Abstract
Il presente contributo, in tema di delitti contro la pubblica amministrazione, analizza la fattispecie delittuosa della violazione dei sigilli prevista dall'art. 349 c.p. L'analisi ha ad oggetto l'illustrazione della struttura del reato attraverso i suoi elementi costitutivi tipici.
Il delitto di violazione dei sigilli, disciplinato dall’art. 349 c.p., è un reato dalla storia recente, che è stato enfatizzato nei moderni ordinamenti proporzionalmente alla necessità di garantire e tutelare l’attività della Pubblica Amministrazione.
Non può tacersi, tuttavia, che già in epoca romana, pur in assenza di una specifico crimine, la violazione dei sigilli veniva in evidenza in occasione di taluni episodi concreti: la storia consegna, tra gli altri, il noto episodio della violazione dei sigilli apposti da Cicerone, nel corso delle indagini nei confronti di Verre per crimen repetundarum (Cicerone, Le Verrine, 4, 66), sulle res sequestrate in Sicilia.
Il codice Rocco, in buona sostanza, ha riprodotto la configurazione del delitto già propria del codice Zanardelli.
Se l’art. 201 puniva «chiunque viola in qualsiasi modo i sigilli, per disposizione della legge o per ordine dell’Autorità apposti ad assicurare la conservazione o la identità di una cosa», non ci si può esimere dal porre attenzione alla lettera della norma che colora la condotta a forma libera del reato mediante l’espressione «in qualsiasi modo».
Questa locuzione, invero, non è stata riproposta nel testo dell’attuale art. 349 c.p. in quanto ritenuta pleonastica: il legislatore del 1930, infatti, spiegava che «quando il modo e i mezzi non sono espressamente indicati», come nella fattispecie de quo, «si deve intendere che il fatto può commettersi in qualsiasi modo» (Relazione del Guardasigilli sul progetto definitivo del codice penale, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, V, Roma, 1929, 122 e 133).
L’art. 201, co. 2, prevedeva, altresì, una circostanza aggravante «se il colpevole sia l’ufficiale pubblico che ha ordinato o eseguito l’apposizione dei sigilli, o colui che ha in custodia o consegna la cosa assicurata coi medesimi».
Il delitto di violazione di sigilli, nella sua attuale formulazione, tutela, senz’ombra di dubbio, il buon andamento della Pubblica Amministrazione previsto dall’art. 97 Cost.
Viene protetta, per precisione, la funzione della p.a. deputata ad apporre un vincolo giuridico di indisponibilità sulla res, con sguardo particolare all’interesse per il rispetto dovuto alla speciale custodia simbolicamente impressa, sulle cose mobili o immobili, dai sigilli più disparati.
Mediante l’apposizione di sigilli, infatti, si manifesta la volontà dello Stato, o di altro ente pubblico, di assicurare i beni da ogni atto di disposizione o di manomissione da parte di persone non autorizzate e, dunque, da ogni attentato alla loro conservazione o alla loro identità (Manzini, V., Trattato di diritto penale italiano, V, Dei delitti contro la pubblica amministrazione e l’amministrazione della giustizia, Torino, 1981, 638; Riccio, S., Misure cautelari (violazione di), in Nss. D.I., X, Torino, 1964, 769; Nastro, D., Sigilli (violazione di), in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, 538).
La funzione tutelata dalla legge, dunque, non è quella di apporre un “vincolo materiale” sulla cosa, bensì quella di manifestare erga omnes la presenza del “vincolo giuridico” di indisponibilità derivante dall'atto amministrativo.
L’illecito annovera, per conseguenza, quale unico soggetto passivo, la Pubblica Amministrazione, intesa “nel senso più ampio comprensivo della intera attività dello Stato e degli altri enti pubblici” (già nella Relazione del Guardasigilli sul progetto definitivo del codice penale, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, V, Roma, 1929, 112) e, quindi, non solo dell’attività amministrativa in senso stretto, ma anche di quella legislativa e giudiziaria.
L’oggetto della tutela penale, dunque, non è la res materiale assicurata dai sigilli su di essa apposti, bensì il “mezzo giuridico” che ne garantisce l’assoluta intangibilità, più precisamente il cd. mezzo assicurante la sua integrità, non solo materiale ma anche strumentale e funzionale (Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, pt. spec., I, Bologna, 2001, 319; Di Martino, A., in Bondi, A.-Di Martino, A.-Fornasari, G., Reati contro la pubblica amministrazione, Torino, 2004, 422).
La tutela penale, pertanto, non garantisce la cosa in sé, nella sua integrità materiale, come potrebbe erroneamente immaginarsi pensando ad atti di manomissione o di disposizione, ma concerne proprio la «forma simbolica apposta» (in Cass. pen., sez. III, 28.9.2004, n. 42900, in Riv. pen., 2006, 144) sulla cosa, con cui si manifesta la volontà della p.a. di volerne garantire conservazione e identità.
E, invero, più che la materialità dei sigilli, viene precipuamente in luce la loro funzione di custodia.
Il reato, infatti, si consuma anche se la cosa assicurata permane intatta od anche se gli stessi sigilli in ceralacca, piombo, carta incollata, cartelli ecc. rimangono inalterati: è bastevole che sia stata intaccata, con qualsiasi condotta, la loro “integrità funzionale” ovvero la loro finalità, violando il vincolo di indisponibilità impresso dalla p.a. mediante la loro apposizione (per tutte Cass. pen., sez. III, 24.4.2003, n. 26185, in Riv. pen., 2004, 473).
Il “mezzo assicurante” è senza dubbio costituito dai sigilli, la cui finalità di assicurare conservazione ed identità della res può essere, peraltro, frustrata dalla violazione anche di un solo significativo sigillo.
La ratio della norma incriminatrice, quindi, risiede nella necessità di presidiare il mancato rispetto dello stato di custodia, che può tranquillamente essere evidenziato anche dalla apposizione di un solo sigillo purché idoneo alla funzione di avvertimento, erga omnes, della speciale condizione della cosa e delle conseguenze giuridiche legate ad una eventuale violazione.
Il delitto, infine, in virtù della persistente attualità dell’oggetto giuridico di tutela, è stato ancora una volta ricompreso tra i reati dei privati contro la p.a. nell’art. 141 del progetto di riforma del codice penale del 1992 proposto dalla Commissione Pagliaro.
La fattispecie delittuosa risponde, infatti, all’ esigenza di presidiare, con la sanzione penale ed espandendo il divieto del noli tangere (Manzini, V., Trattato di diritto penale italiano, cit., 636), il rispetto dovuto alla speciale custodia simbolicamente impressa, con i sigilli più diversi, a cose mobili o immobili – per disposizione di legge o per ordine dell’Autorità – contro ogni forma non autorizzata di attentato alla loro conservazione o alla loro identità.
Il delitto di cui all’art. 349 c.p. è un reato comune.
La natura di reato comune fa sì che possa essere autore del reato anche lo stesso pubblico ufficiale che ordinò od eseguì l’apposizione dei sigilli: in questo caso, qualora costui abbia agito con abuso di poteri o con violazione dei doveri inerenti alla sua funzione, troverà applicazione la circostanza aggravante comune di cui all’art. 61, n. 9, c.p. (Santoro, A., Manuale di diritto penale, II, Torino, 1962, 374).
L’ipotesi trovava, come già ricordato, specifica disciplina nel codice Zanardelli, laddove era prevista un’apposita circostanza ad effetto speciale (art. 201 cpv.).
Sulla scia del codice del 1889, il codice Rocco prevede, nel co. 2 dell’art. 349, una pena più grave soltanto nel caso in cui autore della violazione sia il custode della res.
Tale comma prevede, dunque, una circostanza ad effetto speciale che trova la sua ratio nel maggior disvalore riconosciuto alla violazione dei sigilli commessa proprio da chi, per la particolare qualifica soggettiva rivestita, abbia in affidamento la cosa con l’obbligo precipuo di custodirla.
La dottrina maggioritaria, difatti, ritiene che non ricorra, nel co. 2 dell’art. 349 c.p., un’autonoma figura di reato proprio, come era stato invece sostenuto da un orientamento minoritario (cfr. Riccio, S., Misure cautelari (violazione di), cit., 769).
Per la configurabilità dell’aggravante ad effetto speciale, è sufficiente che il violatore dei sigilli sia colui che abbia in custodia la res: è sufficiente, cioè, che sia stato nominato custode, “anche se eventualmente la nomina risulti illegittima” successivamente (sul punto Cass. pen., sez. III, 2.6.1998, n. 8643, in Cass. pen., 1999, 3151).
Proprio il vincolo d’indisponibilità della cosa per pubbliche finalità, invero, rende irrilevanti gli eventuali vizi dell’atto di nomina del custode, poiché essi «non consentono la cd. autotutela ma devono essere fatti valere nei modi di legge» (Cass. pen., sez. III, 22.9.1995, n. 3005, in Cass. pen., 1997, 425).
Sono, invece, contrastanti le opinioni circa la necessità o meno di una espressa accettazione dell’atto di nomina da parte del designato perché egli ricopra la qualità di custode in modo penalmente rilevante.
Un risalente orientamento della Suprema Corte ritiene che, ai fini della verifica della sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 349 cpv. c.p., l’atto di nomina del custode debba essere seguito dalla relativa accettazione espressa o tacita da parte dell’interessato: nel caso in cui il prescelto abbia rifiutato esplicitamente l’incarico, lo stesso non sarebbe punibile (Cass. pen., 17.4.1985, in Riv. pen., 1986, 752).
Un opposto e condivisibile indirizzo giurisprudenziale riconosce, di contro, che non sia necessaria l’accettazione del provvedimento di nomina: l’incarico di custode, infatti, costituisce un munus publicum obbligatorio, e, dunque, il soggetto rimane investito della funzione di custodia per il solo fatto della nomina portata debitamente a sua conoscenza, non occorrendo incombenti ulteriori.
I giudici della nomofilachia hanno, difatti, da ultimo affermato proprio che l’assunzione della qualità di custode è da qualificarsi pacificamente come munus publicum obbligatorio, che, in quanto tale, prescinde da una formale accettazione (tanto da non apparire neppure necessaria un’espressa indicazione, nel verbale di sequestro della polizia giudiziaria, di aver reso edotto il destinatario dell'obbligo derivante dalla nomina: così Cass. pen., sez. III, 7.2.2012, n. 8550, in CED Cass., n. 252759).
La condotta descritta nel reato consiste nella violazione dei sigilli apposti, per disposizione di legge o per ordine dell’Autorità, al fine di assicurare la conservazione o la identità di una cosa.
Il delitto si estrinseca generalmente con la rimozione, rottura o distruzione del mezzo sigillante, che è, di norma, l’oggetto materiale della condotta.
L’illecito, tuttavia, può materialmente realizzarsi – indipendentemente dalla effettiva rimozione dei sigilli – anche mediante qualsiasi atto od attività che valga ad eludere il vincolo cautelare apposto: la forma libera impressa dal legislatore alla condotta del delitto fa sì che siano sussumibili nella fattispecie astratta tutti i comportamenti comunque diretti a frustrare la volontà della p.a. di rendere, attraverso l’apposizione del sigillo, indisponibile ed immodificabile la res.
Per quanto riguarda la condotta violativa dei sigilli, va ricordato che l’art. 201 del codice Zanardelli prevedeva espressamente che la violazione dei sigilli potesse avvenire «in qualsiasi modo», ma, come già evidenziato, la locuzione è stata ritenuta superflua dal legislatore del 1930.
Per violazione dei sigilli si deve, dunque, intendere pacificamente una qualsiasi condotta che, pur senza comportare necessariamente la rimozione, rottura o distruzione del “mezzo sigillante”, ne lede comunque la funzione di custodia, con conseguente frustrazione delle finalità di conservazione e di identità della cosa insite nel suggellamento.
A seguito dell’azione delittuosa potrebbe anche rimanere intatta la res o potrebbero non venir rimossi od alterati materialmente i sigilli: rilevante, invero, per la configurazione del reato, è che sia stata lesa la integrità strumentale e funzionale dei sigilli, in cui è racchiusa la volontà della p.a. di assoggettare il bene allo speciale vincolo cautelare (Bursese, G.A., Il reato di violazione di sigilli e il sequestro penale delle costruzioni abusive, in Giur. it., 1983, II, 197).
Per converso, alterazioni dei suggelli, quali lo sfregio, l’imbrattamento od altra tipo di manomissione, di per sé potrebbero non integrare il delitto qualora non ne intacchino l’integrità funzionale e strumentale.
La violazione dei sigilli è, pertanto, un delitto commissivo che si realizza con una condotta positiva: per la concretizzazione del reato, è necessaria un’azione e non bastano semplici omissioni, salva l’ipotesi in cui l’autore abbia il dovere giuridico di opporsi alla violazione dei sigilli e volontariamente non l’abbia impedita.
L’azione è a forma libera ed il reato è istantaneo (Cass. pen., sez. III, 31.5.2002, n. 21405, in Dir. formazione, 2002, 1739) atteso che si perfeziona non appena è posto in essere l’atto invasivo del vincolo cautelare.
Non si può omettere, in questa sede, di ricordare che il presupposto della condotta, ai fini della sussistenza del delitto, sia la materiale apposizione dei sigilli sulla cosa, disposta ed attuata, per legge o per ordine della competente Autorità giudiziaria o amministrativa, al fine di assicurarne la conservazione e l’identità.
È, altresì, rilevante la esatta definizione dell’elemento “sigillo”: per sigillo, difatti, deve intendersi il cd. mezzo assicurante, che può essere costituito anche da un solo segno materiale.
Non è richiesta alcuna connessione materiale tra il sigillo e la cosa assicurata, la quale, come già detto, potrebbe rimanere anche intatta dopo l’azione delittuosa.
La dottrina dominante (Manzini, V., Trattato di diritto penale italiano, cit., 638; Antolisei, F., Manuale di diritto penale, pt. spec., II, Milano, 2003, 418; Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, pt. spec., I, cit., 319; Pagliaro, A., Principi di diritto penale. Parte speciale. Delitti contro la pubblica amministrazione, Milano, 2000, 434; Nastro, D., Sigilli (violazione di), cit., 538) ed un costante indirizzo giurisprudenziale, qualificano, con interpretazione estensiva, sigillo non solo qualsiasi impronta o dispositivo, visibile e tangibile, applicato in modo simbolico su una cosa, che, pur senza renderla inaccessibile, ne ostacoli materialmente le attività invasive vietate, ma anche “qualsiasi altro segno esteriore” che valga a manifestare, erga omnes, il vincolo d’indisponibilità e d’intangibilità gravante sulla res per volontà della p.a.
Sul punto va rammentato che sono ritenuti “sigillo” il timbro o il bollo apposti su ceralacca, su piombo, su carta, nonché nastri, strisce di carta, anche gommata, schotch ecc., recanti le firme dei pubblici ufficiali apponenti, nonché cartelli evidenti, fili di ferro o tavole di legno incrociate e inchiodate.
Il tutto, corredato da apposite scritte di pubblico avvertimento di intangibilità, rende nota la finalità perseguita dalla p.a. di assicurare la conservazione e l’identità della cosa.
È parimenti essenziale che il sigillo sia idoneo alla esatta identificazione della res ed alla intimazione, nei confronti di tutti, di astenersi da qualsiasi atto contrario alla sua indisponibilità ed integrità.
Il sigillo è, in conclusione, uno strumento dal valore simbolico, che, come già sottolineato, estende il divieto del noli tangere a tutto il bene oggetto della speciale custodia, nessuna parte esclusa.
È indispensabile, ai fini della configurazione della fattispecie, che i sigilli siano apposti per le finalità rilevanti ai sensi dell’ art. 349 c.p. e cioè per assicurare conservazione, identità e consistenza oggettiva alle cose mobili od immobili vincolate: il reato non sussiste se questi adempiano, in via esclusiva, ad una finalità diversa, quale, ad esempio, quella tipicamente sanzionatoria di impedire il proseguimento di un’attività commerciale non autorizzata (Cass. pen., sez. III, 14.10.1999, n. 13710, in Cass. pen., 2000, 3316).
La finalità di assicurare la conservazione del bene ricomprende anche l’interdizione dall’uso, proprio in ragione della garanzia offerta all’intangibilità assoluta della cosa: i sigilli, pertanto, si intendono legittimamente apposti anche qualora perseguano anche il fine di evitare che un reato sia portato ad ulteriori conseguenze.
Il suggellamento è “ufficiale” e, quindi, legittimo quando il soggetto pubblico disponente sia l’Autorità Giudiziaria o la Polizia Giudiziaria da essa dipendente ovvero una qualsiasi altra pubblica Autorità amministrativa nel settore di sua competenza (per esempio sindaci e vigili urbani in materia edilizia), anche nell’esercizio del proprio potere discrezionale.
L’apposizione dei suggelli, poi, deve essere materialmente eseguita da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio od anche da un privato che, su richiesta, abbia loro prestato assistenza.
Con riguardo all’Autorità disponente, la giurisprudenza annovera la storica querelle in merito alla sussistenza o meno del reato nell’ipotesi in cui i sigilli siano stati apposti ai contatori da parte dell’Enel, ente trasformato ex lege in società per azioni.
L’indirizzo maggioritario ha ritenuto che sussista comunque il reato perché si tratta di apposizione di sigilli facoltizzata dalla legge (Cass. pen., sez. VI, 28.3.2000, n. 1566, in Cass. pen., 2001, 3079): la possibilità per l’Enel di sigillare i contatori discenderebbe, infatti, dall’art. 20 del d.m. 8.7.1924, non abrogato dalla l. 8.8.1992, n. 359 che ha trasformato l’Enel da ente pubblico in società per azioni.
Altro orientamento, di contro, ha ritenuto che l’Enel non fosse più una pubblica Autorità (Cass. pen., sez. VI, 5.2.1998, n. 2895, in Cass. pen., 1999, 1473) e che il citato art. 20 abbia previsto una facoltà, non già un obbligo ex lege, di apporre i predetti sigilli, con la conseguenza che la relativa violazione non integri il delitto di cui all’art. 349 c.p.
Per la sussistenza del reato è indubbiamente necessario che i sigilli siano apposti per disposizione di legge o “per ordine dell’Autorità” competente: il controllo in punto di operatività del vincolo cautelare va, tuttavia, limitato alla sola identificazione dell’Autorità ed all’esistenza del relativo potere poiché la carenza in astratto ne inficerebbe radicalmente il relativo provvedimento, impedendo l’integrazione del citato elemento normativo della fattispecie (Cass. pen., sez. VI, 26.6.1992, n. 9797, in Cass. pen., 1994, 318).
Con riferimento alla competenza dell’organo apponente, è opportuno precisare che gli eventuali vizi di legittimità dell’atto o del procedimento, quando non comportino l’inesistenza del titolo dispositivo dei sigilli (ad esempio per incompetenza assoluta), sono stati ritenuti irrilevanti per la configurabilità del delitto, con conseguente permanere del vincolo d’intangibilità della cosa.
Gli eventuali vizi dell’atto o del procedimento, infatti, in genere non comportano provvedimenti di revoca in autotutela dei pubblici ufficiali apponenti che si sostanzino anche nella diretta rimozione o altra forma di alterazione dei sigilli: i vizi dell’atto amministrativo di apposizione dei sigilli dovranno essere fatti valere con i normali rimedi e nei modi di legge, diretti all’annullamento o alla revoca del provvedimento, con consequenziale elisione del vincolo cautelare sulla res mediante pubblica rimozione dei sigilli (sul punto chiaramente Cass. pen., sez. III, 6.11.2003, n. 47443, in Riv. pen., 2004, 1268).
Permangono, altresì, irrilevanti ai fini della consumazione dell’illecito la mancata o illegittima nomina del custode, la mancata preventiva redazione del verbale di sequestro, la mancata o tardiva o immotivata convalida dello stesso da parte dell’Autorità Giudiziaria.
Il provvedimento di dissequestro, invece, determinando la cessazione immediata del vincolo cautelare, «priva i sigilli di rilevanza giuridica» ed impedisce così la sussistenza del delitto qualora il privato interessato li rimuova senza attendere l’intervento ad hoc degli organi pubblici esecutivi all’uopo delegati (Pagliaro, A., Principi di diritto penale. Parte speciale. Delitti contro la pubblica amministrazione, cit., 437; Mannozzi, G.,Violazione di sigilli, in Dig. pen., XV, Torino, 1999, 240).
Il delitto di violazione dei sigilli è imputabile a titolo di dolo generico e non rilevano, dunque, le ragioni o i fini mediati dell’agente al momento del fatto.
Il momento conoscitivo del dolo si sostanzia della consapevolezza, da parte di costui, della esistenza e della natura dei sigilli: oltre a rendersene conto per via della loro significazione esteriore, l’agente deve, come uomo di media intelligenza, essere conscio che si tratti di sigilli apposti, per disposizione di legge o per ordine dell’Autorità, al fine di assicurare la conservazione e l’identità del bene.
Solo l’erronea convinzione di compiere il fatto perché autorizzato a tanto dalla Autorità competente può valere ad escludere il reato ai sensi dell’art. 47 c.p. (Manzini, V., Trattato di diritto penale italiano, cit., 645).
Sul punto la Suprema Corte ha ritenuto che, nel caso di prosecuzione di attività edificatoria in un cantiere sottoposto a sequestro, dalla mancata specificazione del divieto di non proseguire le opere non possa derivare, di per sé, la configurabilità della buona fede in favore dell’agente, essendo costui tenuto comunque all’osservanza degli ordini dell’Autorità (Cass. pen., sez. III, 3.4.2008, n. 19722, in Corr. mer., 2010, 660).
Il momento volitivo implica che l’autore agisca con coscienza e volontà di violare i sigilli, cioè con la intenzione di far venir meno, con la sua condotta invasiva, la conservazione o l’identità della cosa.
In dottrina si ritiene, altresì, che possa configurarsi il dolo eventuale.
Non sussiste, tuttavia, il dolo qualora l’agente (ad esempio, il proprietario del bene) si sia limitato alla semplice acquiescenza alle iniziative violatrici di terzi, anche se suoi prossimi congiunti (Cass. pen., sez. III, 27.5.2003, n. 28904, in Riv. pen., 2004, 587).
Il custode, per contro, è tenuto ad esercitare sulla res sottoposta a vincolo cautelare una custodia continua ed attenta: nel caso di mancato impedimento della violazione di sigilli da parte di terzi, egli sarà giustificato solo fornendo la prova che l’omissione della doverosa vigilanza è stata dovuta a caso fortuito o a forza maggiore (Cass. pen., sez. III, 29.4.2004, n. 26848, in Riv. pen., 2005, 1129).
Il delitto di cui all’art. 349 c.p. è un reato istantaneo di lesione (Manzini, V., Trattato di diritto penale italiano, cit., 644), che si consuma nel momento in cui si verifica la materiale manomissione, rimozione o distruzione dei sigilli ovvero una qualsiasi altra condotta diretta a violare il vincolo di intangibilità sotteso alla loro apposizione.
È irrilevante, perché il reato sia perfetto, ogni evento ulteriore, ad esempio che la cosa sia stata effettivamente manomessa o che si sia prodotto danno materiale agli stessi sigilli, quando la funzione di custodia permane comunque assicurata (Cass. pen., sez. III, 24.4.2003, n. 26185, in Riv. pen., 2004, 473).
Nell’ipotesi in cui l’evento ulteriore sia costituito da una nuova infrazione dei divieti imposti dai sigilli, tale successiva condotta integra un autonomo reato eventualmente unificabile, con il vincolo della continuazione ai sensi dell’art. 81 cpv. c.p., con le violazioni precedenti (Cass. pen., sez. III, 31.5.2002, n. 21405, in Dir. formazione, 2002, 1739): perché sia configurabile una nuova violazione della norma contenuta nell’art. 349 c.p. non è neppure richiesto, invero, un ulteriore o nuovo provvedimento di apposizione dei sigilli.
Il tentativo è ammissibile e può configurarsi quando l’autore, pur avendo dato inizio alla manomissione materiale dei sigilli, non è riuscito nella violazione della custodia per cause indipendenti dalla sua volontà (Riccio, S., Misure cautelari (violazione di), cit., 770).
È, inoltre, applicabile la circostanza aggravante comune di cui all’art. 61, n. 9, c.p. nell’ipotesi in cui autore del delitto sia un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio (Manzini, V., Trattato di diritto penale italiano, cit., 649): il codice del 1930 non ha, infatti, riprodotto la circostanza ad effetto speciale prevista per tale caso nell’art. 201 del codice Zanardelli.
Non è applicabile, invece, l’attenuante di aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale ai sensi dell’art. 61, n. 1, c.p. nel caso in cui la violazione dei sigilli consegua al sequestro, per abusivismo edilizio, di immobile costruito dall’autore per indilazionabili necessità abitative (Cass. pen., 28.6.1990, n. 1063, in Mass. Cass. pen., 1991, fasc.1, 58).
Si è ritenuto, di contro, applicabile l’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, c.p. per le ipotesi in cui l’agente abbia commesso il fatto per conseguire o aver conseguito un lucro di speciale tenuità poiché l’art. 2 della l. 7.2.1990, n. 19 ha esteso la configurabilità di tale attenuante ad ogni tipo di delitto determinato da motivi di lucro, indipendentemente dal suo specifico oggetto di tutela.
Se, infine, autore del delitto è il custode nominato con l’apposizione dei sigilli – come già detto – è applicabile la circostanza ad effetto speciale prevista dal capoverso dell’art. 349 c.p.
Nell’ipotesi di concorso di persone nel reato di violazione di sigilli, la predetta circostanza, di natura soggettiva, si comunica ai compartecipi purché la qualità personale di custode sia da essi conosciuta o colpevolmente ignorata o ritenuta inesistente per errore determinato da colpa (art. 59 cpv. c.p. modificato dall’art. 1 della citata l. n. 19(1990): deve precisarsi, per completezza, che essa non costituisce una circostanza inerente alla persona del colpevole da valutarsi ai sensi dell’art. 118 c.p. (Di Martino, A., in Bondi, A.-Di Martino, A.-Fornasari, G., Reati contro la pubblica amministrazione, cit., 422; Cass. pen., sez. III, 30.5.2003, n. 35500, in Riv. pen., 2004, 680).
In merito ai rapporti tra il delitto de quo ed altri reati, appare opportuno sottolineare in primis che si è ritenuto non ricorresse un’ipotesi di concorso apparente di norme nel caso in cui la fattispecie concreta (ad esempio, la prosecuzione dei lavori di una costruzione abusiva) rientri negli schemi tipici sia dell’art. 349 c.p. sia dell’art. 334 c.p., che prevede il reato di sottrazione o danneggiamento di cose sottoposte a sequestro nel corso di un procedimento penale o dall’autorità amministrativa.
Nonostante i due reati tutelino entrambi l’interesse della p.a. al rispetto del vincolo d’intangibilità del bene, la differente condotta in essi descritta fa propendere, in dottrina, per un’ipotesi di concorso materiale di reati (Manzini, V., Trattato di diritto penale italiano, cit., 645; Nastro, D., Sigilli (violazione di), cit., 542): nel delitto di cui all’art. 334 c.p. la condotta consisterebbe nella sottrazione, soppressione, distruzione, dispersione o deterioramento della cosa sottoposta a vincolo cautelare e, dunque, lederebbe l’integrità fisica della res, mentre nel reato di cui all’art. 349 c.p. la condotta consisterebbe in qualsiasi atto che attenti alla funzione di custodia dei sigilli, con l’eventualità che la cosa rimanga inalterata.
Un recente indirizzo giurisprudenziale ha evidenziato, al contrario, che, proprio nel caso di prosecuzione dei lavori di costruzione abusiva oggetto di sequestro penale, si versi in ipotesi di concorso fittizio delle due predette norme penali, delle quali solo l’art. 349 c.p. troverebbe applicazione in quanto l’agente non lede materialmente la cosa in sequestro «ma al contrario la migliora completandola» (Cass. pen., sez. III, 3.4.2008, n. 19722, in Corr. mer., 2010, 660).
Si configura pacificamente, invece, un’ipotesi di concorso materiale di reati nel caso in cui l’agente, oltre a violare i sigilli, si appropri o sottragga la cosa sottoposta al vincolo cautelare: concorrono materialmente con il reato di violazione di sigilli rispettivamente il delitto di cui all’art. 646 c.p. o il delitto di cui agli art. 624-625, n. 2, c.p. a causa della diversa oggettività giuridica degli illeciti concorrenti (Manzini, V., Trattato di diritto penale italiano, cit., 644; Santoro, A., Manuale di diritto penale, cit., 373; Nastro, D., Sigilli (violazione di), cit., 542; Cass. pen., sez. V, 5.7.2000, n. 9022, in Cass. pen., 2001, 2722).
Qualora l’agente distrugga, disperda, deteriori o renda inservibile, in tutto o in parte, la cosa oltre a violare i sigilli su di essa apposti, si ha un concorso apparente di norme ed il reato di danneggiamento permane assorbito nel delitto di cui all’art. 349 c.p.
Si ritiene, invece, che ricorra un’ipotesi di concorso materiale di reati quando il delitto de quo concorra con il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Ricorre concorso materiale di reati anche nell’ipotesi di concorso del delitto di violazione di sigilli con il reato di violazione di domicilio (artt. 614 o 615 c.p.) e, ovviamente, con il reato di abusivismo edilizio, legati al primo dal vincolo della continuazione ai sensi dell’ art. 81 cpv. c.p.
La forma colposa dell’illecito, già prevista nell’ult. co. dell’art. 201 del codice Zanardelli, è stata oggetto di autonoma previsione nel codice vigente contenuta nell’art. 350 c.p. ed annoverava quale soggetto attivo esclusivamente il custode della res.
Questa disposizione è stata, però, depenalizzata dall’art. 39 del d.lgs. 30.12.1999, n. 507.
Art. 349 c.p.
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