Gioberti, Vincenzo
Filosofo e uomo politico, nato a Torino nel 1801 e morto a Parigi nel 1852. Da poco ordinato sacerdote, nel 1825 G. implorava papa Pio VII di concedergli «la facoltà di poter leggere e ritenere presso di sé i libri proibiti» (Epistolario, a cura di G. Gentile, G. Balsamo-Crivelli, 1° vol., 1927, p. 9): ma la licenza, concessa il 23 ottobre, escludeva tutte le opere di M., insieme a quelle di altri autori, come Lucrezio e Pierre Bayle, considerati contrari alla religione cattolica. Solo nel marzo del 1827, dopo avere reiterato la supplica al nuovo papa Leone XII, ottenne il permesso anche per M., con restrizioni che ora riguardavano, tra l’altro, gli scritti di Jeremy Bentham e di Pietro Verri (p. 10). Dal catalogo della biblioteca privata, risulta però che G. possedeva, già in quel periodo, le edizioni dei Discorsi e delle Istorie fiorentine pubblicate da Nicolò Bettoni, nonché i dieci volumi delle Opere edite, a partire dal 1804, dalla Società tipografica de’ classici italiani di Milano. Soltanto più tardi, nel periodo dell’esilio, acquisì gli otto volumi delle Opere nell’edizione Italia, nonché l’edizione del Principe e dei Discorsi pubblicata nel 1848 dalla Nuova Italia e contenente le considerazioni introduttive di Andrea Zambelli.
Nei pensieri giovanili, G. annoverava M., insieme a Dante e a Giambattista Vico, tra i soli «filosofi maggiori» che potessero contrapporsi ai pensatori antichi e moderni delle altre nazioni (Meditazioni filosofiche inedite, a cura di E. Solmi, 1909, p. 40); anche se, in un altro frammento, non lo considerava, al pari degli altri due, tra i suoi «autori prediletti» (p. 31). Questa ambivalenza nel giudizio attraversa i numerosi riferimenti che accompagnarono la prima lettura delle opere di Machiavelli. In particolare, G. scorgeva in M. una mancanza di senso morale che lo accomunava a Thomas Hobbes (Pensieri di Vincenzo Gioberti. Miscellanee, 2° vol., 1860, p. 462), e additava nell’«orribile sistema» del «machiavellismo» il peccato capitale degli «amici del dispotismo», come Jacques Bénigne Bossuet e Joseph de Maistre, capace di condurre all’abuso della religione cattolica per giustificare le ingiustizie storiche e sociali (p. 409). Con riferimento al Principe, scriveva: «le nazioni d’Europa sono convenute nel caricar d’infamia il suo nome, e le lingue derivano da esso dei sinonimi dell’arti inique» (p. 255). In altri luoghi, cercava tuttavia di scrutare tale immoralismo, offrendone un’interpretazione più articolata. In tre note dedicate al pensiero di M. osservava che, a differenza di Hobbes, «l’immoralità del M. non è un sistema chiaro» (Scritti scelti, a cura di A. Guzzo, 1966, p. 395), ma il risultato di «un’involontaria adozione» dell’egoismo nella sfera psicologica e storiografica, dovuto a una scarsa tendenza alla speculazione. Perciò M., «l’intelletto più profondo del Cinquecento» (p. 399), considerava la vita morale come «un’opera d’arte», non arrivando a odiare il vizio, ma soltanto «la mediocrità del vizio», cioè l’incertezza e le mezze misure.
Fin dai frammenti giovanili, l’attenzione di G. era attratta dal significato speculativo della sentenza di M., in Discorsi III i, secondo cui, «a volere che una sètta o una republica viva lungamente, è necessario ritirarla spesso verso il suo principio». Anche il riferimento che M. aveva fatto allo «esemplo della nostra religione», che «se non fossi stata ritirata verso il suo principio da Santo Francesco e da Santo Domenico sarebbe al tutto spenta» (Discorsi III xxxii), acquistò un particolare rilievo, capace di mostrare che il «principio di Machiavelli non solo è vero in politica, ma eziandio in filosofia, soprattutto in morale» (Pensieri di Vincenzo Gioberti. Miscellanee, cit., p. 205). Nelle prime note che, tra il 1818 e il 1825, dedicò a questo aspetto, G. si adoperò a specificare la natura del «principio», includendovi l’intero sviluppo progressivo e distinguendolo, così, dalla semplice idea dell’«infanzia d’una nazione»: per «principio», spiegava, occorre intendere «la forma legittima e fondamentale del governo e del suo perfezionamento» (1° vol., 1859, p. 356). Altrove, discutendo le tesi di Karl Ludwig von Haller, ribadiva che, per «riordinare un istituto, bisogna ristaurare i principi, ma con tutto quel miglioramento però che il processo de’ tempi ha potuto arrecare» (Meditazioni filosofiche inedite, cit., p. 147). La lettura di questo passo dei Discorsi divenne tanto più intensa e decisiva quanto più G. elaborò i concetti fondamentali della sua filosofia. Nell’Introduzione allo studio della filosofia, alla luce della dottrina protologica della «formola ideale» – per cui l’Ente crea gli esistenti e questi tornano nell’Ente –, la sentenza di M. arrivava a esprimere il senso del secondo ciclo, «divino e umano insieme» (Introduzione allo studio della filosofia, 3° vol., 1846, p. 29), dove le creature ritornano nel principio creante e la riflessione ripete e riconquista la notizia originale dell’intuito. Nei frammenti postumi sulla Riforma cattolica, G. chiariva il risultato della lunga meditazione sull’«apoftegma» di M., che, scriveva, «è vero e falso, secondo s’intende»: la sua verità era ormai iscritta nell’orizzonte della «formola ideale», per la quale «il principio e il fine sono sostanzialmente identici», e differiscono soltanto perché «l’uno è potenza, l’altro atto, l’uno è inizio e l’altro è compimento» (Riforma cattolica e libertà cattolica, a cura di E. Pignoloni, 1969, p. 59).
I riferimenti di G. a M. si intensificarono con la pubblicazione a Bruxelles, nel 1843, dell’opera Del primato morale e civile degli Italiani. L’appello a Carlo Alberto, affinché il Piemonte assumesse la guida del processo di indipendenza, intendeva riproporre quello del xxvi capitolo del Principe, la cui celebre chiusa veniva interamente riprodotta nella conclusione del secondo capitolo della prima parte, Dell’unione italiana (Del primato morale e civile degli Italiani, a cura di G. Balsamo Crivelli, 1° vol., 1919, p. 141). L’idea del principe italiano, spiegava, «fu già delineata dai nostri grandi scrittori, e sovrattutto dal Machiavelli» (Prolegomeni del primato morale e civile degli Italiani, 1845, a cura di G. Balsamo Crivelli, 2° vol., 1926, p. 106); e «l’idea dell’unità italiana lampeggia vivissima nelle opere del Segretario» (Del primato morale e civile degli Italiani, cit., p. 183). Tuttavia, se la figura di M. assumeva questo ruolo centrale nell’elaborazione della dottrina del primato italiano, G. continuava a condannarne gli errori teorici, anzi tutto perché «non seppe avvertire la grandezza ideale, né gli uffici civili del Cristianesimo» (p. 68). In un passaggio saliente dell’opera, inteso a dimostrare l’idea guelfa, per cui «il principio cattolico è inseparabile dal genio nazionale d’Italia», riportava il pensiero di M. alla falsa opinione dei ghibellini, i quali, scriveva, «s’accordano nel riputare il Papa per un fuordopera della civiltà italiana, anzi per un impedimento, per non dire un flagello» (p. 52). L’ideologia ghibellina (che già aveva nutrito «l’eroico sogno di Dante»), abbagliata dallo splendore dell’antichità romana, poggiava, d’altronde, sull’«eresia filosofica e religiosa dei nominalisti», seguaci del «regno delle astrazioni» e delle «astruserie dell’intelletto»: un nominalismo filosofico, dunque, da cui discendeva un nominalismo politico, secondo la linea inaugurata da Arnaldo da Brescia («il Cartesio del medio evo», come lo aveva definito Victor Cousin), nella quale si scorgeva «l’idea ghibellina di costituire l’Italia fuori degli ordini del Cristianesimo» (p. 54).
Il giudizio di G. sull’opera di M. mutò, a tratti in modo sostanziale, dopo il 1845, nel periodo della dura controversia con i gesuiti. Pur confermando l’idea che «in una parte soltanto M. non fu moderno, cioè nella religione» (Il gesuita moderno, 2° vol., 1846, p. 601), perveniva a un recupero della grandezza di M. (come, d’altronde, di Paolo Sarpi, in precedenza ascritto alla scuola del «nominalismo politico»). Di fronte al metodo dei gesuiti e alla loro «scienza profana», causa di uno «scisma innaturale e sofistico» tra il «bello antico» e il «vero moderno» (p. 591), il genio di M., insieme a quello di Dante, rifulgeva come modello di una perfetta sintesi di antico e moderno, di pensiero e azione, capace di portare «nelle investigazioni civili quello stesso metodo che Galileo adoperò nelle naturali» (p. 599). La famosa lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513, largamente citata, diventava il simbolo di una cultura davvero moderna e progressiva, radicalmente avversa alle deformazioni della mentalità gesuitica. In una lunga nota, tornava sul giudizio che Carlo Botta, nella prefazione alla Storia d’Italia continuata da quella del Guicciardini, aveva dato dell’immoralismo di M., negando che il pensiero del Segretario fiorentino potesse ridursi all’utilitarismo di Claude-Adrien Helvétius e sottolineava come la sentenza per cui «il fine giustifica i mezzi» fosse piuttosto un «pronunziato gesuitico» (p. 601).
Superate le illusioni del Primato, la centralità di M. emerse in piena luce nel libro Del rinnovamento civile d’Italia, pubblicato sul finire del 1851. L’autore del Principe vi era celebrato come «il Galileo della politica», come colui che aveva portato nel pensiero politico «l’esperienza fecondata e ampliata dall’induzione e dal raziocinio» (Del rinnovamento civile d’Italia, a cura di F. Nicolini, 3° vol., 1912, p. 84); e, soprattutto, come il perfezionatore di quell’idea nazionale che aveva trovato nell’opera di Dante il suo principio. Attraverso la critica del potere temporale della Chiesa, G. recuperava anche l’analisi di M. sulle ragioni della decadenza italiana, pur sottolineando che, là dove Dante, «esautorando il re sacerdote», rimase «devotissimo al pontefice», M. si scostò dalla sua «moderanza» per lo scarso rispetto che nutrì verso le credenze religiose. Perciò, insieme ai nomi di Dante e di Paolo Sarpi, M. entrava a far parte del «triumvirato più insigne della scuola patria» (p. 86), una scuola politica «progenitrice di tutte le altre scuole che sorsero di mano in mano e oggi fioriscono nelle varie parti di Europa» (p. 87); e G. indicava in una «seconda fondazione» (p. 88) di questa linea di pensiero il compito specifico del «rinnovamento civile d’Italia», inteso ormai come «il compimento della modernità» (p. 91).
Bibliografia: Introduzione allo studio della filosofia, 3 voll., Bruxelles 1840, 4 voll., 1844 (rist., 3 voll., Capolago 1846); Del primato morale e civile degli Italiani, 2 voll., Bruxelles 1843, Napoli 18484; Prolegomeni del primato morale e civile degli Italiani, Bruxelles 1845; Il gesuita moderno, 5 voll., Losanna 1846-1847, 6 voll., Vigevano 18482; Del rinnovamento civile d’Italia, 2 voll., Torino-Paris 1851; Pensieri di Vincenzo Gioberti. Miscellanee, 2 voll., Napoli 1859-1860; Meditazioni filosofiche inedite, a cura di E. Solmi, Firenze 1909; I frammenti Della riforma cattolica e Della libertà cattolica, a cura di G. Balsamo Crivelli, Firenze 1924; Epistolario, Edizione nazionale a cura di G. Gentile, G. Balsamo Crivelli, 11 voll., Firenze 1927-1937.
Per gli studi critici si vedano: A. Anzilotti, Gioberti, Firenze 1931; M. Mustè, La scienza ideale. Filosofia e politica in Vincenzo Gioberti, Soveria Mannelli 2000.