Virgilio
Il primato assoluto di V. nella cultura dell’Europa latina ha permesso uno status unico nella conservazione della sua opera, la cui tradizione manoscritta parte da due codici antichissimi, quasi completi, il Mediceo Laurenziano Lat. 39, del 5° sec. (M), e il Vaticano Palatino Lat. 1631, del 4° o 5° sec. (P); l’editio princeps, uscita senza data dal laboratorio romano di Conrad Sweynheym e Arnold Pannartz, si può collocare nel 1468-69. La prima edizione datata è la veneziana del 1470 (Vindelino de Spira). Tra Quattrocento e Cinquecento si susseguono decine di edizioni, sia delle opere sia dei commenti (Mambelli 1954 registra 150 incunaboli e 328 cinquecentine), tra le quali spiccano quella curata da Cristoforo Landino (Firenze 1487), quella di Filippo Giunta (a cura di Benedetto Riccardini detto il Philologo), del 1510, e la rara e pregiata aldina del 1514, con dedica a Pietro Bembo.
V. è autore presente in vari luoghi dell’opera di Machiavelli. Senza contare l’Asino (→), in cui il ruolo-guida della Duchessa è esemplato su quello del V. dantesco, citazioni esplicite sono sia nelle opere politiche e storiche, dove contribuiscono a creare forti riscontri tradizionali al ragionamento di M., sia nell’epistolario e nelle opere minori, dove invece evidenziano la pervasività delle opere di V. (non più solo l’Eneide) nella cultura anche pratica e quotidiana dell’uomo del Cinquecento.
Principe xvii 5-6: «E in fra tutti e’ principi al principe nuovo è impossibile fuggire il nome di crudele, per essere gli stati nuovi pieni di pericoli. E Vergilio nella bocca di Didone dice: “Res dura et regni novitas me talia cogunt / moliri et late fines custode tueri” [Eneide I 563-64]». Perfetta corrispondenza tra citazione e argomento: Didone accoglie i Troiani giustificando la sua apparente crudeltà con la cogenza della situazione e della regni novitas: la regina è un autentico ‘principe nuovo’.
Discorsi I xxi 10: è la fine del capitolo in cui M. biasima lo stato privo di armi proprie evidenziando esempi positivi di capi che hanno saputo fare buoni soldati dei loro cittadini: «E Virgilio non potrebbe meglio esprimere questa opinione, né con altre parole mostrare di accostarsi a quella, dove dice: “Desidesque movebit / Tullus in arma viros” [Eneide VI 813-14]». Giorgio Inglese (ad locum, ed. 1984, p. 235) giustifica il termine desides, molto diffuso nell’opera di Livio, al posto del tràdito (e presente nelle prime stampe, come la giuntina) resides.
Discorsi I liv 2: è l’inizio del capitolo in cui M. ragiona sulla capacità dell’uomo ‘grave’ di frenare una rivolta grazie al rispetto che suscita negli altri: «Il secondo notabile [...] è che veruna cosa è tanto atta a frenare una moltitudine concitata quanto è la riverenzia di qualche uomo grave e di autorità che se le faccia incontro; né sanza cagione dice Virgilio: “Tum pietate gravem ac meritis si forte virum quem / conspexere, silent, arrectisque auribus adstant” [Eneide I 151-52]». Il riferimento virgiliano fa parte di una similitudine in cui il mare in tempesta si placa sotto lo sguardo di Nettuno.
Discorsi II xxiv 11: allo stesso passo sopra citato appartiene la citazione implicita «furor arma ministrat» (Eneide I 150), in cui M. mette in guardia il politico dall’eccessiva fiducia nei confronti delle fortezze, che non possono frenare l’impeto di un popolo in rivolta.
Altro riferimento implicito si può riconoscere nell’Allocuzione ad un magistrato, § 7, che risale verosimilmente al 1519-20: «Dipoi, mancando le virtù e surgendo i vizii, [gli dèi] cominciorno a poco a poco a ritornarsene in cielo e l’ultimo che si partì di terra fu la Iustitia». I critici (cfr. Peirone 1987) offrono il parallelo con Georgiche II 473-74 («extrema per illos / Iustitia excedens terris vestigia fecit»). Per i problemi relativi al tema della Giustizia nell’Allocuzione, e alla fitta rete di rimandi intertestuali ivi presente, si rimanda alla densissima disamina di Sasso 1997.
Interessanti i riferimenti virgiliani nell’epistolario di M., esempi di una presenza costante di V. nella memoria e nella costruzione del pensiero degli uomini di cultura del Rinascimento, che, nel loro dialogo privato, si servono con naturalezza di un linguaggio forbito e allusivo, ricco di citazioni. Nella lettera di Agostino Vespucci a M. (16 luglio 1501), il timore di papa Alessandro VI per i Turchi, le cui scorrerie sono arrivate in Veneto, è reso espressivo dalla citazione (imprecisa) «Heu quae me tellus, que me equora possunt accipere?» (patetiche parole di Sinone in Eneide II 69-70).
Francesco Vettori a M. (16 genn. 1515) allude alla condizione dell’amico innamorato con il notissimo verso «Ah, Coridon, Coridon, quae te dementia cepit?» (Bucoliche II 69).
Sempre Vettori a M. (7 ag. 1526) cita indirettamente il proverbiale Eneide II 12: «Voi mi dite che desidereresti intendere come è successo apunto il caso di Siena, il che, quamquam animus meminisse horret, m’ingegnerò scrivervi» (Enea sembra quasi ‘prendere fiato’ prima di immergersi nel terribile racconto della caduta di Troia). M. a Bartolomeo Cavalcanti (probabilmente 6 ott. 1526) usa un riferimento indiretto al noto episodio della tempesta nell’esordio dell’Eneide, I 64-75: «[...] onde noi aremmo bisogno che Junone andasse a pregare Eolo per noi, e promettessigli la Contessa e quante dame ha Firenze, perché dessi la scapola a’ venti in favor nostro». Corrado Vivanti (Lettere, p. 1643 nota 11) illustra il parallelismo con Giunone che «implora Eolo di dare la stura (‘scapula’) ai venti, così da disperdere e far naufragare le navi di Enea»; in cambio del favore, è disposta a dare a Eolo la più bella delle ninfe al suo seguito (a cui alluderebbe ‘la Contessa’, identificata congetturalmente con Contessa – Tessa – di Antonio Castellani, moglie di Piero Altoviti).
Specifico interesse lessicale rivela il Dialogo intorno alla nostra lingua, dove Dante afferma che «In una opera grande, è lecito usare qualche vocabolo esterno, come fece Vergilio quando disse: “Troica gaza per undas” [Eneide I 119, dove però i mss. hanno Troia, con la dieresi]». «Gaza», tesori, traslitterazione dal greco, è termine di origine persiana.
Il v. 18 del canto carnascialesco De’ diavoli iscacciati di cielo è l’ormai tradizionale «Amor vince ogni cosa» (Bucoliche X 69).
Proverbiale è anche il riuso di Georgiche IV 176, «Si parva licet componere magnis» (ma cfr. anche Bucoliche I 23) in Istorie fiorentine III i (per il concetto cfr. Principe ix):
Le gravi e naturali nimicizie che sono intra gli uomini popolari e i nobili, causate da il volere questi comandare e quegli non ubbidire, sono cagione di tutti i mali che nascano nelle città, perché da questa diversità di umori tutte l’altre cose che perturbano le repubbliche prendono il nutrimento loro. Questo tenne disunita Roma; questo, se gli è lecito le cose piccole alle grandi agguagliare, ha tenuto diviso Firenze.
Bibliografia: G. Mambelli, Gli annali delle edizioni virgiliane, Firenze 1954; G. Sasso, Per due citazioni machiavelliane, in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 4° vol., Milano-Napoli 1997, pp. 269-98. Si vedano inoltre le seguenti voci della Enciclopedia virgiliana, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1984-1991: F. Piccirillo, Edizioni, 2° vol., 1985 ad vocem; L. Peirone, voce Machiavelli, 3° vol., 1987; P. Procaccioli, Rinascimento, 1. Letteratura, 4° vol., 1988, ad vocem.