'ultima, senza titolo (30, 15-33), contiene una serie di proverbi numerici. Il tutto fu riunito probabilmente all'indomani dell'esilio, insieme a un'introduzione, nella quale entra in scena per tre volte la figura della sapienza. La conclusione presenta il ritratto della padrona di casa, esempio perfetto del saggio (31, 10-31).
Le sette collezioni di proverbi sono tutte composte da brevi frammenti riuniti senza ordine apparente. Le due collezioni reali sono formate da semplici proverbi scritti in distici: una caratteristica tipica dell'espressione sapienziale. Gli autori delle raccolte si sono espressi assai di rado e in maniera frammentaria riguardo al processo intellettuale che li ha condotti a scrivere proverbi e a inserirli in una raccolta. Il testo più esplicito a questo proposito si legge nella seconda collezione: "Sono passato vicino al campo di un pigro/ alla vigna di un uomo insensato:/ ecco, ovunque erano cresciute le erbacce […]/ Osservando, riflettevo/ e, vedendo, ho tratto questa lezione" (24, 30-34).
La prima qualità necessaria al saggio è il dono dell'osservazione: egli osserva il mondo della Natura e il suo rapporto con quello degli uomini. Anche se nel testo appena citato sembrerebbe che al saggio sia stata sufficiente una sola osservazione, è più verosimile pensare che l'osservazione sia stata ripetuta varie volte; il 'pigro' e l''insensato' sono infatti figure generiche che il saggio identifica dopo aver osservato a lungo il loro comportamento. Lo stesso accade quando il saggio scrive: "La tramontana porta la pioggia" (25, 23). Questa osservazione è valida per il paese di Israele, ma per riuscire a formulare questo principio, egli avrà dovuto concentrare l'attenzione sulla ripetizione dei due fenomeni naturali. Il rapporto di successione si trasforma quindi in un legame di causa ed effetto; il saggio giunge a una tale affermazione mediante molteplici osservazioni che portano alla stessa conclusione.
Una volta constatato e accertato questo legame, il saggio deve trarne una regola di condotta. Se il campo del pigro è divenuto improduttivo, una prima conseguenza sarà che il pigro si troverà di fronte alla penuria di cibo; ipotizzare una tale conseguenza è una scommessa sul futuro, che è garantita, però, dal fatto che il saggio ne ha osservato molte volte la rispondenza al vero. Il legame fra l'osservazione del campo del pigro e la penuria di cibo che lo attende è reso possibile solamente da una riflessione del saggio, in quanto egli riflette e trae un insegnamento dalla propria riflessione.
Compiuto questo processo, il saggio deve esprimere le sue conclusioni in forma letteraria, che sia gradevole all'orecchio per ritmo, musicalità e concisione. Tutti i proverbi del mondo, siano essi trasmessi oralmente o per iscritto, sono sottoposti a queste stesse esigenze, che favoriscono la memorizzazione e la trasmissione.
La tappa successiva, che è caratteristica del Vicino Oriente antico, consiste nel mettere per iscritto i proverbi. Le collezioni reali attribuite a Salomone o agli uomini di Ezechia sono state forse il frutto di una raccolta di proverbi popolari, o caratteristici di un ambito determinato, per esempio la corte. Si può immaginare che il re avesse incaricato il suo personale di comporre questa raccolta, che, in seguito, fu messa per iscritto in una forma ufficiale, alla quale fu dato il nome di colui che ne aveva ordinato la preparazione.
Terminato il processo di redazione, una collezione di proverbi e, a maggior ragione, una raccolta di collezioni come il libro dei Proverbi, si trasmette più agevolmente e può diventare un documento di riferimento a fini educativi. In tal senso assumono tutto il loro significato l'apostrofe "figlio mio", che si trova spesso in questi proverbi (per es., in 27, 11), e la forma del consiglio diretto, con il verbo all'imperativo.
Il saggio, in effetti, non tiene per sé il proprio sapere: la sua vocazione è di trasmetterlo. Tuttavia, egli non ha ordini da impartire e non ha potere politico o religioso, né alcuna autorità, eccetto quella che gli deriva dal valore stesso del suo sapere.
Per comprendere i saggi dell'antico Israele, bisogna tener presenti la specifica situazione storica e gli aspetti per i quali essa differiva dalla nostra. In particolare il sapere biblico non aveva acquisito quella compattezza nella struttura del sapere che sarebbe stata apportata dal mondo greco e poi sviluppata dalla scienza moderna e il rapporto mondo-uomo nascondeva innumerevoli incognite.
L'uomo della Bibbia percepiva, però, più dell'uomo moderno, l'unità fondamentale dell'essere umano e del mondo. In questo mondo, del quale egli aveva una conoscenza superficiale, l'uomo cercava la propria strada ed esso, proprio perché l'uomo ne faceva parte, non gli era estraneo; esso era fatto perché egli ne potesse usufruire. L'uomo biblico non immaginava, tuttavia, di poterlo trasformare e manipolare a suo beneficio; il saggio della Bibbia prendeva il mondo come era. Per questi motivi le osservazioni dei saggi concernenti il mondo e i suoi fenomeni offrivano loro degli insegnamenti sull'uomo; i paragoni con la Natura erano aperti a un sapere sull'uomo: "La tramontana porta la pioggia,/ un parlare in segreto provoca lo sdegno sul volto" (25, 23). "Leone ruggente e orso affamato,/ tale è il malvagio che domina su un popolo povero" (28, 15).
I limiti del potere conoscitivo non derivavano esclusivamente dallo stato embrionale della scienza; agli occhi dei saggi riconoscere i limiti invalicabili della conoscenza rappresentava un vero e proprio sapere. Infatti, il mondo messo a disposizione degli uomini non è opera loro, ma di Yahweh, dio d'Israele. Perciò si afferma che: "La casa e il patrimonio si ereditano dai padri,/ ma una moglie assennata è dono del Signore" (19, 14). "Il cavallo è pronto per il giorno della battaglia,/ ma al Signore appartiene la vittoria" (21, 31). "La mente dell'uomo pensa molto alla sua via,/ ma il Signore dirige i suoi passi" (16, 9). Inoltre, il vero saggio è modesto: "Hai visto un uomo che si crede saggio?/ È meglio sperare in uno stolto che in lui" (26, 12). "Non c'è sapienza, non c'è prudenza,/ non c'è consiglio di fronte al Signore" (21, 30).
I poveri non mancavano e sulla scia di un'etica sapienziale internazionale, i saggi d'Israele richiamavano alla cura dei bisognosi. Questa generosità non impediva loro di avvertire che la pigrizia ha come conseguenza la penuria di cibo. La sapienza nell'osservazione si sviluppa parallelamente all'etica, senza che le due si integrino in un'esposizione strutturata. Il sapere sapienziale si strutturerà in discorso filosofico con i Greci.
La lunga introduzione al libro dei Proverbi (1-9) aggiunge almeno tre elementi complementari. l primo deriva direttamente dal riconoscimento di Yahweh: "Il timore del Signore è il principio della scienza" (1, 7; 9, 10). Secondo i saggi, non esiste una vera sapienza umana che non collochi l'uomo di fronte a Dio in un atteggiamento di accettazione, di rispetto e di venerazione. Il secondo elemento si pone forse a fondamento del primo. Il discorso della sapienza contenuto in Proverbi, 8 vuole mostrare che essa, che proviene da Dio, ma è distinta sia da Dio che dal mondo, assicura l'armonia e la giustizia nella vita personale di colui che la accoglie, anche nell'ambito della vita sociale, e che l'armonia e l'ordine del mondo dipendono da essa. I saggi scopriranno quindi, a partire da questa idea, che l'ordine del Cosmo è una realtà che si impone loro e che permette persino di cercare le leggi dell'essere. La ricerca intellettuale è fondata sul fatto che vi sono delle leggi nel mondo e che l'intelletto umano può conoscerle. Il terzo elemento ricorda che il luogo tradizionale in cui la sapienza viene trasmessa è la famiglia, ossia, più precisamente, il padre e la madre (Proverbi, 1, 8; 6, 20).
Il libro di Giobbe
Il libro di Giobbe, risalente forse al V sec. a.C., narra di un giusto che è sottoposto a varie prove e che cerca di comprendere il motivo per il quale la sua felicità è scomparsa. Tre amici dialogano con Giobbe, ma senza successo: essi tentano di convincerlo che la sua infelicità presente è il frutto di un peccato che egli non vuole riconoscere, mentre Giobbe, convinto della propria innocenza, si appella al suo Dio, che lo colpisce senza motivo. Infine, Dio interviene per ricordare a Giobbe che egli fa parte di un mondo di cui non ha il dominio. Questo capolavoro poetico ha come cornice un racconto in prosa che evoca il progressivo declino di Giobbe e il suo ristabilimento.
Quest'opera poderosa deve essere stata composta globalmente da un solo autore. Nel momento in cui coloro che erano stati esiliati a Babilonia fecero ritorno in Israele, convertiti e ormai fedeli al loro Dio, le difficoltà del reinserimento furono tali, che le promesse dei profeti poterono sembrare illusorie. Sorse dunque il dilemma del perché si dovesse restare fedeli a Dio quando si era continuamente afflitti da sventure. Un tale dibattito fu affrontato dall'autore anonimo del libro di Giobbe. Tre innovazioni sono presenti in questo libro: il fatto che sia stato composto da un solo autore; la forma letteraria che è analoga a quella di un processo e, infine, il problema teologico che è trattato, che non abbandonerà più i saggi della Bibbia.
Il dilemma fondamentale dell'esistenza o meno di un rapporto fra comportamento retto e felicità e, viceversa, fra comportamento empio e infelicità non era stato percepito in tutta la sua gravità dai saggi precedenti. Nel racconto, gli amici di Giobbe sostengono la tesi positiva, ma Giobbe la rifiuta, poiché sa di essere innocente. Fra di loro non si instaura mai realmente un vero dialogo. Gli amici accusano Giobbe e questi giunge ad accusare Dio di brutalità, poiché è necessario che qualcuno sia colpevole di quel che accade. Il terzo ciclo del dialogo (22-27) alla fine si ingarbuglia, tanto che un autore posteriore aggiungerà una pagina (28) sull'inaccessibilità della sapienza. Dopo un altro interludio (32-37), che è anch'esso un'aggiunta posteriore, nel quale un giovane pretenzioso riprende le tesi degli amici, Yahweh interviene "di mezzo al turbine" (38, 1), e Giobbe si sottomette, "su polvere e cenere" (42, 6). Giobbe è la vittima che ricorre a Dio come al suo unico sostegno e che, al contempo, lo accusa di essere l'autore della sua infelicità. Gli amici difendono la causa di Dio e accusano Giobbe; quanto a Dio, in questo dibattito egli svolge il duplice ruolo di accusato e di giudice.
Giobbe si sottomette all'affresco grandioso, tracciato per lui da Yahweh, di un mondo che l'uomo non governa e di cui non può giustificare le apparenti incoerenze e Yahweh stesso riconosce che Giobbe ha parlato bene di lui (42, 7). Tuttavia, non è fornita una giustificazione della sofferenza del giusto; il problema resta insoluto, insieme al mistero di un Dio creatore di un mondo siffatto.
Il libro di Qoelet
Il libro di Qoelet (altrimenti detto Ecclesiaste), può essere datato al III sec. a.C. Si tratta di un discepolo che raccoglie i detti e le riflessioni di un maestro sconosciuto secondo il quale il senso della vita è sfuggente. "Tutto è vanità": vana la nostra ricerca di sapere e di comprendere, vane le nostre fatiche. Ci rimangono solamente quelle gioie semplici ed effimere, che conviene tuttavia accogliere come un dono di Dio, di un Dio che si è fatto distante.
Qoelet ha esplicitato, in misura maggiore rispetto a ogni altro saggio della Bibbia prima di lui, alcuni elementi del suo percorso intellettuale:
Mi sono proposto di ricercare e investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo. È questa una occupazione penosa che Dio ha imposto agli uomini, perché in essa fatichino. Ho visto tutte le cose che si fanno sotto il Sole ed ecco tutto è vanità e un inseguire il vento.
Ciò che è storto non si può raddrizzare e quel che manca non si può contare.
Pensavo e dicevo fra me: 'Ecco, io ho avuto una sapienza superiore e più vasta di quella che ebbero quanti regnarono prima di me a Gerusalemme. La mia mente ha curato molto la sapienza e la scienza'. Ho deciso allora di conoscere la sapienza e la scienza, come anche la stoltezza e la follia, e ho compreso che anche questo è un inseguire il vento, perché molta sapienza, molto affanno; chi accresce il sapere aumenta il dolore. (1, 13-18)
La sapienza è un fallimento. Giobbe non riusciva a render conto della sofferenza del giusto; Qoelet ritiene che tutto sia privo di senso, sebbene questo non lo spinga verso un immoralismo sfrenato né verso il rifiuto di ogni realtà trascendente. In modo semplice ma doloroso, egli non scorge più un legame certo fra un atto e le sue conseguenze e, in ogni caso, questo legame non è evidente in questa vita. Giobbe sosteneva la stessa tesi in relazione al rapporto fra virtù e felicità e fra vizio e infelicità. Qoelet allarga il campo in cui questa situazione di crisi viene applicata. La sapienza biblica è quindi fallimentare?
Il Siracide
La sapienza di Ben Sira, chiamata Siracide in greco ed Ecclesiastico in latino, fu inclusa nella Settanta. Questo saggio di Gerusalemme è il solo dell'ambiente biblico del quale conosciamo il nome. Egli compose la sua opera all'inizio del II sec. a.C.; questa, scritta in ebraico, andò perduta dopo il IV sec. d.C., ed è stata ritrovata progressivamente dopo il 1896 in frammenti in ebraico che ne coprono circa i due terzi. Questa raccolta, vasta summa della sapienza d'Israele, il cui ordine, tuttavia, sfugge, affronta una gran quantità di argomenti, che riguardano la vita quotidiana, con una particolare insistenza sulla figura della sapienza e un vasto quadro delle personalità che più hanno lasciato un segno nella storia d'Israele.
Ben Sira è il primo saggio d'Israele che menziona la scuola (51, 23). Egli propone ai suoi discepoli e lettori non soltanto alcuni semplici proverbi, ma una serie di approfondimenti di temi svariati, che sono spesso concatenati. Per questo motivo, il libro si inserisce nella tradizione che inizia con Proverbi, 1-9, con Giobbe e con Qoelet. Il suo scopo è ancora quello di far riflettere il lettore, presentandogli le diverse sfaccettature di una determinata realtà, suscitando in questo modo il discernimento e invitando alla decisione. Per più di un aspetto Ben Sira si pone in continuità con i saggi che lo hanno preceduto.
La sapienza dell'artigiano, ossia la sua abilità, era stata lodata dal libro dell'Esodo (28, 3; 31, 3.6). La sapienza egizia, invece, aveva una "satira dei mestieri". Ben Sira si ispira a quest'ultima (38, 24-34) nel preferire ai mestieri manuali quello di scriba, di saggio. Tale mestiere si caratterizza ormai per la devozione meditativa al patrimonio religioso di Israele, la Torah, intesa nel senso più ampio. Nella parte centrale del suo libro, Ben Sira mostra anche che questa Torah è l'espressione perfetta della sapienza divina, che è sempre offerta. Non bisogna stupirsi se, al termine della sua raccolta, egli traccia un gran numero di ritratti degli eroi del suo popolo. Il saggio non ha rinnegato la sua funzione per mettersi al servizio della Bibbia in via di costituzione; quando evoca gli avvenimenti e le figure appartenenti al passato di Israele, egli parla in quanto saggio e propone, in un certo senso, una filosofia della storia e della religione.
Egli propone innanzitutto, come contrappunto della storia, un affresco della Natura (42, 15-43), il quale ricorda, in maniera contrastante, i discorsi che Yahweh indirizzava a Giobbe (Giobbe, 38-41). In entrambi i brani si utilizza un procedimento di elencazione tipico delle liste, che è testimoniato per la prima volta in Israele, a proposito di Salomone in I Re, 5, 13. Potrebbe trattarsi di un primo sforzo di classificazione scientifica, nel caso di Ben Sira, tuttavia, l'enumerazione si trasforma in lode del creatore.
Anche se Ben Sira si inserisce nella tradizione sapienziale di Israele, egli presenta alcune caratteristiche originali: i saggi dei tempi passati, per esempio, sconsigliavano di fare prestiti o di rendersi garanti. Ben Sira è più aperto, nel senso che, senza minimizzare i rischi in cui si incorre quando si ha a che fare con debitori disonesti, egli consiglia comunque di prestare e di farsi garanti di un prestito, ma con prudenza e circospezione (29). Tutto sommato, egli preferisce al prestito il dono puro e semplice, che, a suo avviso, presenta vantaggi per tutti. In materia di onore (9, 17-11, 6) Ben Sira, che parla per esperienza, considera l'orgoglio come la causa della rovina dei principi e dei potenti e incita a non fidarsi delle apparenze: colui che teme il Signore merita di essere onorato, anche se è povero. Inoltre seguendo Qoelet (9, 15) riconosce la sapienza del povero; il problema è che a volte nella società l'ordine gerarchico è modificato.
Il libro della Sapienza di Salomone
Il libro della Sapienza di Salomone, opera greca della diaspora giudaica, che risale agli inizi dell'era cristiana, abbandona il campo del quotidiano per proporre un discorso di elogio, alla maniera della retorica greca. Tuttavia, non è possibile comprendere il contenuto di questo discorso se non nell'ambito delle tradizioni ebraiche riguardanti l'esodo e Salomone, il saggio per eccellenza. L'ignoto autore, convinto che il giusto è destinato a sopravvivere, invita a chiedere a Dio il dono della sapienza, mediante la quale, alle origini, Dio salvò Israele dall'oppressione.
Ben Sira non conosceva né le angosce di Giobbe, né la disillusione di Qoelet, ma non riusciva a chiarire il problema, se non per discolpare Dio e per riaffermare che l'uomo sarà ricompensato delle sue azioni (16, 24-18, 14). L'autore della Sapienza di Salomone afferma chiaramente che l'uomo sarà ricompensato nell'aldilà. Il fatto che egli parli di incorruttibilità, di immortalità dei giusti, sembrerebbe implicare l'idea di resurrezione. L'autore non lo dice esplicitamente, tuttavia mentre analizza gli avvenimenti passati dell'esodo, mette in evidenza in quale misura, alle origini di Israele, gli elementi del Cosmo si fossero trasformati per salvare i giusti e per annientare i loro avversari colpevoli. Questa azione primordiale del Cosmo sembra prefigurare la stessa partecipazione cosmica alla fine della storia.
Il saggio, che aspira all'eternità felice, partecipa a questa storia delle origini grazie alla sapienza divina, che egli ottiene per mezzo della preghiera. Senza di essa, "Quale uomo può conoscere il volere di Dio?/ Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?/ I ragionamenti dei mortali sono timidi/ e incerte le nostre riflessioni,/ perché un corpo corruttibile appesantisce l'anima/ e la tenda d'argilla grava la mente dai molti pensieri./ A stento ci raffiguriamo le cose terrestri,/ scopriamo con fatica quelle a portata di mano" (9, 13-16).
Per questo autore la sapienza diviene presenza illuminante e purificatrice (9, 18), e anche presenza d'amore (8, 2). Senza di essa a nulla valgono i doni della Natura e la scienza stessa, che l'autore ha acquisito in gioventù, e che espone con precisione, alla maniera dei Greci (7, 17-20).
Questo saggio è anche un filosofo. Aristotele e gli stoici propendevano per una religione cosmica; il loro problema, che è il medesimo che si pone il nostro autore, non era quello dell'esistenza del divino, che essi ammettevano, ma della natura della divinità, ossia di comprendere che cosa è divino. Se i filosofi greci divinizzano gli elementi costitutivi del Cosmo, il nostro autore afferma che esiste solamente il Dio della Bibbia, che è l'unico creatore del mondo. Per dimostrare questa idea egli si avvale dello strumento dell'analogia (recando la prima testimonianza dell'uso dell'analogia in questo contesto), che i Greci impiegavano da molto tempo nella matematica. Colui che ha creato gli elementi del mondo e gli astri è più potente di essi, "difatti dalla grandezza e bellezza delle creature/ per analogia si conosce l'autore" (13, 5).
L'ambiente sapienziale della Bibbia è dunque variegato e si sviluppa nel tempo, affrontando i problemi di ciascuna generazione; dopo essere passato attraverso una crisi, esso ritrova la serenità e l'entusiasmo.
Considerando la storia antica di Israele, non sembra che i saggi formassero una categoria speciale nella società. La sapienza è legata in modo troppo stretto alla cultura ordinaria, ha carattere popolare ed è trasmessa in primo luogo dalla famiglia (v. anche Tobia, 4). Negli ultimi secoli precedenti l'era cristiana, alcuni saggi aprirono delle scuole, o più esattamente delle accademie, dove le migliori promesse della società potevano ricevere una formazione che li preparasse alle loro responsabilità future; sembra che lo abbia fatto anche Ben Sira.
Per questi studiosi la sapienza era uno strumento di conoscenza che poteva illuminare l'uomo e influire sul suo comportamento e sulle sue scelte fondamentali. Procedevano con un metodo razionale, fondato sull'esperienza e sulla riflessione. Per i saggi di Israele, questo fatto non si opponeva in alcun modo alle loro credenze religiose, anzi, queste ultime erano esse stesse riconsiderate a partire dalla sapienza. Il principio della coerenza di tutte le esperienze, profane o religiose che fossero, era fondamentale.
di Raymond Westbrook
Il diritto quale sistema di organizzazione della società e tradizione culturale
In Mesopotamia erano presenti più sistemi giuridici distinti, che conservavano la loro autonomia interna anche quando rientravano in una unità politica più vasta. Ciononostante, l'intera regione condivideva una tradizione giuridica comune, i cui principî ispiravano le differenti regole e pratiche dei vari sistemi. I principî e i concetti del sistema rimasero fondamentalmente invariati durante tutto il periodo compreso fra l'epoca a cui risalgono i primi documenti legali decifrabili (intorno al XXVIII sec.) e la conquista di Alessandro.
Nell'ambito di questa tradizione, è possibile distinguere due correnti: una 'principale', concentrata nel Sud, e una 'periferica', localizzata presso i confini settentrionali e orientali e diffusa al di fuori della Mesopotamia. Esse differivano nello stile e nelle pratiche, per esempio nel redigere documenti legali o nelle procedure di eredità. Comunque, tale distinzione geografica non costituisce altro che un'indicazione approssimativa. La punizione consistente nell'infilare un cuneo nella bocca di colui che infrange un contratto, per esempio, è attestata in territorio sumerico nel III millennio, in seguito scompare dai documenti per riapparire nel XV sec. a Nuzi, una città del Nord.
La tradizione giuridica trovò espressione sia nei discorsi teorici sul diritto sia nell'applicazione quotidiana della legge nella società. Fin dagli inizi il diritto fu affrontato secondo la modalità che caratterizza l'indagine scientifica mesopotamica, ovvero compilando elenchi. L'unità di base era costituita da una regola giuridica, formulata secondo la stessa procedura abitualmente adottata per redigere le liste di presagi e di sintomi medici, ossia si presentava un caso ipotetico, seguito dalle sue conseguenze giuridiche: "Se un uomo morde il naso di un altro uomo e lo amputa, pagherà una mina d'argento" (Codice di Eshnunna, par. 42).
Il processo di composizione delle liste era complesso, procedeva su due livelli: un livello orale, nel quale la legge veniva elaborata su un piano astratto, e un livello scritto, in cui essa trovava la sua formulazione in un testo coerente.
a) Il livello orale. Si prendeva come punto di partenza un caso giuridico; poteva trattarsi di un caso effettivamente giudicato da una corte, oppure di un episodio ben noto delle leggende epiche o storiche (le quali erano considerate come eventi realmente accaduti) o, più semplicemente, poteva essere un caso puramente fittizio, inventato appositamente per la discussione. Si trattava, di preferenza, di un caso che comportava una questione giuridica delicata o di un caso limite, che potesse offrire materia di discussione e che mettesse in rilievo regole più ordinarie. Successivamente esso era spogliato di tutti i fatti non essenziali (per es. il nome delle parti in causa, le circostanze non rilevanti ai fini del giudizio) e trasformato in un'ipotesi teorica, provvista della propria soluzione giuridica. A questo punto si modificavano i dettagli delle circostanze ipotetiche al fine di creare una serie di alternative che trasformassero, per esempio, la 'responsabilità' in 'assenza di responsabilità', o che aggravassero o mitigassero la pena. Questa serie di variazioni intorno a un singolo caso costituiva un problema di studio, che avrebbe potuto essere usato come paradigma per l'insegnamento o per dar luogo a ulteriori discussioni. Col passare del tempo emerse un canone di problemi tradizionali, che fu trasmesso per diversi millenni da scuola a scuola e da società a società. Possono essere citati alcuni esempi: il caso riguardante una relazione illegittima con una ragazza promessa ma non sposata, o quello di un'inabilità temporanea causata da una ferita inflitta durante una rissa; il caso di un ladro che sia colto mentre penetra di notte in una casa o quello di un bue che incorna una persona.
b) Il livello scritto. È ragionevole supporre che la maggior parte di quest'attività dotta avesse luogo nelle scuole degli scribi, dove era insegnata la scrittura cuneiforme. Queste scuole erano centri di attività intellettuale che producevano numerosi tipi di testi eruditi. In un tale contesto, era inevitabile che anche la tradizione giuridica orale trovasse espressione in testi scritti. Questa tradizione assunse due forme, la prima delle quali è data dai cosiddetti 'codici di leggi', che costituiscono la fonte principale riguardante le liste di regole giuridiche. I principali codici mesopotamici che ci sono pervenuti sono: il Codice di Ur-Nammu, proveniente da Ur, nella Mesopotamia meridionale, scritto in sumerico e risalente al 2100 ca.; il Codice di Lipit-Ishtar, proveniente da Isin, nella Mesopotamia meridionale, scritto in sumerico e risalente al 1900 ca.; il Codice di Eshnunna, proveniente dalla città omonima situata nella Mesopotamia centrale, scritto in accadico e risalente al 1770 ca.; il Codice di Hammurabi, proveniente da Babilonia, scritto in accadico e risalente al 1750 ca.; le Leggi medioassire, provenienti da Assur, scritte in accadico e risalenti al XIV sec.; le Leggi neobabilonesi, provenienti da Sippar, nella Mesopotamia centrale, scritte in accadico e risalenti al VII secolo.
In questi codici di leggi, gli elenchi delle regole giuridiche si distaccavano dal contesto accademico della scuola degli scribi, come è evidente dalla forma materiale del Codice di Hammurabi, costituita da una grande stele di diorite, in cima alla quale è raffigurato il re Hammurabi al cospetto di Shamash, il dio della giustizia. Il resto della pietra è ricoperto da un'iscrizione che consta di un prologo, di una lista di regole giuridiche e di un epilogo. Il monumento e la rispettiva iscrizione avevano come scopo quello di dimostrare alla pubblica opinione, e in modo particolare al dio, che Hammurabi aveva adempiuto il mandato divino che gli imponeva di essere un sovrano giusto. Nessun altro codice di leggi è sopravvissuto sotto forma di monumento, tuttavia le leggi di Ur-Nammu e di Lipit-Ishtar presentano la stessa struttura tripartita e sembra che siano state copiate da monumenti. Lo scopo originario del Codice di Eshnunna fu probabilmente lo stesso, nonostante non si sia conservato alcun epilogo e nonostante esso inizi con una formula di datazione invece che con un prologo. Nelle Leggi medioassire nulla indica che esse siano state, in origine, scolpite su un monumento, ma sono legate agli archivi reali e presumibilmente rivestivano una qualche funzione ufficiale. Le Leggi neobabilonesi furono invece copiate da un originale più esteso, del quale non si conosce nulla.
Nei codici di leggi, pertanto, troviamo elenchi di regole estrapolate dal loro contesto di origine e inserite in un'iscrizione reale, a scopo di propaganda o per qualche altro obiettivo del re. In seguito, la pratica dei giovani scribi di copiare le iscrizioni dai monumenti per esercitarsi nella scrittura consentì il reinserimento di tali elenchi nel contesto della scuola scribale; ciò spiega perché è possibile trovare il Codice di Ur-Nammu, il Codice di Lipit-Ishtar e il Codice di Eshnunna soltanto sotto forma di copie provenienti dalle scuole. Infatti, fino al I millennio a.C. inoltrato, la formazione di uno scriba prevedeva di norma la copiatura di brani estratti dal Codice di Hammurabi. Allo stesso modo, le Leggi medioassire sono presenti in una copia risalente all'XI sec. di un originale del XIV sec., anche se non è assodato chiaramente se essa fosse il prodotto dell'attività di una scuola; una copia ulteriore fu redatta nel VII sec. per la biblioteca di Assurbanipal.
La seconda forma in cui trovò espressione la tradizione giuridica orale è costituita dagli esercizi degli scribi, che fin dall'inizio del II millennio, includono leggi che non si riscontrano nei codici ufficiali e che forse non appartengono ad alcun codice. Tali esercizi sono talvolta inframezzati da formule contrattuali che gli scribi dovevano imparare per redigere i documenti giuridici privati (questi ultimi entrarono a far parte, in seguito, delle liste lessicali compilate dagli scribi [v. cap. VII, par. 1]; nel I millennio a.C. essi sono inclusi nelle serie lessicali canoniche "ḪAR-ra = ḫubullu" e una serie separata, Ana ittišu, è interamente dedicata loro). Questi testi sono connessi in maniera più diretta con l'attività, propria degli scribi, di compilare elenchi di regole, attività che, come quella riguardante le liste lessicali, era a uso degli stessi scribi. Tali testi si collocano a un livello intermedio fra la tradizione orale e i codici di leggi. A questo stadio gli elenchi scritti potevano costituire la base per l'elaborazione e la discussione di problemi giuridici. Gli elenchi presenti nei codici di leggi sono a tal punto differenti nello stile e nel contenuto dal testo dell'epilogo e del prologo, che devono aver avuto, almeno in parte, una precedente esistenza indipendente, nella forma di trattati accademici prodotti nelle scuole scribali, analoghi a quelli che compaiono nei testi di esercizio dei medesimi. Ciononostante, una volta trasformati in monumenti pubblici, come il Codice di Hammurabi, sembra che essi fossero copiati senza alcuna variazione redazionale rilevante.
Esporre il diritto secondo una casistica, ossia sotto forma di elenchi di casi ipotetici, comportava gravi svantaggi. Questo metodo non consentiva infatti di formulare categorie generali, principî giuridici o definizioni di termini astratti, né dava luogo a un ordine gerarchico nell'analisi del diritto, nell'ambito del quale un singolo caso potesse essere classificato all'interno di categorie sempre più ampie, fino a includere, al loro culmine, l'intero complesso delle leggi (v. il trattato di Gaio, giurista romano del II secolo d.C.: "Il complesso del diritto da noi osservato si riferisce a persone, a cose o ad azioni […]. La distinzione primaria nel diritto che riguarda le persone è questa, che tutti gli uomini sono liberi o schiavi", Institutiones, I, 8-9). Al contrario, il metodo mesopotamico costringeva necessariamente a muoversi in senso orizzontale, accumulando un numero sempre crescente di esempi, senza speranza di poter includere tutti i casi possibili, il che avrebbe potuto teoricamente essere compiuto soltanto cumulandone un numero infinito.
Gli elenchi, tuttavia, non erano compilati in maniera casuale e coloro che li redigevano fecero intensi sforzi per superare le limitazioni concettuali della loro scienza. In primo luogo, gli esempi furono raggruppati in ampie categorie, le quali, prese congiuntamente, rappresentavano le principali aree di un sistema legale. Vi sono testimonianze che attestano come questa procedura fosse praticata in maniera consapevole; all'interno di una tarda copia paleobabilonese del Codice di Hammurabi, lo scriba ha inserito dei titoli fra i gruppi di paragrafi, i quali suggeriscono categorie di tipo materiale piuttosto che giuridico: "Regole [letteralmente, ordini] riguardanti la casa, il campo e il frutteto"; "Regole riguardanti i soldati e i pescatori" (che erano tipi di proprietari feudali).
Le Leggi medioassire si spingono oltre: esse constano di una serie di almeno 14 tavolette, ciascuna delle quali affronta un argomento distinto. Le tre tavolette in miglior stato di conservazione trattano, rispettivamente, casi concernenti le donne (A), il terreno agricolo (B) e i beni mobili (C+G).
Secondariamente, nell'ambito di ogni area giuridica, gli esempi sono disposti in base all'argomento e organizzati secondo un criterio facilmente riconoscibile, qual è l'ordine cronologico. I primi cinque paragrafi del Codice di Hammurabi, per esempio, asseriscono quanto segue:
1. Se un uomo accusa un altro di omicidio senza provare la sua accusa, sia condannato a morte.
2. Se un uomo accusa un altro di stregoneria senza provare la sua accusa, l'accusato vada al fiume e vi si immerga; se il fiume lo rapisce, l'accusatore abbia il suo patrimonio; ma se ne esce salvo, l'accusatore sia messo a morte e l'accusato ne prenda il patrimonio.
3. Se un uomo rende falsa testimonianza in un processo per il quale è stata prevista la pena di morte, sia condannato a morte.
4. Se un uomo presta falsa testimonianza in un processo che prevede il pagamento di orzo o argento da parte del colpevole, sia condannato al pagamento di eguale somma.
5. Se un giudice ha pronunciato una sentenza apponendo sul documento il sigillo, ed in un secondo tempo ha dolosamente mutato questa sentenza, paghi dodici volte il valore del bene trattato nel processo e sia radiato per sempre dall'assemblea dei giudici. Questo giudice non potrà più giudicare. (Saporetti 1998, pp. 161-162)
L'argomento trattato riguarda chiaramente la procedura da seguire in una controversia ed è affrontato nei cinque paragrafi seguendo una sequenza cronologica: il reclamo iniziale, il processo, il giudizio. Per ciascuna delle fasi sono riportati esempi che illustrano comportamenti non ortodossi, alcuni dei quali comuni, altri no. Nonostante sia fornito solamente un piccolo saggio delle possibili infrazioni alla legge e dei reclami che possono essere avanzati, si fissano i parametri concernenti l'argomento e, quantomeno, si esprimono velatamente, qualora non lo siano direttamente, i principî mediante i quali è possibile valutare altri casi, ciascuno all'interno del proprio ambito.
In terzo luogo, le relazioni fra gli esempi possono essere usate per ampliarne la portata. Secondo il Codice di Hammurabi:
242. Se un uomo prende a nolo un bue [per l'aratura] per un anno, paghi 4 GUR di orzo per il bue che sta in posizione retrostante [=adibito alla maggior fatica].
243. Se un uomo prende a nolo un bue per un anno, paghi 3 GUR di orzo per il bue che sta in testa o in posizione mediana.
247. Se [un uomo noleggia un bue e] gli leva un occhio, deve versare al proprietario una somma corrispondente alla metà del suo valore.
249. Se il bue muore per un incidente fortuito, chi lo ha preso a nolo giuri e non paghi nulla.
250. Se, andando per strada, un bue uccide a cornate un uomo, questo fatto non deve dar luogo a un processo.
251. Se il bue ha il vizio di colpire con le corna e il distretto ha diffidato il proprietario, se costui non ha provveduto a tagliare le corna dell'animale né lo ha custodito, ed avviene che il bue colpisca e uccida il figlio di un uomo, il proprietario sia condannato a pagare mezza mina d'argento.
252. Se l'ucciso è uno schiavo il proprietario del bue sia condannato a pagare un terzo di mina d'argento. (ibidem, pp. 190-191)
Questi esempi seguono uno schema logico: termini del contratto, infrazione del contratto, delitto. Nella sezione riguardante il delitto, nei paragrafi 250-252, gli esempi sono stati prodotti per mezzo della tecnica delle variazioni ipotetiche intorno a un caso, descritta precedentemente, in modo da creare una discussione 'scientifica' di un problema giuridico. La variazione non ha luogo fra casi che sono in un semplice rapporto di opposizione, ma fra casi situati ai 'poli opposti', in cui si manifesta una variazione massima. La variazione avviene su due assi: la circostanza nella quale il bue ha incornato e lo status della vittima. Lo sviluppo lungo il primo asse muove dalle circostanze nelle quali non vi è responsabilità (un bue cammina su una strada stretta in cui è autorizzato ad andare), a circostanze in cui non vi è dubbio circa la responsabilità (il bue ha mostrato una propensione a incornare e il proprietario ha ricevuto un avvertimento formale). I casi intermedi non sono menzionati; che cosa accadrebbe se il bue incornasse in un luogo in cui non è autorizzato ad andare, o se avesse propensione a incornare senza che il padrone ne fosse stato avvisato? Lo sviluppo lungo il secondo asse segue la scala sociale: uomo (ossia capofamiglia), figlio, schiavo. Il risultato è che si creano numerosi altri casi intermedi che non sono esplicitati; per esempio non si conosce quale sarebbe la situazione se un bue, il cui proprietario sia stato diffidato, incornasse un capofamiglia o se un bue, il cui proprietario non sia stato diffidato, incornasse uno schiavo, quando però non sta camminando per strada. Paradossalmente, queste omissioni aiutano a suggerire un carattere di esaustività, in quanto la discussione definiva i parametri riguardanti l'argomento, selezionando esempi molto distanti fra loro. In linea teorica, si sarebbero potute ottenere le risposte applicabili a tutti i casi intermedi per estrapolazione logica dagli esempi forniti, sebbene, nella pratica, fosse necessaria una conoscenza suppletiva del diritto consuetudinario, tratta dalla tradizione orale.
In quarto luogo, la selezione degli esempi nell'ambito di un argomento potrebbe essere congegnata in modo da alludere a principî, qualora venga confrontata con la tradizione orale da cui essi sono tratti. Ciò può essere dimostrato prendendo come termine di paragone il modo in cui il caso emblematico del bue che incorna è trattato nel Codice di Eshnunna:
53. Se un bue uccide a cornate un altro, i proprietari dei due buoi si spartiscano il prezzo del bue vivo e la carne di quello morto.
54. Se il proprietario di un bue che ha il vizio di prendere a cornate non ha provveduto a custodire l'animale dopo che il distretto lo ha diffidato, sia condannato a pagare 2/3 di mina d'argento se il bue uccide a cornate un uomo.
55. Se il bue uccide a cornate uno schiavo, il proprietario dell'animale sia condannato a pagare 15 sicli d'argento.
56. Se il proprietario di un cane feroce non ha provveduto a custodire l'animale dopo che il distretto lo ha diffidato, sia condannato a pagare 2/3 di mina d'argento se il cane morde e uccide un uomo.
57. Se il cane morde e uccide uno schiavo, il proprietario dell'animale sia condannato a pagare 15 sicli d'argento.
58. Se il proprietario di un muro rovinato non provvede a rinforzarlo dopo che il distretto lo ha invitato a prendere le necessarie precauzioni, e poi il muro è crollato uccidendo il figlio di un uomo, questione di vita: decreto del re. (ibidem, pp. 153-154)
Lo stesso problema presente nel Codice di Hammurabi, benché regolato sostanzialmente in modo simile, qui è organizzato in maniera differente. Il bue che incorna è solamente un esempio nell'ambito di una serie che mira a chiarire il principio riguardante la responsabilità del proprietario per le proprietà che possono recare danno a terzi. Si fa uso, anche qui, del doppio asse; in questo caso la sequenza delle vittime è: bue, uomo, schiavo, figlio. L'ultimo esempio, in cui è applicata la pena capitale, anche se la vittima è solamente un figlio, allude alla natura aggravata del caso. La pena di morte si sarebbe applicata a fortiori nel caso in cui la vittima fosse stata un capofamiglia. Ciò nonostante, non essendovi nessun principio enunciato esplicitamente, si possono soltanto fare delle ipotesi riguardo alla distinzione fra il caso di un bue pericoloso e quello di un muro pericolante: forse nel caso del muro, dato il suo carattere inanimato, si attribuiva una maggiore responsabilità direttamente al proprietario.
Il diritto nella società
Vi erano tre livelli di tribunali: locale, provinciale e reale. L'unità più piccola era il consiglio locale (bābtu), una sezione della città, forse legata a un clan, che prendeva decisioni in materia di diritto di famiglia (per es., la rottura di una promessa di matrimonio) e di pubblica sicurezza (per es., avvisare il proprietario di un bue della propensione dell'animale a incornare). Il consiglio cittadino rappresentava un intero villaggio o una città ed era composto dal sindaco (rabiānu o ḫazannu) e da un gruppo di cittadini anziani o eminenti. I giudici formavano un collegio di dimensioni variabili, che sembra fosse costituito ad hoc per ogni singolo caso. Gli ufficiali provinciali del re potevano svolgere la funzione di giudici nelle questioni locali, in particolare nei casi che coinvolgevano gli interessi del palazzo. Essi avevano la facoltà di giudicare un caso da soli, ma spesso al loro fianco sedevano giudici locali. Il re (o gli ufficiali di palazzo che agissero in suo nome) costituiva il tribunale supremo. Non esisteva un sistema formale di appello, ma i contendenti potevano presentare una supplica al sovrano affinché egli ribaltasse la decisione di un tribunale inferiore. Il re poteva anche svolgere le funzioni del tribunale di prima istanza. Rientravano nella sua giurisdizione i reati più gravi, in cui potesse configurarsi la pena di morte; inoltre assisteva ai processi che coinvolgevano gli interessi di corte. Per il resto, i criteri che definivano la sua giurisdizione non sono chiari.
Vi sono due caratteristiche dell'amministrazione della giustizia che rivestono un'importanza particolare per il diritto mesopotamico, in quanto scienza e sistema di controllo sociale. In primo luogo, non vi era alcuna distinzione tra le mansioni esecutive e giudiziarie del governo. Gli stessi ufficiali, o corpi politici, prendevano decisioni amministrative e pronunciavano sentenze, e a entrambe era attribuito lo stesso carattere legale. In secondo luogo, non esisteva la figura professionale del giurista, come invece quella dell'indovino o del medico. Non c'erano avvocati che potessero dare consigli ai clienti o perorare le loro cause in tribunale e il titolo di giudice corrispondeva a un ufficio o a una funzione e non a un tipo di esperto.
Non vi è nessuna testimonianza che faccia pensare che i codici giuridici avessero la funzione di leggi in senso moderno, ossia che costituissero una fonte giuridica dotata di autorità da citare in tribunale. È possibile, comunque, che essi fossero considerati come opere di riferimento, come una fonte d'informazione primaria circa il diritto tradizionale e i principî corretti della giustizia, alla quale i giudici potevano attingere.
I verbali delle controversie non forniscono quasi nessuna indicazione sul tipo di legge applicata da un giudice per giungere alla sentenza, né gettano luce sulle sue modalità di applicazione. Tuttavia, si può affermare che, in generale, le fonti giuridiche di cui questi codici tengono conto sono le seguenti:
a) Il precedente giuridico. Nell'epilogo del suo codice, Hammurabi vanta "i giudizi che ho pronunciato e le decisioni […] che ho preso" (XLVIII 68-71), che sono divenuti "le parole di giustizia che ho scolpito sul mio monumento" (XLVIII 64-67). I citati paragrafi del codice di leggi sono pertanto presentati come precedenti giuridici, che devono essere seguiti da un saggio governante che si trovi a giudicare casi analoghi (XLVIII 75-79). Da ciò apprendiamo che il precedente era considerato una fonte giuridica valida, nonostante non vi fosse di certo alcun modo formale per citare in tribunale casi conosciuti, come avviene nei sistemi moderni.
b) Le disposizioni regie. Il Codice di Hammurabi si riferisce agli ordini del re (ṣimdāt šarrim) nei paragrafi 51 e 91, in riferimento alla convertibilità del grano e dell'argento nella restituzione dei prestiti, mentre nel paragrafo 58 del Codice di Eshnunna essi sono ancora citati in rapporto all'omicidio colposo. Inoltre, nella redazione tarda del Codice di Hammurabi citata precedentemente, i titoli inseriti e il colophon si riferiscono ai paragrafi del codice chiamandoli letteralmente 'ordini' (ṣimdāt) di Hammurabi.
Non esisteva un ramo separato del governo dotato di funzioni legislative e, come si è visto, il re ricopriva sia funzioni esecutive sia giudiziarie. Così un ordine del sovrano, sia che fosse rivolto a un singolo o all'intera popolazione, era considerato sullo stesso piano di un giudizio. Questo tipo di 'legislazione' che giocava un ruolo importante nell'amministrazione quotidiana, era invece meno presente nel sistema globale, e comunque molto di meno rispetto ai sistemi moderni. Ciononostante, almeno due tipi di ordini ebbero un ampio impatto: i decreti che fissavano i prezzi e gli editti di remissione dei debiti. Abbiamo soltanto testimonianze indirette dell'esistenza dei primi (molti codici di leggi contengono elenchi di prezzi di beni e servizi) e non si conosce comunque il tempo della loro durata e l'efficacia con la quale fossero imposti. Il secondo tipo di decreti era una prerogativa del re, che la esercitava nel momento della sua ascesa al trono e, successivamente, a intervalli irregolari; mediante tali decreti il re cancellava determinati arretrati di tasse e i debiti privati di natura non commerciale. Abbiamo molte testimonianze riguardanti le modalità di funzionamento e di applicazione nei tribunali di questi decreti; si sono conservati anche numerosi esempi risalenti al periodo paleobabilonese.
c) L'equità. Nel prologo al suo codice, Hammurabi dice che, obbedendo al suo mandato divino, egli ha instaurato la giustizia nel paese (v 14-24). La giustizia è denotata con due parole: kittum e mīšarum. La prima, connessa con l'idea di ciò che è saldo, si riferisce probabilmente al rispetto delle leggi esistenti. A volte, però, la legge stessa può commettere alcune ingiustizie, specialmente nel caso in cui sia manipolata dai ricchi e dai potenti a danno dei poveri e dei deboli, o qualora essa sia esercitata da ufficiali corrotti dediti ai propri interessi. Un sovrano mesopotamico aveva il dovere di proteggere le fasce più deboli della popolazione da quelle più forti. A tale proposito, nel prologo del Codice di Ur-Nammu si legge: "Non ha abbandonato l'orfano al ricco, né la vedova al potente, chi ha un [solo] siclo a chi possiede una mina, chi ha una pecora a chi possiede un bue" (Saporetti 1998, p. 116). Il secondo termine invece, mīšarum, che è connesso con l'azione dell'aggiustare, dell'apportare correzioni, si riferisce alla facoltà del sovrano di ignorare la formulazione letterale dei diritti giuridici, qualora ciò risulti necessario al perseguimento della giustizia. Egli poteva esercitare questo potere nel caso di un torto commesso verso un singolo oppure poteva applicarlo a un'intera classe della popolazione. L'esempio principale del secondo caso era l'editto di remissione dei debiti; i re che promulgarono tale decreto lo presentarono come tale da "instaurare l'uguaglianza nel paese" (mīšaram ana mātim šakānum). Gli effetti erano drastici, in quanto esso cancellava retroattivamente prestiti stipulati fra privati cittadini per mezzo di transazioni del tutto legali, annullando i loro effetti, come la proprietà di un terreno o la garanzia personale.
Queste tre fonti giuridiche si riscontrano tutte nei codici, che le riportano per lo più sotto forma di casi teorici, conservando soltanto occasionalmente la forma in cui la fonte era stata formulata in origine. L'atto del fissare i prezzi, in particolare, trovava generalmente espressione in una semplice tabella dei medesimi, ma il Codice di Hammurabi provvide ben presto a convertire anche questa modalità espositiva in una formulazione giuridica completa, mediante periodi ipotetici. Per il resto, non vi è alcun modo sicuro per identificare negli stessi paragrafi le fonti del diritto, poiché il materiale originale era già stato sottoposto, nelle scuole degli scribi, a un processo di astrazione.
d) Il diritto consuetudinario. Una quarta fonte, presente nei codici anche se non menzionata esplicitamente, era la più importante di tutte le altre. Sembra che le regole consuetudinarie non scritte, che esistevano da tempo immemorabile e che avevano conferito alle istituzioni del sistema la loro fisionomia fondamentale, siano state di gran lunga la principale fonte giuridica nell'uso pratico. Il diritto consuetudinario riguardante il matrimonio, l'eredità, i contratti e così via, non aveva bisogno, per essere valido, di essere avallato da una specifica decisione del re o da un suo ordine. In effetti il contenuto dei codici era costituito in gran parte dal diritto consuetudinario, presentato sotto forma di precedenti giuridici. La forte stabilità di cui il diritto mesopotamico ha goduto per alcune migliaia di anni, a dispetto degli innumerevoli rovesci politici, indica che il suo cambiamento ebbe luogo impercettibilmente e che la legislazione e persino i precedenti giudiziari ebbero un impatto soltanto marginale.
I popoli della Mesopotamia, nonostante fossero incapaci di formulare principî giuridici, avevano tuttavia una cognizione chiara della logica sottesa al diritto e la applicavano in maniera coerente alle loro istituzioni giuridiche tradizionali. Essi erano in grado, perciò, di dotare le istituzioni simili di una struttura visibilmente analoga, in modo da trasferire i concetti giuridici da un contesto a un altro, e di manipolarli in maniera da creare, a partire dalle vecchie regole, nuove strutture giuridiche. Esponiamo di seguito alcuni concetti giuridici applicati in maniera consapevole dai popoli della Mesopotamia.
a) La personalità giuridica. I popoli della Mesopotamia non riuscirono a elaborare il concetto di un soggetto di diritto astratto dai singoli membri, quale è quello di 'persona giuridica', come avviene nella legge moderna per mezzo del concetto di organismo unitario, caratterizzato da una pluralità di individui o da un complesso di beni. Tuttavia, essi erano consapevoli del fatto che la persona giuridica differiva dalla persona fisica e si avvalsero di questa conoscenza. Per esempio, l'adozione era considerata uno status artificiale che simulava, su un piano legale, lo status naturale di figlio o di figlia e perciò nella terminologia indigena era indicato come 'la condizione di essere figlio o figlia'. L'adozione era un atto unilaterale e privato che non richiedeva l'intervento di nessuna autorità pubblica. Per adottare un figlio dai suoi genitori naturali era necessaria la stipulazione di un contratto direttamente fra i genitori e l'adottante, in modo che il bambino fosse svincolato dall'autorità dei primi. Il bambino, naturalmente, non aveva voce in capitolo; il contratto affermava che l'adottante lo adottava "da A e B, suoi genitori". L'adozione di un bambino orfano o abbandonato non richiedeva alcun accordo; in entrambi i casi il bambino era privo di personalità giuridica e poteva essere, perciò, oggetto di un atto unilaterale. Il diritto mesopotamico consentiva anche l'adozione di adulti indipendenti; in questo caso, però, era necessario un contratto, in quanto essi erano considerati provvisti di personalità giuridica. Il contratto stabiliva che l'adottante adottava l'adottato "da lui stesso". In altre parole, la giurisprudenza mesopotamica scindeva la personalità giuridica dell'adottato in modo che egli potesse, allo stesso tempo, stipulare il contratto ed esserne l'oggetto, mantenendo in tal modo la coerenza delle proprie regole sull'adozione.
b) Lo status e il contratto. Il matrimonio, come l'adozione, era considerato uno status. Le regole consuetudinarie riguardanti lo status consentivano a due coniugi di dissolvere il matrimonio pronunciando semplicemente una solenne formula verbale. In alcune società, comunque, il fatto che una moglie divorziasse dal proprio marito era considerato socialmente inaccettabile. Nonostante non fosse possibile abrogare direttamente le regole riguardanti lo status, esse potevano essere manipolate per rendere il risultato socialmente desiderabile. Per svincolare la moglie dall'autorità dei genitori, e farla passare sotto quella del marito era necessaria, come per l'adozione, la stesura di un contratto. Per proteggere la moglie, il contratto conteneva in genere una penale con la quale era imposto al marito il pagamento di una certa somma nel caso avesse divorziato dalla moglie. Parallelamente, anche alla moglie, in caso di divorzio, era imposta una penale, ma in questo caso le sanzioni erano di natura differente: "Se A divorzia da suo marito B, verrà gettata da una torre [o in acqua]". Le sanzioni penali previste dal contratto non abolivano i diritti giuridici della moglie, ma di fatto li rendevano privi di valore, dissuadendo la donna dall'avvalersene.
c) Finzioni giuridiche. Sembra che nella città di Nuzi siano state in vigore alcune restrizioni sulla vendita dei terreni, connesse in qualche modo con il possedimento feudale. Non è ben chiaro fino a che punto si spingessero le restrizioni (se corrispondessero a un divieto totale di vendita, o se si riducessero solamente a una tassa gravosa o all'imposizione di un servizio); esse tuttavia erano abbastanza consistenti da spingere i potenziali acquirenti ad avvalersi dell'aiuto di espedienti giuridici. Un acquirente avrebbe provveduto a farsi adottare in modo fittizio dal venditore; pertanto la proprietà poteva essergli assegnata immediatamente come 'quota ereditaria'. In cambio l'acquirente avrebbe effettuato un pagamento al venditore, che nel documento di vendita era chiamato "dono". A questo scopo, un mercante riuscì a farsi adottare più di 50 volte.
d) La giustizia sociale. Una finzione giuridica approfitta della forma della legge, avvalendosene per camuffare la sostanza di una transazione. D'altra parte, i tribunali mesopotamici spesso cercavano di far giustizia riconoscendo la sostanza al di là della forma. La terra data in pegno per garantire un debito poteva essere riscattata restituendo il prestito, mentre quella venduta direttamente era persa per sempre. A volte i tribunali intervenivano per permettere che la terra venduta direttamente fosse riscattata, nel caso in cui la transazione, per le circostanze in cui aveva avuto luogo, si fosse in realtà rivelata una confisca della terra per debiti, avvenuta per mezzo di una vendita forzata. Per esempio, il paragrafo 39 del Codice di Eshnunna dispone quanto segue: "Se un uomo è costretto dal bisogno a vendere la sua casa, ha il diritto di riscattarla nel caso che l'acquirente voglia rivenderla" (Saporetti 1998, p. 152).
Il diritto mesopotamico era il risultato di un processo di crescita organico, maturato attraverso la risposta empirica a problemi immediati. Allo stesso tempo la tradizione intellettuale mesopotamica era in grado di organizzare il diritto in modo da sviluppare nuove regole e nuove applicazioni di esse, per mezzo di variazioni ipotetiche da una parte e della manipolazione dei concetti giuridici dall'altra. Tuttavia lo sviluppo di questa tradizione, senza la capacità di esprimere principî o di classificare all'interno di categorie comprensive, era destinato a essere limitato. L'impressione generale data dalle fonti mesopotamiche è quella di una tradizione giuridica sostanzialmente statica nell'arco della sua lunga storia.
Ciononostante, la scienza giuridica mesopotamica ebbe un'enorme influenza, diffondendosi molto oltre i confini della stessa Mesopotamia. Attraverso il suo veicolo primario, i codici di leggi, fece sentire la sua influenza in Asia Minore, nel Levante e nel bacino del Mediterraneo. Si può rinvenire la sua eredità, per quanto riguarda le norme sostanziali, i concetti giuridici e il metodo di analisi del diritto fondato sulla casistica, nei sistemi giuridici classici, in particolare in quello romano e talmudico, e attraverso questi, ancora nell'odierno sistema giuridico occidentale.
4. Le leggi hittite
di Mario Liverani
Negli archivi della capitale hittita Khattusha (odierna Boğazköy) sono state rinvenute diverse tavolette di un codice di leggi, diviso in due serie (dette Se un uomo e Se una vigna dai rispettivi incipit) di un centinaio di articoli ciascuna. I manoscritti più antichi sono caratterizzati dal ductus dell'antico regno e le leggi risalgono dunque al XVII sec. e sono di poco posteriori alle analoghe raccolte paleobabilonesi. A differenza di queste, però, mancano di prologo e di epilogo, e dunque della tipica cornice 'celebrativa', accentuando invece la funzionalità giudiziaria. Inoltre esse contengono al loro interno precise indicazioni di innovazione rispetto alla normativa tradizionale, del tipo: "Se qualcuno ferisce una persona alla testa, prima doveva dare 6 sicli d'argento: 3 sicli li prendeva il ferito e 3 sicli il palazzo. Ora il re ha abolito la quota del palazzo, soltanto il ferito prende 3 sicli". Esistono anche frammenti di una redazione un po' diversa da quella principale e probabilmente posteriore.
L'intervento regio nella codificazione è ancor più palese in numerosi testi di editti e di istruzioni (queste ultime specificamente indirizzate a membri dell'amministrazione palatina). Parallelamente emergono dai testi storici, dai trattati e dalle lettere numerose allusioni a consuetudini giuridiche e giudiziarie non conservate nel codice, ma considerate valide per tradizione. In questi casi, peraltro, la citazione di norme può essere finalizzata a scopi dialettici e manipolata a seconda della convenienza politica del momento. Per esempio, sul problema dell'estradizione dei rifugiati troviamo sia l'indicazione: "Estradare un rifugiato dal paese di Khatti non è giusto" (trattato di Targashnalli), sia quella opposta: "Forse che non è giusto estradare un rifugiato? Forse che abbiamo stabilito ai piedi del dio della tempesta qualcosa come "Un rifugiato non verrà mai estradato"?" (lettera di Milawata).
Tornando al codice di leggi, esso presenta il consueto ordinamento (comune a tutti i codici antico-orientali) per blocchi tematici collegati tra loro da associazione di idee:
Prima serie Se un uomo:
1-6: omicidi
7-18: ferimenti
19-24: sequestri di persona (e cattura di schiavi fuggitivi)
25-26: varie
27-36: dote e procedure matrimoniali
37-38: omicidi legittimi
39-41, 46-56: prestazioni 'feudali' (ed esenzioni)
42-45: varie
57-71: abigeato (bovini, equini, ovini)
72-80: danneggiamenti provocati da animali
81-86: abigeato (suini)
87-90: danni da e su cani
91-92: abigeato (api)
93-98: furti
99-100: incendi dolosi.
Seconda serie Se una vigna:
101-104: furto di prodotti agricoli
105-110, 113: danneggiamento di proprietà agricole
111: sortilegio
112: lavoro agricolo di deportati
119-125: furti di ambito agricolo
126-144: furti e danneggiamenti
145-161: tabella di prezzi e salari
162-169: danneggiamenti a proprietà e confini
170-175: varie
176-186: tabella di prezzi
187-200: bestialità, incesti, levirato.
Certe collocazioni improprie si devono anche all'associazione di idee; per esempio, il levirato (ammesso) s'inserisce tra gli articoli relativi agli incesti (condannati) trattandosi di rapporti sessuali tra familiari, oppure l'art. 111 (figurine d'argilla plasmate a scopi magici) interrompe la serie dei furti sui beni agricoli, perché si allaccia al 110 (furto di argilla da una cava).
Nel complesso, la maggior parte delle tematiche riguarda l'ambito extrapalatino, delle comunità di villaggio o di piccolo centro, con le loro violenze e le conseguenti vendette e ritorsioni, tra le quali la giustizia regia cerca di mettere ordine stabilendo prezzi 'giusti', penalità certe, procedure. Il ricorso diretto al giudizio del re è raro e riguarda la possibile grazia per i delitti capitali. Da un testo di istruzioni per funzionari periferici (bēl madgalti "capo guarnigione") risulta la direttiva di attenersi alle norme locali, in particolare nell'applicazione o no della pena di morte.
5. I codici antico-testamentari
di Lester L. Grabbe
Tra la grande varietà di materiali compresi nell'Antico Testamento, quelli di carattere giuridico, vale a dire le leggi, sono spesso trascurati o considerati irrilevanti. In effetti, essi contengono numerose indicazioni concernenti l'etica, la morale e la pratica religiosa. Il Pentateuco è chiamato in ebraico Torah, che significa semplicemente 'insegnamento' ed è un concetto più ampio di quello di 'legge', sebbene le leggi facciano senza dubbio parte dell'insegnamento biblico.
Nella Bibbia sono presenti quattro principali codici di leggi, o grandi insiemi di materiale giuridico. Il primo è chiamato Codice dell'alleanza (Esodo, 20, 19-23, 33), ed è analogo al secondo codice di leggi attestato in Deuteronomio, 12-26. Oltre a questi due codici, molto materiale giuridico si trova anche nel Codice di santità (Levitico, 17-26) e, infine, i Dieci Comandamenti, o Decalogo, sono una raccolta coerente di leggi che si trova in due forme distinte (v. oltre). In numerosi altri passaggi biblici si trovano esempi di leggi, decisioni giuridiche, descrizioni di pratiche giudiziali e passi di diritto consuetudinario; queste attestazioni sono importanti poiché spesso differiscono in misura minore o maggiore dai codici giuridici, citati, in genere, come prova dell'esistenza del diritto nell'antico Israele.
Il Codice dell'alleanza
Questo codice è collocato nel quadro del patto che Dio stringe con il popolo di Israele sul monte Sinai, dopo la fuga dall'Egitto. Esso è preceduto, nella narrazione, dal Decalogo, a cui segue la stipulazione del patto, in quello che è chiamato, nel testo, Libro dell'alleanza (Esodo, 24, 4; 7), noto più generalmente col nome di Codice dell'alleanza. Queste sono le leggi che Israele decide di accettare nell'atto di stringere il patto con Yahweh e il loro contenuto è riassunto nella Tav. IV A.
Anche se nella Bibbia il Codice dell'alleanza è collocato all'epoca di Mosè, sarebbe difficile sostenere che questa raccolta di leggi, nella sua totalità, risalga a un'epoca così antica. Alcuni studiosi considerano, in effetti, il Codice dell'alleanza come un primo esempio di diritto israelitico, e si è persino sostenuto che esso sia precedente al periodo della monarchia. Anche se non vi è un sostanziale accordo sulla datazione del codice, pochi interpreti autorevoli collocherebbero questa raccolta di leggi, complessivamente, nell'VIII o all'inizio del VII sec., anche se è possibile che essa contenga materiali anteriori a questo periodo. Gli studiosi non concordano neppure sul modo in cui questa raccolta si è sviluppata; mentre alcuni sostengono che, nella sua forma attuale, essa rappresenti un insieme coerente, quali che siano le origini del materiale in essa contenuto, la maggioranza vi scorge, invece, un processo di sviluppo e successive redazioni, che hanno lasciato alcune incoerenze e interruzioni nel testo. Si è anche sostenuto che alcuni aspetti indichino un rifacimento di tipo deuteronomico, dovuto ai sacerdoti, ma è probabile che il Codice dell'alleanza, nel complesso, sia precedente al periodo in cui fu redatto il Deuteronomio.
Il Deuteronomio
Il Deuteronomio fu scritto, con grande probabilità, alla fine dell'VIII o all'inizio del VII secolo. Esso fu il fondamento delle riforme intraprese durante il regno di Giosia (II Re, 22, 1-22, 37), che regnò dal 640 al 609 ca. Sebbene Deuteronomio, 12-26 sia presentato come un discorso di Mosè, esso è composto da vari tipi di legislazioni (Tav. IV B).
Le relazioni fra il Deuteronomio e il Codice dell'alleanza sono state oggetto di un intenso dibattito. Sebbene un esiguo numero di studiosi ritenga che essi siano indipendenti, o che il Deuteronomio sia antecedente al Codice dell'alleanza, la teoria attualmente accettata dalla maggioranza è che i redattori di Deuteronomio, 12-26 conoscessero il Codice dell'alleanza, e che forse lo abbiano persino riscritto per adattarlo alla situazione del loro tempo. Le leggi del Deuteronomio corrispondono in genere a quelle del Codice dell'alleanza; tuttavia il primo presenta una caratteristica peculiare che è l'uso frequente di 'clausole di motivazione'. Deuteronomio, 16, 19, per esempio, che tratta della corruzione, spiega che non dovrebbe essere praticata perché "il regalo acceca gli occhi dei saggi e corrompe le parole dei giusti". In questo caso, anche la norma corrispondente del Codice dell'alleanza (Esodo, 23, 8) ha una clausola di motivazione, tuttavia la preponderanza di questo tipo di clausole nel Deuteronomio lo contraddistingue dalle altre raccolte giuridiche.
Il Codice di santità
Al Codice di santità, chiamato altrimenti H (Levitico, 17-26), sono usualmente attribuite caratteristiche peculiari, sebbene esso faccia parte del libro sacerdotale del Levitico (fonte P). Tale codice è generalmente considerato più antico del resto del Levitico; alcuni studiosi, però, hanno recentemente sostenuto il contrario, cioè che esso sia l'ultima sezione del libro a essere stata composta. È chiamato Codice di santità per il fatto che nel testo ricorre la frase "tu sarai santo, perché io, Yahweh, sono santo", seppure con qualche variazione. Il contenuto del testo è fondamentalmente quello riportato nella Tav. IV C.
Queste norme presentano numerosi punti di contatto con il Codice dell'alleanza e con il Deuteronomio, ma non sembrano essere state semplicemente estrapolate da questi ultimi. Le leggi sulle relazioni sessuali proibite (Levitico, 18) non hanno nessun riscontro con ciò che è contenuto nel Pentateuco. A differenza degli altri codici giuridici, il Codice di santità contiene anche numerose norme concernenti i sacerdoti (in particolare in Levitico, 21), il che suggerisce che siano state scritte da sacerdoti.
Il Decalogo
Il Decalogo è forse una delle sezioni più note dell'Antico Testamento e le leggi in esso contenute sono considerate generalmente come pronunciamenti etici. Tuttavia, bisogna tener presente in primo luogo, che alcuni numeri, come il decimo e il dodicesimo, sono molto importanti nel contesto del Vicino Oriente antico e sembrano essere stati usati in molte raccolte. Così, il Decalogo contenuto in Esodo, 20 e Deuteronomio, 5 è soltanto una delle numerose raccolte che esistevano nell'Antichità. A dimostrazione di questo fatto si può citare il 'decalogo cultuale' (Esodo, 23, 10-19; 34, 11-26), composto anch'esso da dieci comandamenti (ibidem, 34, 28), che tratta in parte di argomenti concernenti il culto. È stato suggerito, in riferimento a due delle fonti del Pentateuco, che il 'decalogo etico' di Esodo, 20, 1-14 sia il decalogo elohista, e che il 'decalogo cultuale' sia quello yahwista, sebbene alcuni abbiano considerato il primo come deuteronomico, in parte o per intero. Vi sono anche altri passaggi che per molti aspetti si rapportano al Decalogo: Levitico, 19, 1-18, per esempio, contiene numerosi comandamenti in comune con esso, mentre Deuteronomio, 27, 15-26 contiene alcuni passaggi analoghi al Decalogo, espressi sotto forma di maledizioni.
Inoltre, il significato esatto dei dieci comandamenti è oggetto di discussione, ed è stato spesso sostenuto che il loro significato originario fosse, in alcuni casi, assai differente da quello che è attribuito loro in ambito moderno. Il comandamento che proibisce il furto, per esempio, è stato interpretato da alcuni studiosi come un comandamento contro il furto di una persona, ossia contro il rapimento. Analogamente, è difficile comprendere come potesse essere applicata una legge che proibisce l'atto mentale della concupiscenza; d'altra parte, il testo ebraico potrebbe riferirsi non al solo desiderio, ma all'atto di prendere ciò che non appartiene a colui che compie tale atto (Deuteronomio, 7, 25; Giosia, 7, 21; Michea, 2, 2).
Le tradizioni giuridiche nella società
Le leggi scritte non rispecchiano necessariamente quelle utilizzate nella pratica dei procedimenti giudiziari. Non sempre si comprende questa distinzione, e il materiale giuridico rinvenuto nei testi è interpretato come se fosse una descrizione realistica del diritto e della giustizia effettivamente applicata nella società reale. L'Antico Testamento ha avuto una lunga storia, è stato tramandato attraverso molte generazioni e rielaborato da una serie di scribi e di redattori. Quel che ora è scritto nel testo biblico è ciò che alcuni redattori volevano che vi fosse scritto, e che la comunità, o alcune parti di essa, volevano conservare. La Bibbia è una raffigurazione teologica, che presenta leggi idealizzate e una società costruita ideologicamente. Nell'analisi del materiale giuridico biblico bisogna quindi porsi il problema dell'effettiva corrispondenza di questa raffigurazione con la pratica e la tradizione giuridica che erano riconosciute e applicate nell'antico Israele, considerato nel suo complesso.
Alcuni studiosi hanno avanzato l'ipotesi che nell'antico Israele i Dieci Comandamenti avessero la funzione di legge codificata. Questo punto di vista, che assegna una posizione a sé stante al Decalogo, sembra plausibile per il fatto che quest'ultimo, insieme al Codice dell'alleanza, è collocato in modo tale da poter essere consultato facilmente dai giudici nell'atto di svolgere la loro funzione. Tuttavia, i codici giuridici della Bibbia non sono citati in nessun'altra parte della Bibbia stessa come autorità giuridica, e non vi è nulla che dimostri che essi servissero ai giudici come fonte di riferimento. Comunque, se pure tali codici avevano lo stesso ruolo giuridico di quelli attuali, non abbiamo documentazione sufficiente per suffragare questa ipotesi. In questo senso, probabilmente il diritto in Israele non differiva dal diritto in Anatolia o in Mesopotamia; anche per queste aree, infatti, sono documentati vari codici, il Codice di Hammurabi, le Leggi hittite e altri ancora (v. par. 3), eppure, nelle numerose decisioni legali presenti nei documenti cuneiformi, i codici giuridici non sono mai citati, né come precedenti né come fonte di autorità.
Per esempio, per quanto riguarda l'adulterio, la pena prevista è la morte, senza eccezioni (Esodo, 20, 13; Deuteronomio, 5, 17; 22, 22). Eppure, se si considerano altre fonti, si riscontrano casi di adulterio senza che sia applicata la pena capitale. L'adulterio di David con Betsabea è considerato un'azione malvagia, specialmente alla luce del modo in cui, in conseguenza di esso, è trattato Uria l'hittita; tuttavia il profeta inviato a David non parla di una legge contro l'adulterio, né della pena di morte come punizione (II Samuele, 11, 1-12, 25). In Proverbi, 6, 24-35 si dice che l'uomo saggio dovrebbe evitare l'adulterio, poiché esso potrebbe portare a conseguenze spiacevoli causate dalla rabbia del marito ingannato.
Molti studiosi moderni ritengono che i codici giuridici potessero avere altre funzioni. Innanzitutto, essi esemplificavano le necessità di compilazione e sistematizzazione degli scribi. Sembra che i codici giuridici della Mesopotamia, redatti nel nome di sovrani particolari, come Hammurabi o Ur-Nammu, siano stati compilati dagli scribi, attingendo a varie tradizioni giuridiche e a codici di leggi antecedenti, ai quali il re dava semplicemente l'approvazione finale. Bisogna notare, per inciso, che si ha notizia soltanto di pochi re mesopotamici che sapessero scrivere; la maggior parte del lavoro di scrittura e di lettura era infatti compiuto dagli scribi professionisti.
Ciò non significa che i codici di leggi fossero completamente separati dalla reale situazione della società del tempo. Il loro contenuto corrisponde alle effettive decisioni legali, il che indica che coloro che li compilavano conoscevano bene la pratica giudiziale generalmente applicata nelle corti. Tuttavia, anche i codici giuridici presentano divergenze significative; questo suggerisce che essi non potessero rivestire la funzione di libri statutari poiché molti ambiti legali non vi erano contemplati.
Il diritto ebraico presenta molti elementi in comune con il resto del Vicino Oriente antico: i codici giuridici presenti nel testo biblico sono simili, a prima vista, a quelli di Lipit-Ishtar o di Hammurabi. Tuttavia, fra i codici biblici e quelli della Mesopotamia e dell'Anatolia vi è una differenza importante: le parti della Bibbia dedicate al diritto contengono anche norme che regolano il culto, mentre altrove tali norme sono incluse in testi separati e non sono mescolate al materiale di tipo giudiziale. I codici giuridici della Bibbia non distinguono fra ciò che in ambito moderno si definirebbe legge religiosa, legge civile e legge morale: tutte e tre sono collocate allo stesso livello di importanza. Una caratteristica peculiare del diritto biblico è che le leggi sono sanzionate da Dio, che ne è considerato l'autore.
Lo studioso Albrecht Alt ha osservato che il diritto biblico è composto da due principali forme giuridiche: il diritto casistico, contrapposto al diritto apodittico. Il primo è il normale diritto contenuto nella maggior parte dei codici giuridici, nel quale si assume un caso particolare: 'se succede la tale cosa, bisogna fare così'. Le leggi come i Dieci comandamenti sono invece formulate come ordini o divieti: 'fai questo', o 'non fare quest'altro'. La distinzione proposta da Alt è ancora ampiamente accettata, sebbene con critiche e precisazioni; tuttavia la conclusione secondo la quale la legge apodittica era una caratteristica peculiare di Israele non resiste al vaglio della critica. In alcuni passi dei grandi codici giuridici della Mesopotamia e delle leggi hittite è possibile trovare esempi di formulazioni apodittiche, e spesso sono stati fatti paragoni con il Libro dei morti 125 egizio. Ciononostante, la gran quantità di formulazioni apodittiche presenti nei codici biblici li contraddistingue dagli altri codici giuridici.
Lo studio del diritto antico presenta i suoi problemi specifici e deve essere compreso nel suo contesto. La legislazione sulla violenza sessuale, per esempio (Esodo, 22, 15-16; Deuteronomio, 22, 28), stabilisce che se un uomo ha un rapporto sessuale con una donna vergine non fidanzata, egli è obbligato a sposarla e a pagare una dote per la sposa. La situazione nella quale una donna che subisce violenza sia obbligata a sposare il suo stupratore potrebbe sembrare ingiusta. Tuttavia, bisogna prendere in considerazione numerosi aspetti: in primo luogo, la legge non si riferisce necessariamente a una situazione di stupro, poiché essa non accenna al consenso della donna. Il punto è che agli occhi della legge di quel tempo il suo consenso è irrilevante. In secondo luogo, in un contesto del genere l'uomo non è uno straniero senza volto, ma è probabilmente conosciuto nell'ambito della comunità, se non dalla donna stessa. In terzo luogo, il fatto che la donna non sia più vergine le renderebbe difficile trovare uno sposo. Perciò, la legge è concepita per proteggerla, poiché l'uomo è obbligato a sposarla, e non gli è neanche concesso di divorziare. Infine, il padre della ragazza può sollevare l'uomo dall'obbligo di sposare la figlia qualora ritenga che egli non sia adatto per lei. In fondo, perciò, questa legge cerca di volgere al meglio una situazione negativa.
La lex talionis ('legge del taglione'), ossia il principio secondo il quale le ferite devono essere compensate infliggendo una ferita corrispondente a colui che ha provocato il danno, spesso non è stata compresa nel suo senso esatto. Si tratta della legge dell''occhio per occhio, dente per dente', che è stata sovente presentata come una pratica barbara e primitiva e che aveva creato imbarazzo nei legislatori posteriori, spingendoli a fare tutto il possibile per mitigarla. In effetti, in origine il principio era il seguente: se una persona ferisce un'altra persona deve pagare un risarcimento. Nei primi codici giuridici della Mesopotamia, per esempio, sono previsti risarcimenti in denaro (Codice di Eshnunna, 42-47; Codice di Ur-Nammu, 15-19). Nel caso di una famiglia estesa o di una comunità, questo era il modo più semplice di regolare le lesioni nell'ambito della comunità stessa. La parte lesa riceveva qualche tipo di beneficio, o quantomeno il beneficio andava alla sua famiglia. D'altra parte, i codici giuridici più tardi (per es. il Codice di Hammurabi, 195-223) invocano la lex talionis, ma soltanto per coloro che sono di uguale rango sociale, sebbene sia previsto un risarcimento pecuniario per le ferite inferte a una persona di rango inferiore. La lex talionis rappresentò un importante passo avanti nell'ambito della giurisprudenza per due motivi. In primo luogo, essa rendeva tutti uguali di fronte alla legge: un uomo ricco non poteva eludere il crimine di aver ferito un'altra persona con un risarcimento pecuniario. Il principio dell''occhio per occhio' svolgeva una forte funzione di livellamento. In secondo luogo, la lex talionis segna la fase in cui la tribù o lo Stato assumono dalla comunità locale la funzione di amministrare la giustizia.
È evidente che le leggi della Bibbia hanno molti tratti in comune con quelle dei popoli confinanti. Ovviamente, vi sono alcune differenze, che in gran parte non sono di natura diversa rispetto a quelle che si riscontrano fra gli altri codici giuridici; ci si può quindi chiedere se vi siano in effetti differenze significative. Per esempio, si è sostenuto che tutti i codici giuridici del Vicino Oriente prevedessero la pena di morte in caso di furto, fatta eccezione per Israele. Questa affermazione, però, non ha retto il vaglio della critica. Si potrebbe tuttavia suggerire, usando una certa cautela, che sotto i seguenti aspetti, le leggi della Bibbia rappresentino un progresso, almeno sotto il profilo teorico (perché in effetti nella pratica, come abbiamo notato sopra, le cose potevano essere differenti), rispetto a quelle che fino a ora conosciamo in Mesopotamia e in Asia Minore:
a) Dio è considerato il legislatore e questo introduce nelle leggi una dimensione religiosa, etica e spirituale;
b) si constata una maggiore preoccupazione per il trattamento e il benessere degli schiavi;
c) i codici giuridici dell'Antico Testamento non prevedono punizioni sostitutive;
d) la lex talionis rende tutti eguali, non assegnando privilegi a seconda del censo o del rango sociale;
e) i Dieci Comandamenti hanno avuto un'influenza cruciale nella storia della civiltà occidentale, sebbene ciò possa essere in parte dovuto a una successiva reinterpretazione del loro intento originale.
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