DE GRAZIA, Vincenzo
Nacque a Mesoraca (prov. di Catanzaro) il 19 febbr. 1785, da Marco e Laura Brondolillo. A cinque anni fu mandato a Napoli a studiare nel collegio reale di S. Carlo alle Mortelle, tenuto dai padri teatini, dove il D. rimase per la sua istruzione fino alla prima gioventù. Frequentò successivamente le scuole della Reale Accademia militare dedicandosi all'approfondimento degli studi di matematica e acquisendo così la qualifica di ingegnere.
Nel 1811 il D. fu allievo sottotenente del genio a Gaeta e, con decreto reale del 29 agosto del medesimo anno, fu nominato aspirante ingegnere di ponti e strade. L'anno successivo fu promosso ingegnere ordinario di seconda classe e in tale qualifica diresse vari lavori pubblici in Terra d'Otranto e, presumibilmente, anche altrove. Nel 1821 il D. ottenne la promozione ad ingegnere di prima classe e nel 1824 gli fu affidata, pare con esito non del tutto soddisfacente, la costruzione del ponte sul fiume Crati. Poco dopo questa data, si stabilì a Catanzaro, dove fra il 1832 e il 1834, in qualità di ingegnere, ebbe l'incarico di dirigere la costruzione del teatro cittadino e quella di altre opere civiche di minore importanza, anche se la sua principale attività divennero in questo periodo gli studi filosofici, nei confronti dei quali aveva mostrato particolare attitudine e una grande passione sin dalla prima giovinezza. Fu proprio in seguito a tale interesse speculativo che il D. iniziò nel 1839 la pubblicazione della sua opera maggiore, il Saggio su la realtà della scienza umana.
Nel 1848 il D. fu eletto deputato nel Parlamento napoletano per la provincia di Catanzaro, episodio certo significativo ma senza alcuna conseguenza importante nella sua vita, pur avendo ottenuto oltre 5.000 voti ed essendo risultato terzo tra i nove deputati della circoscrizione. Dopo questa breve parentesi di carattere politico, il D. tornò con rinnovato impegno all'attività filosofica, trascorrendo gli ultimi anni della sua esistenza lontano da ogni occupazione politica e professionale.
Fu socio della Società economica della Calabria dal 1839; fu aggregato, inoltre, tra i soci corrispondenti dalla R. Accademia dei Peloritani (1842) e dall'Accademia Pontaniana (dopo il 1844); fu anche incluso tra gli onorari dell'Accademia dei Valentini (1842) e della R. Società economica della provincia di Cosenza (1853).
Il D. è da annoverarsi tra i critici originali ed attenti della filosofia kantiana mediata dalla interpretazione che ne aveva data il filosofo calabrese Pasquale Galluppi. Egli fece consistere il kantismo come teoria della conoscenza nell'applicazione di elementi soggettivi aprioristici alle sensazioni, per cui anche il Galluppi era da lui ritenuto un critico fedele e autentico del pensiero kantiano.
Il D., tuttavia, mosse severe critiche a tale indirizzo speculativo e dette una diversa interpretazione del processo gnoseologico affermando che la sensazione fornisce i dati primitivi, mentre la facoltà del giudizio scopre in essi i rapporti e non li pone come propria creazione, evitando così di cadere in una forma di idealismo assoluto. Il D., dunque, ammette con Kant che il fenomeno conoscitivo è la risultante e la sintesi di sensazioni e giudizi, ma ritiene decisamente che giudicare è semplicemente osservare e non aggiungere arbitrariamente qualcosa. Se gli oggetti entrano in contatto con noi dal mondo esterno, lo spirito scopre in essi e non crea i rapporti ideali che sono già preesistenti nel mondo esterno e la veduta è pura, come commenta il Fiorentino, critico e biografo del D., quando si osserva nell'oggetto, non già quando si aggiunge dal soggetto. Fu proprio questa posizione che fece ritenere ad alcuni interpreti che il D. potesse essere considerato in Italia un antesignano delle concezioni positivistiche. Il D. considera ugualmente oggettive sia le idee generali contingenti sia le idee generali necessarie; anche le idee generali di relazione sono oggettive, insite in più soggetti da cui le estrae la nostra mente. Il D. combatté filosoficamente l'apriorismo gnoseologico e specificamente il Galluppi, che aveva sostenuto la soggettività dei rapporti concettuali nella teoria della conoscenza, considerando questa dottrina come idealistica e non filosofia dell'esperienza. Quindi, in opposizione anche con un filosofo contemporaneo, Ottavio Colecchi, interprete del kantismo, che aveva difeso il carattere esclusivamente ideale della sintesi conoscitiva, il D. ne rivendicò fondamentalmente quello reale. Da ciò il ritorno ad una dottrina gnoseologica eminentemente realistica che ben corrispondeva culturalmente alla forma mentis del D., formatosi attraverso lo studio approfondito delle scienze matematiche e naturali. Si comprende quindi ancora di più come la sua speculazione, che si compendia nella parola "osservare", possa essere stata paragonata a quella dei positivisti che in quegli anni già cominciavano a diffondersi in Francia, Inghilterra ed Italia.
Nel Saggio filosofico su la realtà della scienza umana, considerata unanimemente la sua opera più importante, il D. criticò apertamente il kantismo e la filosofia dell'esperienza elaborata da P. Galluppi. Il Saggio si risolve sostanzialmente nel tentativo di prospettare un "metodo" filosofico, più secondo il senso letterale dato al termine da Bacone e da Cartesio, che secondo una vera e propria filosofia. A questa considerazione propedeutica il D. era indotto dalla sua preparazione tecnica, prevalentemente matematica, e dalla sua mentalità di ricercatore che tendeva, spontaneamente, alla cosiddetta dimostrazione scientifica nell'intento di risalire alla "genealogia" del pensiero.
Il filosofo su cui più rifletté il D. è, come già detto, il Galluppi, circoscrivendo il suo interesse speculativo al problema conoscitivo e metodologico, senza attuare ciò che si riprometteva, cioè lo sviluppo concreto dei grandi problemi del pensiero. Per il D. la scienza è scienza della natura ivi compreso l'uomo. Essa si prepara attraverso l'esperienza, eliminando ogni considerazione metafisica, ossia attraverso l'osservazione dei fenomeni esterni, interni, della coscienza, costituendosi mediante la classificazione dei fenomeni. Quanto più questa riduzione della realtà a fenomeno avanza, tanto più progredisce la scienza, la quale così limita l'"ignoto". Le due "supreme classi" del corporeo e del pensiero determinano la divisione della scienza in fisica e in psicologia. "Fenomeni primitivi" del pensiero sono la sensazione, il giudizio e il volere. Su questi fondamenti nascono l'estetica, la logica e l'etica. Empirismo, razionalismo e criticismo risolvono variamente il problema e il D., pur assumendo elementi dai primi due, rifiuta il criticismo kantiano ritenendo che l'apriorismo delle categorie renda impossibile la costituzione della scienza. Secondo il D. nulla era stato opposto di seriamente valido a Kant, il quale però era rimasto impigliato nella difficoltà del mondo oggettivo. E, ritenendo di superare l'ostacolo, il D. pone il problema in modo diverso, limitando cioè drasticamente la creatività del soggetto umano. Per il D. è dunque vera scienza quella che riproduce la "realtà", lo spirito intervenendo su di essa, ma senza che vi aggiunga nulla di suo, tranne quel momento "obiettivo". Lo spirito osserva, pone mediante la percezione in rapporto le idee che l'osservazione, che ha per fonte sempre la sensazione, il fenomeno, fa nascere e giudica con piena aderenza al reale. Assoluta è la sua fiducia nella attività osservativa della mente a contatto con il mondo, tale cioè da farle costruire il reale mediante i processi concreti del giudizio e della classificazione, che attraverso l'astrazione riduce e finalmente unifica. Del potere della astrazione, tuttavia, il D. ha un concetto limitativo diffidando della sua attitudine ad un adeguato intervento che può condurre a conclusioni affrettate. L'organo della scienza non è dunque in un astrarre senza provato fondamento, ma nel più preciso ridurre il molteplice al generale fino all'unità. E il metodo filosofico fecondo e sicuro non solo non è il deduttivo, ma questo rischia di muoversi nel vuoto illudendo chi lo adopera di fare la scienza del reale senza reale contenuto, anzi rischiando di ripetere ciò che le "vedute astratte" determinarono dall'antichità in poi. Il metodo filosofico più aderente al reale è, secondo il D., quello della induzione che convalida anche la veduta osservativo-obiettiva della mente umana. Giusta è per il D. la distinzione leibniziana fra verità di ragione e verità di fatto unitamente all'esperienza baconiana e con quanto scienza e filosofia hanno compiuto per perfezionare l'induzione. L'aspetto negativo di Galluppi consiste proprio nell'accogliere le istanze critiche o scettiche che il pensiero, moderno ha sostenuto contro l'evidenza di fatto e di ragione per pretendere poi di fondarsi sulla sensazione e superarla dall'interno analiticamente. Passività e attività del soggetto implicano dunque per il D. il riferimento alla volontà, implicano cioè una duplice distinzione che può aversi solo nel giudizio su un piano eterogeneo rispetto a quello del puro sentire. È impossibile pertanto trascendere la sensazione dall'interno come d'altronde partendo da una ragione astratta ricongiungersi con la concretezza della sensazione. Se la filosofia dell'esperienza di Galluppi fallisce nel suo obiettivo di ricavare dall'esperienza stessa il metempirico, la filosofia di Rosmini, chiusa nell'idea dell'essere, lascia aperto e incolmabile lo iato fra sensibile e intelligibile. Proprio qui sta infatti per il D. il nodo teoretico della questione. Egli pone anzitutto l'evidenza del "fatto di coscienza", cioè la credenza che in virtù del "metodo genealogico" assunto nella accezione di Pasquale Borrelli, risale fino alla origine della verità, che possediamo, fino ai principî primi e diviene con ciò "evidenza".
Il D. morì a Napoli, dove da poco si era trasferito, il 20 nov. del 1856.
Opere principali: Saggio su la realtà della scienza umana, I-V, Napoli 1839-49; Discorsi su la logica di Hegel e su la filosofia speculativa, Napoli 1850; Prospetto di filosofia ortodossa, Napoli 1851; Esame de' più recenti sistemi in ordine alla questione fondamentale della filosofia, in Il Progresso, ad annos 1844, 1845, 1846.
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