Abstract
Nel nostro ordinamento giuridico la tutela penale del c.d. “segreto d’ufficio” è incentrata sul delitto di “Rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio” ex art. 326 c.p., il quale, mediante la previsione di quattro distinte figure di reato, corrispondenti ad altrettante diverse modalità di violazione del segreto d’ufficio – rivelazione o agevolazione dolosa (co. 1); agevolazione colposa (co. 2); utilizzazione a fine di profitto patrimoniale (co. 3); utilizzazione a fine di profitto non patrimoniale o a fine di danno (co. 3) –, impone, nei casi previsti dalla legge, il dovere di segretezza nell’esercizio dell’attività amministrativa, legislativa e giudiziaria, al fine di evitare che la P.A. possa subire un pregiudizio sotto il profilo del “regolare funzionamento della sua attività” e della “legale esplicazione dei suoi poteri”, nonché allo scopo di garantire il disinteresse personale nell’esercizio delle funzioni che il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio sono tenuti a svolgere, in modo da impedire che tali soggetti traggano profitto dalle conoscenze acquisite in relazione alle funzioni svolte.
Il segreto è uno strumento di tutela di interessi – che di regola fanno capo allo stesso soggetto che pone il segreto – alla cui protezione è funzionale un’operazione di dissimulazione di un certo sapere a cui il bene giuridico di volta in volta protetto è strettamente collegato (Auteri, P., Il segreto nella realtà giuridica italiana, Padova, 1983). Tra i segreti posti a tutela di beni giuridici di natura pubblicistica occupa un posto di rilievo il c.d. segreto d’ufficio, la cui tutela penale, nell’ambito del nostro ordinamento giuridico, è essenzialmente incentrata sugli artt. 325 e 326 c.p., rispettivamente rubricati «Utilizzazione d’invenzioni o scoperte conosciute per ragioni d’ufficio» e «Rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio».
In particolare, l’art. 325 c.p. punisce, con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa non inferiore a euro 516, «il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, che impiega, a proprio o altrui profitto, invenzioni o scoperte scientifiche, o nuove applicazioni industriali, che egli conosca per ragione dell’ufficio o servizio, e che debbano rimanere segrete».
La fattispecie in oggetto, al pari dell’art. 326 c.p., rientra tra i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione e si pone come ipotesi speciale di utilizzazione di segreti d’ufficio, avente ad oggetto, appunto, esclusivamente le «invenzioni o scoperte scientifiche, o nuove applicazioni industriali», e, quindi, destinata a prevalere, per la sua specialità, sul reato di cui all’art. 326, co. 3, c.p., così come introdotto dalla riforma dei delitti dei dei p.u. contro la P.A. di cui alla l. 26.4.1990, n. 86.
Essa, inoltre, è norma speciale anche rispetto al delitto di «rivelazione di segreti scientifici o industriali» ex art. 623 c.p., che è un delitto contro la libertà individuale ed in particolare contro la inviolabilità dei segreti, il quale, pur presentando la stessa condotta della fattispecie in esame, è, però, reato comune, potendo essere realizzato da «chiunque».
Al contempo, l’art. 325 c.p. è, però, norma generale rispetto al delitto di «utilizzazione dei segreti di Stato», di cui all’art. 263 c.p., in cui le invenzioni o scoperte scientifiche, o nuove applicazioni industriali sono destinate a rimanere segrete «nell’interesse della sicurezza dello Stato».
Le decisive interferenze con le fattispecie di cui agli artt. 263, 326 e 623 c.p. mettono in evidenza la ridotta sfera di applicazione della delitto di cui all’art. 325 c.p.; ed è, probabilmente, proprio al limitato ambito di applicazione della norma che va attribuita la sua assoluta assenza dai repertori giurisprudenziali.
Ciò spiega il perché la violazione del segreto d’ufficio trova il suo principale baluardo nell’art. 326 c.p., fattispecie su cui, pertanto, concentreremo la nostra analisi.
La fattispecie di «Rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio» di cui all’art. 326 c.p., co. 1, punisce, con la reclusione da sei mesi a tre anni, «il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio, che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie d’ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza»; al co. 2 precisa che «se l’agevolazione è soltanto colposa, si applica la reclusione fino a un anno»; infine, al co. 3 punisce con la reclusione da due a cinque anni «il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio, che, per procurare a sé o ad altri un indebito profitto patrimoniale, si avvale illegittimamente di notizie d’ufficio, le quali debbano rimanere segrete», inoltre, «se il fatto è commesso al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto non patrimoniale o di cagionare ad altri un danno ingiusto, si applica la pena della reclusione fino a due anni».
La norma contempla quattro distinte figure di reato corrispondenti ad altrettante diverse modalità di condotte illecite di utilizzazione di notizie d’ufficio che devono rimanere segrete: rivelazione o agevolazione dolosa (co. 1); agevolazione colposa (co. 2); utilizzazione a fine di profitto patrimoniale (co. 3); utilizzazione a fine di profitto non patrimoniale o a fine di danno (co. 3).
Come sostenuto dalla dottrina prevalente (Rampioni, R., Bene giuridico e delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Milano, 1984, 79; Tencati, A., Gli aspetti innovativi del segreto d’ufficio penalmente tutelato, in Riv. pen., 1992, 609; Severino Di Benedetto, P., I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Le qualifiche soggettive, Milano, 1983, 10; Vigna, P.L.-Dubolino, P., Segreto (reati in materia di), in Enc. dir., XLI, 1989, 1055; Cerqua, L.D., Commento agli artt. 325 e 326 c.p., in Crespi, A.,-Stella, F.Zuccalà, G., a cura di, Commentario breve al codice penale, Complemento giurisprudenziale, Padova, 1999, 1041; Di Martino, A., Commento all’art. 326, in Bondi, A.-Di Martino, A.-Fornasari, G., a cura di, Reati contro la Pubblica Amministrazione, Torino, 2004, 269; Segreto, A., Rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio, in Segreto, A.-De Luca, G., I delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, III ed., Milano, 1999, 596; Seminara, S., Commento all’art. 326 c.p., in Crespi, A.-Stella, F.-Zuccalà, G., a cura di, Commentario breve al codice penale, Padova, 2003, 953; Baffi, E., La violazione del segreto di ufficio, in AA.VV., I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, diretto da Fiore, C., Torino, 2004, 308; Gambardella, G., Art. 326, in Lattanzi, G.-Lupo, E., a cura di, Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e dottrina, III, Milano, 2005, 368) e dalla giurisprudenza maggioritaria (Cass., pen., 19.2.1999, Curia, in Guida dir., 1999, 13, 104; Cass., pen., 26.8.1997, Palombo, in Guida dir., 1997, 40, 89; Cass., pen., 29.11.1993, Coco, CED 195892, in Cass. pen., 1995, 294; Cass., pen., 20.44.1989, Crincoli, in Cass. pen., 1990, 55), l’art. 326 c.p. s’inquadra, senz’altro nella generale tutela del corretto andamento e dell’imparzialità della P.A., proteggendo, in particolare, l’esigenza che notizie d’ufficio destinate a rimanere segrete – il c.d. segreto d’ufficio – non vengano divulgate o utilizzate, così tutelando il rispetto del dovere di segretezza nell’esercizio dell’attività amministrativa, legislativa e giudiziaria, la cui tutela, a sua volta, non è fine a sé stessa ma è ulteriormente finalizzata, in ultima istanza: a) ad evitare che la P.A. possa subire un pregiudizio sotto il profilo del “regolare funzionamento della sua attività” e della “legale esplicazione dei suoi poteri”; b) a garantire il disinteresse personale nell’esercizio delle funzioni che il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio sono tenuti a svolgere; nonché, c) ad assicurare che i soggetti qualificati non traggano profitto dalle conoscenze acquisite in relazione alle funzioni svolte, violando così la par condicio civium, ossia avvantaggiandosi sugli altri cittadini mediante l’utilizzo in sede privata di notizie segrete che gli stessi possono aver conosciuto per ragioni d’ufficio (Pagliaro, A., Principi di diritto penale, pt. spec.. Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Milano, 1994, 255 e 259; Romano, M., Commento all’art. 326 c.p., in Id., I delitti contro la Pubblica Amministrazione, I delitti dei pubblici ufficiali, Milano, 2002, 298; Fioravanti, L., Segreto d’ufficio (violazione del), in Dig. pubbl., Torino, 1997, 94 ss.; Maruotti, R.G., La tutela penale del segreto d’ufficio: brevi riflessioni, in chiave de jure condendo, sulla fattispecie di “rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio”, in Manna, A., a cura di, Materiali sulla riforma dei reati contro la pubblica amministrazione. La tutela dei beni collettivi: i delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A., Padova, 2007, 328 ss.).
Da quanto da ultimo osservato in tema di bene giuridico ne deriva che soggetto passivo del reato de quo è esclusivamente la P.A., mentre tale non può essere considerato anche il privato, in quanto l’interesse di quest’ultimo riceve una tutela soltanto indiretta rispetto alla protezione immediata apprestata ai beni di natura pubblicistica alla cui tutela la norma è orientata (Romano, M., I delitti contro la pubblica amministrazione, cit., 299; Cerqua, L.D., Commento agli artt. 325 e 326 c.p., cit., 1041; Benussi, C., I delitti contro la pubblica amministrazione, in Trattato di diritto penale, pt. spec., diretto da Marinucci, G.-Dolcini, E., I, I, Padova, 2001, 658 e 670; Maruotti, R.G., La tutela penale del segreto d’ufficio: brevi riflessioni, in chiave de jure condendo, sulla fattispecie di “rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio”, cit., 332. Contra Riccio, Abuso di ufficio, in Nss. D. I., I, 1, 115; Mucciarelli, F., Commento agli artt. 325 e 326 c.p., in I delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, coordinato da Padovani, T., Torino, 1996, 300; Bevilacqua, B., I reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, in Trattato di diritto italiano, diretto da Cendono, P., II, 2003, 1006, secondo i quali la norma tutela anche l’interesse del privato, qualora il segreto sia posto in suo favore. In giurisprudenza, Cass., pen., 9.10.1998, Piccirilli, CED 211753, in Cass. pen., 1999, 2864; Cass., pen., 6.11.1995, Ferretti, CED 203329, in Cass. pen., 1997, 1392; Cass., pen., 18.10.1999, Silvestri, in Guida dir., 1999, 7, 62).
Quanto alla tecnica di tutela, l’art. 326 c.p. configura, secondo la tesi preferibile, un reato di pericolo concreto, in quanto la rivelazione del segreto d’ufficio, l’agevolazione della sua conoscenza o l’illegittima utilizzazione dello stesso sono punibili non in sé stesse, ma in quanto siano suscettibili di produrre un qualche nocumento agli interessi tutelati attraverso il segreto d’ufficio (Benussi, C., I delitti contro la pubblica amministrazione, cit., 656; Seminara, S., Commento agli artt. 325 e 326 c.p., cit., 1042; in giurisprudenza, Cass. pen., 26.8.1994, Bandiera, CED 200133, in Riv. pen., 1995, 1395; Cass., pen., 14.9.1990, Caramellino, CED 185331, in Cass. pen., 1992, 80; Cass., pen., 17.7.1990, Bettinelli, CED 184920, in Riv. pen., 1991, 567; Cass., pen., 25.6.1971, Giunco, CED 118545, in Cass. pen., 1972, 1683. Contra, in dottrina, Antolisei, F., Manuale di diritto penale, pt. spec., II, Milano, 2003, 354; Segreto, A., Rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio, cit., 619; Vigna, P.L.-Dubolino, P., Segreto (reati), cit., 1060; Forlenza, O., Ai fini della configurabilità del reato non è necessario un danno alla p.a. o a i terzi, in Guida dir., 1998, 6, 78; Di Martino, A., Commento all’art. 326 c.p., cit., 274; Fiandaca, G.-Musco, E. Diritto penale, pt. spec., I, II ed., Bologna, 1999, 253, i quali propendono per una qualificazione del reato in termini di pericolo presunto; in giurisprudenza Cass., pen., 29.11.1993, Coco, CED 195892, cit., 294; Cass., pen., 13.11.2000, Gallucci, in Guida dir., 2001, dossier/2, 125; Cass., pen., 19.2.1999, Curia, cit., 104; Cass., pen., 23.1.1998, Colandrea, in Guida dir., 1998, 6, 77). A questa conclusione si perviene, inoltre, considerando che l’art. 24 della l. n. 241/1990 e s.m.i. (che detta la disciplina generale del procedimento amministrativo), subordina la possibilità di ricorrere al segreto pubblico soltanto qualora esista la necessità di salvaguardare uno dei valori indicati nella stessa norma. In questo modo il legislatore ha fatto assurgere il pregiudizio, inteso come pericolo di un danno concreto degli interessi che il segreto d’ufficio può legittimamente tutelare, al rango di requisito espresso del segreto d’ufficio, e ciò con il chiaro obiettivo di circoscrivere la discrezionalità della P.A.
Da questa conclusione deriva, poi, che la notizia la cui rivelazione o utilizzazione realizza il reato non può prescindere da una dimensione di significatività, da riferirsi sia al contenuto della notizia che al tempo della sua rivelazione, nel senso che deve potersi individuare un qualche apprezzabile interesse della P.A. a che essa non venga divulgata: se da ciò non può inferirsi che tra gli elementi essenziali del reato rientri anche il danno alla P.A., tuttavia se ne ricava quantomeno l’esigenza di interpretare la disposizione in esame in modo da renderla conforme al canone della ragionevolezza, il che impone di ritenere che il reato in esame viene meno se la rivelazione o l’utilizzazione ha ad oggetto, da un lato, in relazione al contenuto della notizia, fatti futili o insignificanti (Maruotti, R.G., Violazione dei segreti d’ufficio, in Trattato di diritto penale, diretto da Cadoppi,A.-Canestrari, S.-Manna, A.-Papa, M., pt. spec., II, I delitti contro la Pubblica Amministrazione, Torino, 2008, 417; Pagliaro, A., Principi di diritto penale, cit., 277; Cerqua, L.D., Commento agli artt. 325 e 326 c.p., cit., 1043; Romano, M., I delitti contro la Pubblica Amministrazione, cit., 302 ss.; in giurisprudenza, Cass., pen., 20.1.1992, Morgante, CED 189422, in Cass. pen., 1993, 836), dall’altro, in relazione al tempo della rivelazione, fatti notori o di dominio pubblico (Levi, N., I delitti contro la Pubblica Amministrazione, cit., 345; Crespi, A., La tutela penale del segreto, Palermo, 1952, 47; Mucciarelli, F., Commento agli artt. 325 e 326 c.p, cit., 301; in giurisprudenza Cass., pen., 26.8.1994, Bandiera, cit., 1395; Cass., pen., 26.8.1997, Palumbo, in Guida dir., 1997, 40, 90).
Soggetti attivi del reato possono essere tanto il pubblico ufficiale quanto l’incaricato di pubblico servizio, i quali, in applicazione dell’art. 360 c.p., commettono il delitto di cui all’art. 326 c.p. anche se la rivelazione delle notizie d’ufficio, l’agevolazione della loro conoscenza da parte di terzi o l’utilizzazione delle stesse, avviene dopo la cessazione della loro qualifica, purché la conoscenza delle informazioni segrete sia avvenuta quando l’agente era ancora p.u. o i.p.s., ovvero, più in generale, il fatto si riferisca all’ufficio od al servizio esercitato, ossia esista un nesso di carattere funzionale tra il fatto e la qualifica posseduta in precedenza (Di Martino, A., Commento all’art. 326 c.p., cit., 269; Vigna, P.L.-Dubolino, P., Segreto (reati), cit., 1056; Benussi, C., I delitti contro la p.a., cit., 659 s.; Segreto, A., Rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio, cit., 599).
Oggetto materiale dei reati di cui all’art. 326 c.p. sono le «notizie d’ufficio che devono rimanere segrete». Innanzitutto va osservato che il termine “notizia”, di per sé estremamente ampio, è stato delimitato dal legislatore con il riferimento all’ufficio o servizio presso cui il p.u. o l’i.p.s. presta la sua opera; “ufficio” da intendersi riferito alla P.A. nell’accezione più ampia, ossia tale da comprendere non solo la funzione amministrativa ma anche quella legislativa e giudiziaria (Pagliaro, A., Principi di diritto penale, cit., 257; Baffi, E., Rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio, cit., 309; Cass., 18.1.1999, Silvestri, in Guida dir, 1999, 7, 62; Cass., pen., 24.9.1996, Carola, CED 205967, Riv. pen., 1997, 248).
L’inerenza della notizia all’ufficio presuppone un rapporto di fatto tra il soggetto e l’ufficio, difettando il quale, pur in presenza della qualifica soggettiva pubblicistica, non verrà in rilievo la fattispecie in esame, ma potrebbe trovare applicazione l’art. 621 c.p. aggravato dalla circostanza di cui all’art. 61, co. 9, c.p.
Il fatto che debba trattarsi di “notizie d’ufficio” rispetto alle quali sussiste un interesse pubblico alla non rivelazione od utilizzazione, non esclude, inoltre, che debbano considerarsi coperte dall’obbligo del segreto d’ufficio anche le notizie che riguardano esclusivamente soggetti privati, ciò in quanto la titolarità della notizia non incide sulla configurabilità del reato, il quale sussiste tutte le volte in cui è stato violato il segreto che il p.u. o l’i.p.s doveva serbare rispetto alle notizie d’ufficio, il cui contenuto può anche non riguardare direttamente la P.A. (Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, pt. spec., cit., 251; Benussi, C., I delitti contro la pubblica amministrazione, cit., 665; Fioravanti, L., Segreto d’ufficio (violazione del), cit., 103; Trib. Napoli, 22.5.1978, in Riv. giur. Lav., V, 1979, 439).
L’art. 326 c.p. non richiede, come avviene, invece, per il reato di cui all’art. 325 c.p., che la notizia sia appresa «per ragione dell’ufficio o del servizio» (anche se sarà questa evidentemente la modalità più frequente di apprendimento della notizia), il che, se da un lato non impone necessariamente l’esistenza di un rapporto di competenza in senso tecnico-amministrativo tra l’agente e il servizio o l’ufficio da questi ricoperto, dall’altro non esclude la rilevanza delle notizie apprese occasionalmente, imponendo, quindi, un dovere di correttezza che prescinde dalle modalità con cui è avvenuto l’apprendimento (Mazzacuva, N., La tutela penale del segreto industriale, Milano, 1979, 178; Grosso, F., I delitti contro la pubblica amministrazione, in Bricola, F.-Zagrebelsky, V., a cura di, Giurisprudenza sistematica di diritto penale, 4, II ed., 1996, 286; Cass., pen., 18.6.1940, in Riv. pen., 1941, 238; Cass., pen., 4.5.1971, Barberis, CED 117847, in Giust. pen., 1972, II, 343; Cass., pen., 10.2.1990, De Leonibus, in Riv. pen., 1990, 719; Cass., pen., 19.2.1999, Curia, in Guida dir., 1999, 13, 105). Quindi, se sono irrilevanti il modo, la causa o i motivi per cui il soggetto ha conosciuto la notizia, deve, però, trattarsi pur sempre di notizie rientranti nella competenza dell’ufficio (Crespi, A., La tutela penale del segreto, cit., 123; Cocco, G., La tutela penale delle creazioni intellettuali, in Di Amato, A., a cura di, Il diritto penale industriale. Trattato di diritto penale dell’impresa, IV, Padova, 1993, 315; Azzali, G., Prove penali e segreto, Milano, 1967, 59).
L’irrilevanza delle modalità di apprendimento della notizia d’ufficio comporta che il reato sussiste anche nel caso in cui l’agente apprende la notizia abusando della sua qualità, come nel caso in cui egli sfrutta la sua posizione per ottenere confidenze da colleghi oppure fruga in documenti che non siano stati a lui direttamente assegnati per la trattazione e che, quindi, non rientrano nella sua specifica competenza (Benussi, C., I delitti contro la pubblica amministrazione, cit., 665). È, però, da escludere che in ipotesi del genere l’obbligo del segreto si estenda anche alle notizie di altro ufficio o servizio di cui l’agente sia abusivamente venuto a conoscenza (Contra Ducci, T., Rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio, in D’Avirro, A., a cura di, I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Padova, 1999, 332; Romano, M., I delitti contro la Pubblica Amministrazione, cit., 301; Cass., pen., 29.12.1956, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1957, 681; Cass. pen., 9.9.1951, in Giust. pen., 1952, III, 16).
In generale, l’obbligo del segreto è l’obbligo, giuridicamente rilevante, di cui sono titolari uno o più soggetti determinati, di non comunicare a terzi uno specifico dato di esperienza.
L’obbligo che incombe sul p.u. e sull’i.p.s. di mantenere il segreto non riguarda tutte le notizie d’ufficio, in quanto l’art. 326 c.p. fa riferimento esclusivamente a quelle che «debbono rimanere segrete». L’obbligo del segreto, pertanto, non è imposto in via generale ed astratta, bensì trova il suo fondamento in una serie di fonti individuate tradizionalmente nella legge, nei regolamenti, nell’ordine legittimo del superiore, nella consuetudine e persino nella natura stessa della notizia.
L’art. 326 c.p. rinvia, perciò, seppure implicitamente, ad un vasto apparato di norme extrapenali aventi tutte ad oggetto le diverse forme in cui si manifesta quello che sinteticamente suole definirsi il c.d. “segreto pubblico”, ossia quel segreto che fa capo alla P.A. e che, in relazione ai tre settori in cui la stessa esplica i suoi poteri, potremmo suddividere in tre grandi sotto-categorie: il segreto “amministrativo”, “legislativo” ed “investigativo”.
Tra essi quello che merita particolare attenzione è il segreto relativo alla funzione amministrativa, sia in considerazione della sua maggiore incidenza sulla vita dei cittadini (che lo ha portato a diventare una sorta di “categoria-tipo” di segreto pubblico, al punto da essere definito anche come “segreto d’ufficio in senso stretto”), sia in virtù della complessità normativa che lo caratterizza: a differenza del segreto legislativo e di quello investigativo, che sono oggetto di una precisa tipizzazione rispetto a forma, durata, contenuto e competenza, il segreto amministrativo, al contrario, necessità di un’attività esegetica volta alla tipizzazione della categoria.
Nel definire l’ampiezza del segreto amministrativo è necessario riferirsi alla l. n. 241/1990 e s.m.i., la quale, oltre a dettare la disciplina generale del procedimento amministrativo, ha introdotto, nell’ottica dell’attuazione del principio di trasparenza e del miglioramento dei rapporti tra cittadini e P.A., una regolamentazione organica del diritto di accesso. È proprio in relazione al diritto di accesso agli atti della P.A. che va individuato il contenuto del segreto d’ufficio il quale, in concreto, si manifesta sotto forma dei cc.dd. “limiti al diritto di accesso”, a cui è dedicato l’art. 24 della legge suddetta.
Prima di descriverne il contenuto è, però, opportuno individuare innanzitutto la fonte dell’obbligo del “segreto amministrativo”, la quale è rintracciabile nell’art. 15 dello Statuto degli impiegati civili dello Stato (d.P.R. 10.1.1957, n. 3) così come sostituito dall’art. 28 della l. n. 241/1990, che stabilisce che: «L’impiegato deve mantenere il segreto d’ufficio. Non può trasmettere a chi non ne abbia diritto informazioni riguardanti i provvedimenti od operazioni amministrative in corso o concluse ovvero notizie di cui sia venuto a conoscenza a causa delle sue funzioni, al di fuori delle ipotesi e delle modalità previste dalle norme sul diritto di accesso. Nell’ambito delle proprie attribuzioni, l’impiegato preposto ad un ufficio rilascia copie ed estratti di atti e documenti di ufficio nei casi non vietati dall’ordinamento».
Questa norma, che solo apparentemente sembra ribadire l’imposizione agli impiegati pubblici di un generalizzato obbligo al segreto, in realtà innova profondamente rispetto al suo precedente normativo in quanto in essa, per la prima volta, vi è un rinvio espresso alla nuova ed innovativa disciplina sul diritto di accesso ai documenti amministrativi, in chiave di delimitazione dell’obbligo del segreto d’ufficio, la cui portata è stata così ridotta, sussistendo lo stesso soltanto in relazione a specifiche categorie di interessi espressamente indicate all’art. 24 della l. n. 241/1990 e soltanto rispetto a coloro che non si trovino nelle condizioni di cui all’art. 22 della stessa legge, ossia coloro che non abbiano «un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso». L’art. 28, inoltre, conferma la necessità di vincolare l’obbligo al segreto ad una precisa fonte normativa, eliminando quella discrezionalità nell’attività di secretazione che spettava in precedenza al capo servizio.
Ciò che, però, interessa maggiormente in relazione al reato di “rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio” è proprio la delimitazione operata con l’art. 24 della l. n. 241/1990, il quale prevede limiti sia facoltativi che tassativi al diritto di accesso. Di essi, mentre i primi sono stabiliti in modo discrezionale dalla P.A., ma al solo scopo di differire l’accesso ai documenti sino a quando la conoscenza di essi possa impedire o gravemente ostacolare lo svolgimento dell’azione amministrativa, i secondi, invece, sono stabiliti direttamente dal legislatore senza che residui in capo alla P.A. alcun margine discrezionale di apprezzamento e determinano una compressione definitiva del diritto di accesso: ove ricorra uno di tali limiti, finalizzati alla salvaguardia di interessi pubblici fondamentali e prioritari rispetto all’interesse alla conoscenza degli atti amministrativi, il p.u. o l’i.p.s. è, infatti, obbligato a dare risposta negativa alla richiesta di accesso.
La disciplina dei casi di esclusione del diritto di accesso ha trovato, poi, più ampia regolamentazione nell’art. 8 del d.P.R. 27.6.1992, n. 352, emanato in attuazione dell’articolo 24, co. 2, della l. n. 241/1990, alla cui disciplina si rinvia.
A questo proposito va rilevato che, in precedenza, mancando una specificazione delle notizie d’ufficio che dovevano rimanere segrete e, quindi, anche dei comportamenti rilevanti ai sensi dell’art. 326 c.p., l’ambito di applicazione della stessa norma finiva con l’essere rimesso alle scelte della P.A., attribuendo alla fattispecie in esame la natura di norma penale in bianco (Fioravanti, L., Segreto d’ufficio (violazione del), cit., 98; Seminara, S., Commento agli artt. 325 e 326 c.p., cit., 743).
Con l’individuazione delle categorie di interessi per i quali la P.A. è legittimata ad imporre il segreto, il legislatore del 1990 ha realizzato, invece, l’obiettivo di contenere la discrezionalità della P.A. nell’apposizione del segreto e, conseguentemente, di rafforzare l’aderenza dell’art. 326 c.p. al principio costituzionale di legalità.
Le condotte che l’art. 326 c.p. prevede e punisce come possibili modalità di violazione del segreto d’ufficio consistono: a) nel rivelare la notizia d’ufficio che deve rimanere segreta; b) nell’agevolarne la conoscenza da parte di terzi estranei all’ufficio; ovvero c) nell’avvalersi illegittimamente delle stesse notizie.
La rivelazione consiste nel far conoscere ad una o più persone, con un comportamento attivo di specifica propalazione, il contenuto di una notizia d’ufficio che deve rimanere segreta, condotta che risulta integrata qualunque sia il modo con cui avviene la comunicazione della notizia dal p.u o i.p.s. al terzo, potendo essa avvenire attraverso l’uso di qualsiasi forma di linguaggio, scritto od orale, comprensivo persino della comunicazione gestuale.
L’agevolazione nella conoscenza del segreto d’ufficio consiste, invece, in un comportamento, anche di natura omissiva, con cui il p.u. o l’i.p.s. facilitano, rendono possibile o anche solo meno difficile la presa di conoscenza del segreto da parte del terzo, non essendo necessario, invece, che senza la condotta del soggetto agente l’estraneo non sarebbe riuscito, con la sola propria opera, ad ottenere la conoscenza del segreto (Pagliaro, A., Principi di diritto penale, cit., 256; Levi, N., I delitti contro la Pubblica Amministrazione, cit., 346).
Sia la rivelazione della notizia d’ufficio segreta che l’agevolazione della sua conoscenza devono essere realizzate «violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio» o «abusando della qualità» di p.u. o di i.p.s.
In particolare, la «violazione dei doveri inerenti alle funzioni o al servizio» sembra esprimere l’esigenza che, non solo deve esistere un dovere obiettivo per l’ufficio che le notizie rimangano segrete, ma anche che il dovere di mantenere il segreto sia collegato con la specifica posizione soggettiva dell’agente, nel senso che egli e non altri sia obbligato al segreto per conto dell’ufficio. Con ciò, però, non si è voluto escludere la punibilità di colui che rivela una notizia che ha appreso in forza della sua qualità, pur non essendo tenuto al segreto in relazione a quella specifica notizia, tant’è che il legislatore, a questo primo inciso, ha fatto seguire la locuzione «o comunque abusando della sua qualità», la quale va intesa nel senso che il legislatore ha voluto includere nell’ambito di rilevanza della norma anche le ipotesi in cui il soggetto attivo del reato non sia gravato dall’obbligo di mantenere il segreto – in quanto, per esempio, trattasi di segreto relativo ad un ufficio o servizio diverso da quello per il quale egli lavora –, ma, a causa della sua qualità, venga a conoscenza della notizia di cui altri devono assicurarne la segretezza e ne riveli il contenuto (Fioravanti, L., Segreto d’ufficio (violazione del), cit., 104; Benussi, C., I delitti contro la pubblica amministrazione, cit., 660).
Il co. 3 dell’art. 326 c.p., infine, contempla un’autonoma figura criminosa riguardante l’uso illegittimo di notizie d’ufficio le quali debbano rimanere segrete. Avvalersi di una notizia vuol dire utilizzarla o sfruttarla in qualsiasi modo, al punto che risultano del tutto indifferenti le modalità con cui possa estrinsecarsi la condotta dell’agente. L’unico elemento normativo che sembra muovere nella direzione di un contenimento della portata espansiva del termine “avvalersi” è rappresentato dall’avverbio «illegittimamente», con il quale il legislatore qualifica la condotta di utilizzazione.
In realtà, secondo autorevole dottrina, si tratterebbe di un elemento pleonastico, in quanto l’illegittimità dell’utilizzazione non farebbe altro che «ribadire un requisito implicito nella stessa fattispecie incriminatrice, non potendo essere considerata legittima una condotta di sfruttamento di notizie segrete finalizzata ad obiettivi di favoritismo o di prevaricazione» (così Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, pt. spec., cit., 255).
I delitti di cui al co. 1 dell’art. 326 c.p. sono puniti a titolo di dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di rivelare notizie ovvero di agevolarne la conoscenza da parte di terzi. Nessuna altra finalità deve accompagnare il delitto rivelazione di segreto d’ufficio, il quale, diversamente, verrebbe a sovrapporsi alla tipicità offensiva di altri reati. Si pensi, ad esempio, alla condotta di rivelazione di segreto d’ufficio posta in essere con una finalità di profitto: in un caso del genere, ricorrendone i presupposti, tale condotta configurerebbe, a nostro giudizio, una ipotesi di concussione per induzione o di corruzione propria (Maruotti, R.G., Violazione dei segreti d’ufficio, cit., 436 s.; Fioravanti, L., Segreto d’ufficio (violazione del), cit., 106; contra Riccio, S., I delitti contro la Pubblica Amministrazione, Torino, 1955, 118 e, in giurisprudenza, Trib. Napoli, 22.5.1978, in Riv. giur. lav., 1979, IV, 439, che propendono, invece, per il concorso tra il reato di cui all’art. 326, co. 1, c.p. e quelli di cui agli artt. 317 e 319 c.p.).
Il soggetto agente, inoltre, dovrà avere la consapevolezza dei presupposti del reato e, cioè, che si tratti di notizie d’ufficio destinate a rimanere segrete e di agire in violazione dei doveri inerenti alle funzioni o al servizio ovvero abusando della qualità di p.u. o di i.p.s.
Si possono aprire, pertanto, diversi spazi per errori sul fatto che escludono il momento conoscitivo del dolo: il dolo, infatti, sarà escluso tutte le volte che il p.u. ritenga che il suo comportamento non violi alcun dovere di ufficio né implichi un abuso di ufficio, oppure nelle ipotesi in cui egli abbia la falsa convinzione che la notizia non debba rimanere segreta, realizzando così un errore sulla segretezza della notizia, il quale, configurandosi come un errore su norma extrapenale, escluderà il reato ai sensi dell’art. 47, co. 3, c.p. (Levi, N., I delitti contro la Pubblica Amministrazione, cit., 347; Segreto, A., Rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio, cit., 616; Benussi, C., I delitti contro la pubblica amministrazione, cit., 671).
Sul piano dell’elemento psicologico, un elemento di differenziazione tra le due condotte di rivelazione e di agevolazione è introdotto dal co. 2 dell’art. 326 c.p., il quale punisce l’agevolazione anche se commessa con colpa, non prevedendo, invece, la punibilità della rivelazione colposa. Questa scelta è stata oggetto di critiche da parte della dottrina maggioritaria, secondo cui si tratterebbe di una scelta del tutto arbitraria, non risultando comprensibile il motivo dell’irrilevanza della rivelazione colposa (Vigna, P.L.-Dubolino, P., Segreto (reati), cit., 1060; Romano, M., I delitti contro la Pubblica Amministrazione, cit., 299; Pagliaro, A., Principi di diritto penale, cit., 264; Mucciarelli, F., Commento agli artt. 325 e 326 c.p, cit., 315). Ad ogni modo, sebbene la limitazione della punibilità della condotta di rivelazione esclusivamente al titolo doloso non sembra razionalmente giustificabile, essa, tuttavia, non pare avere reali conseguenze pratiche, dal momento che la rivelazione colposa della notizia è facilmente riconducibile ad una forma di agevolazione colposa della conoscenza altrui (Romano, M., I delitti contro la Pubblica Amministrazione, cit., 307; Maruotti, R.G., Violazione dei segreti d’ufficio, cit., 438).
A differenza delle figure criminose contemplate al co. 1, l’utilizzazione di segreti d’ufficio è punita a titolo di dolo specifico, previsto, però, in forma alternativa, con conseguente sdoppiamento della fattispecie in due autonome figure di reato, diversamente sanzionate: nella prima, il fine preso di mira consiste nel «procurare a sé o ad altri un indebito profitto patrimoniale», ossia un profitto che non sia dovuto né comunque giustificabile (la c.d. “finalità affaristica”); nella seconda, invece, questo fine consiste nel «procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto non patrimoniale o di cagionare ad altri un danno ingiusto» (la c.d. “finalità di favoritismo o di prevaricazione”). Le finalità in questione coincidono quasi del tutto con quelle dell’abuso d’ufficio ante riforma di cui alla l. 16.7.1997, n. 234 e, parzialmente, anche con quelle previste nell’attuale fattispecie di cui all’art. 323 c.p. (sul delitto di abuso d’ufficio si veda per tutti Manna, A., Abuso d’ufficio e conflitto d’interessi nel sistema penale, Torino, 2004), al punto che si può ritenere che i requisiti soggettivi contenuti nelle due norme abbiano identico contenuto, nonostante la loro dizione sia parzialmente diversa. Per quanto riguarda la nozione di «profitto», sebbene essa sembra rinviare, almeno da un punto di vista terminologico, ad una sfera strettamente economica, in realtà, nella fattispecie in esame tale concetto va letto come sinonimo di “vantaggio”, ossia secondo una concezione più ampia e generica, la quale, semmai, tende a colorarsi a seconda che il legislatore faccia espresso riferimento ad un profitto di tipo «patrimoniale» (come nella prima delle due fattispecie di utilizzazione di segreti d’ufficio) ovvero «non patrimoniale» (come accade nella seconda).
Il profitto, sia esso patrimoniale o non patrimoniale, deve essere «indebito» ovvero «ingiusto». Sul significato da attribuire ai suddetti aggettivi sono state proposte due possibili interpretazioni.
Una prima proposta interpretativa, diretta a valorizzare l’autonomia di questi elementi, ritiene che con tali aggettivi la norma abbia voluto rivestire l’elemento soggettivo di illiceità speciale: in altri termini l’ingiustizia del profitto avrebbe una sua autonomia rispetto all’illegittimità dell’uso delle notizie segrete e sarebbe finalizzata a rafforzare la funzione selettiva del dolo specifico, in quanto il legislatore introducendo il requisito dell’ingiustizia del profitto avrebbe inserito nella struttura della fattispecie la c.d. “doppia ingiustizia”, nel senso che deve essere contra legem non solo la condotta, ma anche il fine perseguito dall’agente, sicché il reato non sussisterebbe nel caso in cui il fine di danno o di vantaggio non sia di per sé ingiusto (Padovani, T., La riforma dell’abuso innominato e dell’interesse privato, in Stile, A.M., a cura di, La riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione, Napoli, 1987, 160; Grosso, C.F., L’abuso d’ufficio, in Riv. it. dir. proc. pen., 1991, 322; Picotti, L., Il dolo specifico nel “nuovo” abuso d’ufficio, in Coppi, F., a cura di, I reati contro la Pubblica Amministrazione, Torino, 1993, 280; Cass., pen., 16.3.1995, in Riv. pen., 1996, 93; Cass., pen., 13.6.1996, in Guida dir., 1996, 21, 96; Cass., pen., 19.4.1995, in Riv. pen., 1995, 1452). A nostro giudizio, però, ad intendere in questo modo si finisce per attribuire agli aggettivi «indebito» e «ingiusto» un significato tale da consentire una valutazione del requisito del “profitto” in termini di antigiuridicità materiale, connesso quindi all’apprezzamento di esigenze politico-criminali da affidare alla logica del caso per caso, in evidente conflitto con le più elementari esigenze di rispetto del principio di tassatività (Maruotti, R.G., Violazione dei segreti d’ufficio, cit., 440).
È sicuramente da preferirsi, pertanto, il diverso orientamento interpretativo che considera pleonastico il riferimento all’ingiustizia del profitto, in quanto non può essere in alcun caso giusto ciò che costituisce il risultato di un’attività contraria agli scopi istituzionali della P.A.. Il requisito della natura indebita o ingiusta del vantaggio appare, perciò, ridondante, posto che in ogni caso il fatto presuppone una cosciente violazione dei doveri funzionali o un abuso della qualità, che non può non riflettersi sul profitto perseguito. Si tratterebbe, pertanto, di una pleonastica riaffermazione dell’antigiuridicità del fatto (Mucciarelli, F., Commento agli artt. 325 e 326 c.p, cit., 321 s.; Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, parte speciale, cit., 254; Seminara, S., Commento all’art. 326 c.p., cit., 956).
Per quanto riguarda, infine, il «danno ingiusto», va rilevato che, dall’assenza di qualunque specificazione circa la natura del danno, si ricava che il pregiudizio arrecato a terzi può avere carattere sia patrimoniale che non patrimoniale, dal che deriva che il terzo sia tutelato anche nei confronti del pubblico funzionario che agisce allo scopo di arrecargli pregiudizi privi di rilevanza patrimoniale.
I delitti di rivelazione e di utilizzazione si consumano nel momento e nel luogo in cui il terzo estraneo all’ufficio o al servizio viene a conoscenza della notizia che deve rimanere segreta ovvero il p.u. o l’i.p.s. si avvale abusivamente della notizia, in qualunque modo ciò avvenga.
Ciò che conta ai fini della realizzazione dei reati in oggetto è, pertanto, che la notizia d’ufficio segreta venga divulgata o utilizzata al di fuori delle sfere istituzionali entro le quali deve rimanere circoscritta: irrilevante è, perciò, che la notizia abbia o meno raggiunto un tale livello di diffusione da poter essere ormai considerata notoria, essendo sufficiente che essa sia portata a conoscenza anche di una persona soltanto od utilizzata senza che altri ne apprendano il contenuto (Pagliaro, A., Principi di diritto penale, cit., 266). Prima di tale momento, sia per la rivelazione che per l’agevolazione – solo se dolosa –, nonché per l’utilizzazione, è configurabile il tentativo. In ogni caso, la consumazione prescinde dal verificarsi di un danno per la P.A. o per i terzi, dovendo, però, accertarsi quantomeno la messa in pericolo del bene giuridico tutelato.
Un tema particolarmente controverso è quello che riguarda la posizione del destinatario della rivelazione o dell’agevolazione. L’argomento è stato oggetto di un ampio dibattito sia in dottrina che in giurisprudenza, al fine di stabilire se il terzo estraneo cui venga rivelato il segreto sia punibile o meno. Sul punto si sono sviluppati tre diversi filoni interpretativi.
Secondo una prima tesi, il terzo estraneo non è punibile per la semplice ricezione della notizia, in quanto, in virtù del brocardo latino ubi lex dixit voluit ubi tacuit noluit, in difetto di un’espressa previsione normativa circa la punibilità di colui che ottiene la notizia, si deve ritenere che il legislatore abbia voluto escludere la punibilità del destinatario della notizia: ne sono una riprova il fatto che laddove il legislatore ha ritenuto meritevole di sanzione anche la condotta di chi si limita a ricevere la notizia ne ha previsto espressamente la punibilità, come nel caso dei delitti di “Rivelazione di segreti di Stato” di cui all’art. 261 c.p. e di “Rivelazione di notizia di cui sia stata vietata la divulgazione” ex art. 262 c.p. (Pannain, R., I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Napoli, 1966, 189; Foschini, G., Rivelazione e recezione di segreto, in Arc. pen., 1966, I, 21 ss.; Frosali, R.A., Concorso di persone nel reato, in Nss. D. I., III, Torino, 1964, 1040; Frisoli, F.P., In tema di rivelazione di segreti d’ufficio, in Riv. it. dir. pen., 1935, 216; Pisapia, G.D., Il segreto istruttorio nel processo penale, Milano, 1957, 304; Crespi, A., La tutela penale del segreto, Palermo, 1952, 62).
A questo primo orientamento se ne è contrapposto un altro, rimasto sostanzialmente isolato, secondo cui chi ottiene la rivelazione, al pari di chi si avvale dolosamente dell’agevolazione, coopera alla violazione del segreto d’ufficio e quindi sarebbe punibile, per il solo fatto della ricezione della notizia, al pari dell’intraneus (Manzini, V., Trattato di diritto penale italiano, V, V ed., Torino, 1982, 317).
Tra i due filoni interpretativi appena delineati ha finito per prevalere un terzo orientamento, che potremmo definire intermedio, il quale, partendo dalla tesi della non punibilità e facendo corretta applicazione della teoria del concorso di persone nel reato, ritiene che il terzo estraneo a cui venga rivelato il segreto d’ufficio sia punibile non per la mera ricezione o utilizzazione della notizia ma solo se, in base ai principi di cui all’art. 110 c.p. e seguenti, abbia contribuito come istigatore o agevolatore alla commissione del reato, così assumendo la qualifica di concorrente (Romano, M., I delitti contro la Pubblica Amministrazione, cit., 307; Pagliaro, A., Principi di diritto penale, cit., 266; Mucciarelli, F., Commento agli artt. 325 e 326 c.p, cit., 311). Questa tesi ha il pregio di tenere ben distinte da un lato la posizione, non penalmente sanzionabile, del soggetto che si limita a ricevere la notizia d’ufficio che deve rimanere segreta o che, così ricevutala, ne faccia uso; dall’altro lato la posizione del soggetto che determina o istiga il pubblico funzionario a rivelare la notizia o ad agevolarne la conoscenza o, ancora, ad utilizzarla a fini di profitto o di danno, per il quale non possono non trovare applicazione i normali principi del concorso eventuale di persone nel reato.
Sul punto hanno avuto modo di pronunciarsi anche le SS.UU. della Corte di Cassazione, le quali hanno statuito che la punibilità di chi riceve la notizia deve ammettersi soltanto qualora il soggetto medesimo non si sia limitato ad ottenere la notizia segreta, ma abbia realizzato un fatto ulteriore, ancorché atipico, idoneo a realizzare un’ipotesi di partecipazione morale (Cass., S.U., 28.11.1981, Isman, in Foro it., 1982, II, 359. In seguito negli stessi termini Cass., S.U., 19.1.1982, Emiliani, CED 151619, in Cass. pen., 1982, 423; Cass., pen., 20-1-1982, Maffei, in Arch. Pen., 1982, 792; Trib. Bologna, 18.7.1994, Leonelli, in Giur. mer., 1995, 85, con nota di Sambugaro, M.M., Terzo ricettore di rivelazioni di segreti d’ufficio; Cass., pen., 28.1.1999, Solinas, in Guida dir., 1999, 11, 104).
Per quanto riguarda il concorso di reati, tralasciando in questa sede le questioni inerenti i rapporti che si instaurano tra le quattro diverse figure di reato contemplate dall’art. 326 c.p., e passando all’esame dei cc.dd. “rapporti esterni”, va rilevato che il delitto de quo è suscettibile di interferire con un’ampia serie di fattispecie.
Viene in rilievo, innanzitutto, il rapporto che si instaura tra la norma in esame, in particolare il co. 3, e il delitto di “utilizzazione d’invenzioni o scoperte conosciute per ragione di ufficio” di cui all’art. 325 c.p.. Tra le due fattispecie sussistono notevoli analogie: identici sono i soggetti attivi (in entrambi i casi si tratta di reati propri che possono essere commessi soltanto dal p.u. o dall’i.p.s.); sostanzialmente identica è anche la condotta, descritta ricorrendo a verbi diversi ma che si presentano come sinonimi («impiegare a proprio o ad altrui profitto» ed «avvalersi»); diverso è, invece, l’oggetto materiale della condotta abusiva, in quanto, mentre nell’art. 326 c.p. esso è rappresentato da tutte le notizie d’ufficio che devono rimanere segrete, nell’art. 325 c.p., invece, viene in rilievo soltanto quella particolare categoria di segreti d’ufficio consistente nelle «invenzioni o scoperte scientifiche o nuove applicazioni industriali», le quali rappresentano, come è evidente, una species del più ampio genus delle notizie d’ufficio segrete. Si tratta, pertanto, come è stato già evidenziato nel § 1, di un’ipotesi di specialità per specificazione che comporta, in virtù dell’art. 15 c.p., la sola applicazione dell’art. 325 c.p. quando la condotta ha ad oggetto appunto invenzioni, scoperte scientifiche o nuove applicazioni industriali.
Le fattispecie della rivelazione o dell’utilizzazione delle notizie segrete d’ufficio si pongono, a loro volta, come disposizioni speciali rispetto al delitto di “abuso d’ufficio”, configurandosi anche in questo caso un’ipotesi di concorso apparente di norme e non un concorso formale di reati. Sebbene, infatti, l’attuale abuso d’ufficio non richieda più soltanto il dolo specifico di profitto o di danno, bensì l’intenzionale realizzazione di un ingiusto vantaggio patrimoniale per sé o per altri o un danno ingiusto a terzi, tuttavia, avendo la nuova disposizione conservato la clausola di riserva «salvo che il fatto non costituisca un più grave reato», se il p.u. o l’i.p.s. utilizza illegittimamente una notizia d’ufficio che deve rimanere segreta e da tale utilizzazione, che deve comunque essere ispirata al fine di procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale, derivi effettivamente un tale vantaggio, dovrà applicarsi, in virtù del principio di sussidiarietà, soltanto l’art. 326, co. 3, prima parte, c.p. che prevede un reato più grave. Laddove, invece, il fine sia di arrecare ad altri un danno ingiusto e tale danno si verifichi davvero, si applicherà sempre l’art. 326, co. 3, ma non nella sua prima, bensì nella seconda parte, questa volta, però, non in applicazione del principio di sussidiarietà ma in forza del principio di specialità di cui all’art. 15 c.p., essendo l’art. 326, co. 3, seconda parte, c.p. norma speciale rispetto all’art. 323 c.p., consistendo la specialità nel particolare tipo di abuso, dato appunto dall’impiego illegittimo della notizia, in cui si sostanzia la condotta di utilizzazione del segreto d’ufficio (Romano, M., I delitti contro la Pubblica Amministrazione, cit., 313; propende, invece, per la tesi del conflitto apparente di norme da risolversi applicando unicamente l’art. 326 c.p. la dottrina maggioritaria, Vigna, P.L.-Dubolino, P., Segreto (reati), cit., 1061; Seminara, S., Commento all’art. 326 c.p., cit., 957; Mucciarelli, F., Commento agli artt. 325 e 326 c.p, cit., 325; Benussi, C., I delitti contro la pubblica amministrazione, cit., 679; e la giurisprudenza, Cass., pen., 26.8.1997, Palombo, CED 209757, in Cass. pen., 1999, 540; Cass., pen., 24.11.1981, Maio, CED 151109, in Giust. pen., 1982, II, 454).
Sempre in tema di rapporti tra delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A., il delitto di rivelazione di segreti d’ufficio può concorrere con i delitti di “concussione” (art. 317 c.p.) tutte le volte che il pubblico funzionario, abusando della sua qualità o delle due funzioni, induca il privato, attraverso la rivelazione di un segreto d’ufficio, a dare o a promettere l’indebito; “corruzione propria” (art. 319 c.p.) tutte le volte che la rivelazione del segreto è conseguenza della ricezione di utilità; nonché con il delitto di “favoreggiamento personale” (art. 378 c.p.) la cui condotta, pur potendo comprendere anche quella di rivelazione di segreti d’ufficio, tuttavia «conserva, agli effetti del concorso formale di reati, la sua autonomia, sicché deve escludersi l’assorbimento per specialità del reato di rivelazione in quello di favoreggiamento» (così Cass., pen., 20.5.1998, Arnetta, CED 211958, in Riv. pen., 1999, 393; nello stesso senso anche Seminara, S., Commento all’art. 326 c.p., cit., 957; Cerqua, L.D., Commento agli artt. 325 e 326 c.p., cit., 1043; Romano, M., I delitti contro la Pubblica Amministrazione, cit., 312).
È da escludere, invece, il concorso formale tra il delitto di cui all’art. 326 c.p. e la contravvenzione di «pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale», in quanto, nel caso in cui la rivelazione avviene con la pubblicazione la fattispecie di cui all’art. 684 c.p. risulta assorbita da quella dell’art. 326 c.p. in base al principio di consunzione o del c.d. ne bis in idem sostanziale (Romano, M., I delitti contro la Pubblica Amministrazione, cit., 312; Kostoris, S., Il segreto come oggetto della tutela penale, Padova, 1964, 25; Maruotti, R.G., Violazione dei segreti d’ufficio, cit., 452. Contra Vigna, P.L.-Dubolino, P., Segreto (reati), cit., 1061; Seminara, S., Commento all’art. 326 c.p., cit., 957; Di Martino, A., Commento all’art. 326 c.p.,cit., 275; Cass., pen., 19.1.1982, Emiliani, CED 151618, in Giust. pen., 1982, III, 135).
Per quanto riguarda, invece, il rapporto tra l’art. 326 c.p. e le norme che tutelano altri tipi di segreto come il segreto di Stato (art. 261 c.p.) o il segreto attinente alla corrispondenza postale, telegrafica o telefonica (artt. 619 e 620 c.p.), l’art. 326 c.p. si pone come norma generale trovando perciò applicazione le norme suddette in quanto speciali.
Artt. 325 e 326 c.p.; artt. 118, 201, 289 e 329 c.p.p.; art. 184, d.lgs. 24.2.1998, n. 58; art. 15 d.P.R. 10.1.1957, n. 3; art. 22, 24 e 28 l. 7.8.1990, n. 241; art. 8 d.P.R. 27.6.1992, n. 352.
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