VISCONTI DI MODRONE, Luchino (Luchino Visconti). – Luchino, conte di Lonate Pozzolo, nacque il 2 novembre 1906 a Milano, in casa della nonna materna Anna Erba, in via Marsala. Era il quartogenito di sette fratelli: oltre a lui, Guido del 1901, Anna del 1903, Luigi del 1905, Edoardo del 1908, Ida del 1916, Uberta del 1918, prediletta dal regista, in seconde nozze coniugata al compositore Franco Mannino. Suo padre Giuseppe (v. la voce in questo Dizionario)
era duca di Grazzano, secondogenito del duca Guido Visconti di Modrone. La madre era Carla Erba, della ricca famiglia di industriali farmaceutici e nipote di Giulio Ricordi, erede e responsabile della casa editrice. I suoi genitori si sposarono nel 1900.
Il nonno di Luchino, Guido, era stato presidente del comitato organizzativo del Teatro alla Scala, lo zio Uberto scrisse un saggio di iconografia verdiana e lo zio Guido era un direttore d’orchestra dilettante. Dunque la competenza musicale dilagava nella famiglia da entrambi i rami, rafforzata nei figli dalle quotidiane lezioni organizzate dalla madre, tra le sei e le otto della mattina. A quattordici anni fece parlare di sé per un saggio nella scuola di violoncello, come riporta il quotidiano milanese La Sera l’8-9 giugno 1920. Nel palazzo milanese in via Cerva 44 (oggi via Cino del Duca 8), dove si insediarono gli sposi, venne presto allestito un palcoscenico privato in cui si recitavano commedie, pure in dialetto milanese. Nel cast, la primadonna era quasi sempre Carla. Il teatro entrò dunque quale aristocratico gioco familiare. Per Visconti, in fondo, al di là delle sfarzose magioni abitate, tra la villa romana in via Salaria e la Torre Araba, La Colombaia a Ischia, era la scena, specie durante i minuziosi allestimenti, la sua autentica dimora.
Dopo le scuole elementari fatte privatamente, frequentò il ginnasio Berchet, senza mai conseguire la maturità. Nel 1926 venne arruolato per il servizio militare (dove fu un autorevolissimo sergente) e l’anno dopo si iscrisse alla Scuola di applicazione di Cavalleria di Pinerolo. Nel 1928 collaborò in qualità di attrezzista e di arredatore alla messa in scena della goldoniana La moglie saggia allestita dalla Compagnia d’arte di Milano. Nel 1929, un incidente di macchina con lui alla guida, nel quale perse la vita il suo autista costretto da un suo puntiglio a viaggiare con lui, gli creò un fortissimo senso di colpa, così da spingerlo a una lunga escursione nel Sahara per vincere i rimorsi. Al rientro, furono i cavalli a sollevarlo dall’abbattimento, tanto da fargli investire grosse somme nell’acquisto e nell’allevamento, avviato nel 1930, di purosangue da corsa con cui vinse importanti premi. La sua scuderia, dai colori bianchi e verdi, ottenne nel 1932 il Gran premio Città di Milano e quello di Ostenda. Con i puledri per certi versi si esercitò nell’arte del comando, poi trasferito nel dominio sugli attori.
A Parigi, nell’estate del 1936, nel clima politico del Front populaire, tramite l’amica Coco Chanel avvicinò il regista cinematografico Jean Renoir, che lo incaricò di occuparsi dei costumi, quale secondo assistente non retribuito, per Une partie de campagne tratto da un racconto di Guy de Maupassant e per Les bas fonds da Maksim Gor′kij. Seguirono nel 1937 una crociera in Grecia e un soggiorno nell’inverno 1937-38 negli Stati Uniti, comprensivo di una sosta a Hollywood. Il 16 gennaio 1939 moriva a Cortina d’Ampezzo la madre, separata da tempo dal marito, rottura provocata da reciproci tradimenti, con strascichi giudiziari per la proprietà delle azioni farmaceutiche, trauma immedicabile per Luchino.
Carla costituì per lui un fantasma proustiano, inseguito nelle tante prime donne, tra schermo, ribalta e belcanto, che faceva innamorare perdutamente di sé quasi sempre senza mai concedersi, saziando altrove la propria prorompente sensualità, e nondimeno intrattenendo con queste stelle, da Marlene Dietrich a Maria Callas e Anna Magnani, nonché dalla stilista Chanel alla scrittrice Elsa Morante, legami molto intensi.
Nell’aprile dello stesso anno si trasferì a Roma per collaborare alla sceneggiatura del film Tosca, ancora con Renoir, e visionare i luoghi del set, progetto interrotto bruscamente dallo scoppio della guerra e portato a termine dal primo assistente Carl Koch. Nel 1941, mentre liquidava gli ultimi cavalli di sua proprietà, con Giuseppe De Santis e Dario Puccini iniziò la collaborazione alla rivista Cinema. Frequentando un piccolo nucleo che comprendeva pure Mario Alicata, Umberto Barbaro, Pietro Ingrao, destinati alla militanza nella Resistenza, fu spinto verso posizioni di sinistra, dopo una precedente infatuazione estetica per la disciplina e le parate geometriche in auge nella Germania hitleriana. Con costoro si lanciò febbrilmente in una serie di soggetti cinematografici rimasti irrisolti, da Le grand Meaulnes di Alain-Fournier a Herr und Hund (Cane e padrone) di Thomas Mann. Il 16 dicembre 1941 morì il padre. Il 15 giugno 1942 iniziò le riprese di Palude, divenuto alla fine Ossessione, uscito in sala nel 1943, tratto dall’americano The postman always rings twice di James M. Cain e collocato in territorio ferrarese.
Dove mancavano i supporti finanziari, sopperirono i gioielli di famiglia. Nelle riprese, creò tensioni insolite (per il cinema d’epoca) e alchimie sensuali tra Massimo Girotti, esibito in tutta la sua avvenenza nel ruolo del vagabondo Gino, e Giovanna, la livida e frustrata moglie di Giuseppe Bragana, l’oste di campagna, destinato a essere ucciso dalla coppia adultera. Clara Calamai, vamp del tempo, chiamata nel ruolo in sostituzione di Magnani impossibilitata in quanto incinta, accettò nondimeno di farsi ingrigire e di mostrarsi struccata. Il tutto ambientato nella cupezza di una provincia desolata, con la demolizione della famiglia, l’assenza di personaggi positivi e rimandi alla filmografia francese fine anni Trenta.
L’8 settembre del medesimo anno Visconti entrò a far parte del Comitato per l’assistenza ai perseguitati antifascisti. Cercò in quei giorni, assieme alla sorella Uberta, di attraversare le linee per raggiungere l’esercito alleato al Sud, nascondendosi quindi in montagna per mesi. Rientrò a Roma nel febbraio del 1944, sotto falso nome, riprendendo contatti con la Resistenza. Due mesi dopo venne arrestato e trasferito nel carcere di S. Gregorio, da cui uscì nel giugno all’arrivo degli alleati in città, forse anche per il cedimento dell’attrice Maria Denis, sua devota e servizievole amica, ai desideri di Pietro Koch, capo della Squadra speciale degli aguzzini fascisti.
Di fatto autodidatta, giunto tardi al palcoscenico professionistico, a non tener conto di saltuarie collaborazioni nel 1936 da scenografo con la compagnia di Romano Calò, finanziata dal padre, sempre e comunque in alternanza alla parallela carriera cinematografica, si affacciò sul teatro con una realizzazione tutta sua, il 30 gennaio 1945, I parenti terribili di Jean Cocteau al teatro Eliseo di Roma, in una città devastata dai bombardamenti.
Fu un debutto sconvolgente e di enorme successo (restandovi un mese, fatto inusitato) il suo, singolare impasto di eleganza e di violenza, in quanto da modernizzatore infrangeva tradizioni inveterate di signorilità e di compostezza. Al loro posto, invece, faceva trionfare il disordine che trasudava da interni squallidi, da letti sfatti e maleodoranti, da biancheria vecchia stipata dentro i cassetti. Anche la star Andreina Pagnani, come in precedenza Calamai, venne costretta a mostrarsi senza il cerone, con i capelli trasandati. In più, una precisione maniacale nel forgiare le posture degli attori, a dettare il ritmo delle battute, da lui imposto agli interpreti su esemplificazioni personali durante interminabili letture a tavolino, valorizzando i dettagli come se disponesse della cinepresa. La vicenda presentata, infine, era un misto di melodramma esasperato e di grand guignol manierato, l’incesto accennato tra una madre apprensiva e un figlio viziato, e la rivalità di quest’ultimo con il padre per il possesso di una donna più grande del ragazzo.
A guerra non ancora finita, tra le macerie della dittatura, il pubblico sembrava riscoprire la confusione emotiva di vincoli morbosi, celati prima dal regime. Agevolato dalla consulenza preziosa di Gerardo Guerrieri, culturalmente aperto a molteplici suggestioni oltre che traduttore dall’inglese e dal russo, Visconti si lanciò subito dopo in un repertorio eterogeneo, teso ad assimilare, dopo tanta autarchia, titoli stranieri. Nel solo ottobre del 1945 prelevò dalla Francia il raggelato vaudeville di Jean Anouilh, Antigone, con gli attori seduti su due panche in abiti moderni (nel 1947 anche Euridice, sempre negli adattamenti anacronistici del mito antico), così come il provocante Cocteau di La macchina infernale sulla provincia devastata dai pettegolezzi, e Jean-Paul Sartre di A porte chiuse con il terzetto infernale che si tormenta in un aldilà simbolico, sino ad Adamo di Marcel Achard, nella riprovazione a volte urlata da parte della sala. Al virile Vittorio Gassman fece indossare una parrucca bionda, con qualche citazione recitativa da Memo Benassi, e continue sospensioni delle recite sia a Milano, con l’intervento della celere, sia a Venezia, dove si mosse il patriarca in persona.
Ancor più numerose le scelte nel territorio americano, dove soffiava il vento appestante delle periferie sociali. Qui, i copioni andavano da Quinta colonna di Ernest Hemingway, nel marzo del 1945, dal taglio giornalistico e scandito in quadri, con Vivi Gioi poco a suo agio e un monocorde Carlo Ninchi, sulla guerra in Spagna, alla cenciosa Via del tabacco da Erskine Caldwell nel dicembre del 1945, fermentante di appetiti primordiali, all’intimismo rabbioso di Zoo di vetro di Tennessee Williams nel dicembre del 1946, con il recupero di Tatiana Pavlova, mitica docente all’Accademia D’Amico nell’anteguerra e strappata al suo mesto ritiro.
L’attrice ucraina rese con grande trasporto la madre ansiosa della figlia zoppa, affidata all’apatia sublime di Rina Morelli, vanamente interessata al collega del fratello, il giovane e sfolgorante Giorgio De Lullo, di cui il regista si innamorò ricambiato.
E ancora dal nevrotizzante Un tram che si chiama desiderio di Williams nel gennaio del 1949, sempre con Morelli-Blanche in preda al proprio autistico vaneggiamento, a Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller nel febbraio del 1951, con Paolo Stoppa irresistibile nei panni dell’omino qualunque, a esibire l’impotenza economica e l’insostenibile accumulo di tensioni domestiche. Analogo, felice accoppiamento tra drammaturgo americano e allestitore nel Crogiolo del novembre del 1955 sull’intolleranza maccartista retrodatata nel Seicento, e in Uno sguardo dal ponte nel gennaio del 1958, dove l’identità ebraica dell’autore era mimetizzata nella comunità italo-americana. Affiatamento proseguito nel 1965 con Après la chute, dallo scarso impatto con la sala, dove era Annie Girardot a impersonare Marilyn Monroe.
Sul fronte politico, nel giugno del 1945 Visconti testimoniò al processo contro Koch, collaborando subito dopo con Marcello Pagliero al documentario collettivo Giorni di gloria, girato il 4 giugno 1945 nella capitale, coordinato da Mario Serandrei e De Santis, sul processo all’ex direttore del carcere di Regina Coeli Donato Carretta fucilato assieme allo stesso Koch, e sul linciaggio drammatico dell’ex questore romano Pietro Caruso, annegato a colpi di remi mentre cercava scampo nel Tevere. E il 12 maggio 1946 sull’Unità fece pubblica dichiarazione di adesione al Partito comunista, durante i grandi scontri nel Paese in vista del referendum tra monarchia e repubblica, con feroci attacchi della destra all’artista aristocratico che si diceva mangiasse su piatti dorati, servito da camerieri in guanti bianchi, ma amico personale di Palmiro Togliatti. Nel settembre annunciò al ministero dello Spettacolo la formazione di una Compagnia italiana di prosa, da lui diretta, che si avvaleva dell’apporto decisivo della coppia per lui più rassicurante, ossia Morelli-Stoppa. Nel novembre debuttò il fosco Delitto e castigo da Fëdor Dostoevskij con intrusioni spiazzanti di acrobati. Nell’inverno del 1947 si recò ad Acitrezza a girare le riprese, all’inizio coperte nelle spese dal PCI, sulla condizione meridionale, materiale trasformato poi in La terra trema, presentato al Festival veneziano del 1948, libera riduzione da I Malavoglia verghiani. Il sottotitolo del film recitava Episodio del mare, dato che l’idea generale prevedeva due sequel, sui minatori e sui contadini.
Erano utilizzati gli abitanti della zona, culmine della parabola italiana del cinema neorealista, con una sconvolgente verità di accenti e gesti, nell’autenticità radicale a partire dai luoghi delle riprese. L’intento era quello di denunciare l’umiliazione dei lavoratori del mare senza alcuna prospettiva rassicurante o ideologie di riscossa, nel rumore assordante delle onde entro il mixage sonoro, in uno scenario naturale ora idilliaco ora impietoso, dove la lingua italiana circolava solo nelle didascalie (indispensabili dato il vernacolo dialogico quasi improvvisato dal vivo) e nel commento parlato della voce narrante. Ma la stessa produzione Universalia ne impedì la partecipazione nell’agosto del 1950 al concorso indetto dal premio mondiale per la Pace a Praga.
Nel gennaio del 1952 uscì Bellissima su soggetto di Cesare Zavattini, dove Magnani rifulse nel complesso personaggio di madre proletaria, desiderosa di far accedere la figlioletta alle fortune corrotte e corruttrici di Cinecittà.
La sua Maddalena, risucchiata da sogni veicolati dal cinema (all’aperto, sotto l’umile caseggiato, la proiezione di un western per serate popolari connotava un severo giudizio da parte del regista) così come dai fotoromanzi con cui la donna si sventolava ogni tanto nel corso delle scene, si contrapponeva drammaticamente alla disincantata e brusca concretezza del marito Spartaco, feroce baluardo contro ogni illusione di fuga attraverso fantasticherie di trionfo. E questo giudizio impietoso contro la fittizia manipolazione della realtà operata dal cinema stesso era testimoniato dalla sequenza in cui appariva l’interprete di uno dei capisaldi del neorealismo, Sotto il sole di Roma, ridotta a fare la semplice montatrice a Cinecittà.
Nel repertorio teatrale, rari in compenso i testi italiani, se si escludono i ripetuti incontri con la drammaturgia di Diego Fabbri, viatico compensativo per le sue contiguità con la sinistra e tentativo di ammorbidire l’ostilità dei cattolici. Anche qui, però, non mancarono esperienze controverse, come nell’ottobre del 1951 allorché fece togliere la propria firma dal Seduttore in scena alla Biennale veneziana, in segno di protesta contro la decisione del ministero degli Interni di negare il visto al Berliner Ensemble brechtiano. Più tranquilla l’edizione di Figli d’arte nel marzo del 1959, in cui Visconti accentuò le dinamiche metateatrali dello scrittore forlivese, raccontando il piacere delle prove. A fianco, più avanti, nel febbraio del 1969, pure la suggestiva messinscena di L’inserzione di Natalia Ginzburg, con Adriana Asti in piena bulimia verbale a nascondere solitudini e abbandoni coniugali.
Ma Visconti, se nei testi recenti trasformava la scena nel luogo della sofferenza e della protesta, in quelli classici puntava al contrario a un gioco trasognato e incantatorio, spesso enfatizzando lo sfoggio decorativo e precipitando nello spreco a spaventare la produzione, memore dello spettacolo cinquecentesco del principe. Ecco allora nel giugno del 1946 il festoso Matrimonio di Figaro da Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais, all’Indice sotto il fascismo, con musiche non mozartiane ma di Renzo Rossellini e un Vittorio De Sica nei panni del protagonista, scatenato nel dialogo con la sala. Finale irritante per il perbenismo della platea, con il balletto in cui i nobili, deposte le maschere, si mostravano quali scheletri danzanti, mentre si levavano le note della Carmagnola, a rievocare lo spettro della Rivoluzione francese. Nel novembre del 1948, il coloratissimo e leggiadro Rosalinda o Come vi piace, primo incontro con William Shakespeare, scene e costumi fantasiosi di Salvador Dalí. Nell’aprile del 1949 fu la volta di un sontuoso Oreste alfieriano, con bizzarro e vertiginoso spostamento dello spazio, l’orchestra di Santa Cecilia che suonava Ludwig van Beethoven e sfarzosi drappi e colonne impiantate da Mario Chiari a dare l’idea di un Settecento iconograficamente sospeso tra gusto neoclassico e anticipazioni romantiche. Il tutto, che inglobava pure Ruggero Ruggeri e Paola Borboni, sancì la successiva rottura irreversibile con Gassman, il solo capace di ribellarsi allo strapotere del regista. Magistrale, anche per la geniale costruzione di una miniatura persiana a rendere Troia assediata per opera di Franco Zeffirelli, per anni suo scenografo eletto e burrascoso compagno di vita, Troilo e Cressidra nel giardino fiorentino dei Boboli, kolossal opulento (dopo il pauperismo del film La terra trema) inscenato in quaranta giorni, all’esordio nel giugno del 1949, dal rovinoso dispendio di risorse finanziarie e con il coinvolgimento della maggior parte dei grandi interpreti nostrani. Si pensi ulteriormente al lavoro innovativo su Carlo Goldoni, nella sua lettura connesso al Settecento di Denis Diderot e di Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos, da La locandiera nell’ottobre del 1952, varo tripudiante al festival delle Nazioni a Parigi, suo debutto all’estero, con i colori pastellati di Giorgio Morandi scelti da Piero Tosi, e la resa quotidiana anche negli aspetti più realistici, a partire dagli abiti del risveglio, biancheria e lenzuola stese ad asciugare all’aria, a L’impresario delle Smirne nell’agosto del 1957, nella versione in versi sciolti intramezzati dalle ariette di Nino Rota. Lo stesso mese della Locandiera portò in scena il suo amatissimo Anton P. Cechov, allontanato dai modelli ibseniani e riportato al ritmo vaudevillesco di Eugène Labiche, rispettando così le intenzioni dell’autore, con le Tre sorelle, nelle sue corde anche per il condiviso, ambiguo congedo verso il vecchio mondo d’antan, seguito poi, nel marzo del 1953, dallo scherzoso monologo Il tabacco fa male, retto su Benassi, e poi, nel dicembre del 1955, da Zio Vania, con Stoppa tentato dalla fascinosa Helena-Eleonora Rossi Drago, e infine da Il giardino dei ciliegi nell’ottobre del 1965.
Nel settembre del 1954 uscì sullo schermo Senso, prima sua pellicola a colori, tratta dall’omonima novella di Camillo Boito, in un primo tempo pensata per Marlon Brando e Ingrid Bergman, per poi ripiegare sul modesto Farley Granger e su una straordinaria Alida Valli, già sfiorata dal regista l’anno prima, mentre girava l’episodio con Magnani nella pellicola collettiva Siamo donne.
Indicativa la metamorfosi fisica dell’attrice, dall’algida bellezza sfoggiata mentre assiste al Trovatore verdiano nel Teatro della Fenice (melodramma ospitato all’inizio del film, a dettarne i registri), allo sciogliersi della pettinatura dopo la notte d’amore, all’invecchiamento improvviso durante lo scontro traumatico e umiliante con l’amante, scoperto con la prostituta. Punto di forza nel montaggio era lo splendore figurativo della pellicola che alternava scorci di una Venezia notturna, con le passeggiate romantiche della coppia scandite dall’Adagio della Settima sinfonia di Anton Bruckner, agli abbaglianti paesaggi veneti e alla memoria dei Macchiaioli per le scene della battaglia. Ma la contessa Serpieri, patriota di nascosto con il cugino Girotti nelle file della Resistenza risorgimentale contro la dominazione asburgica, travolta dall’attrazione per il giovane bellimbusto, cinico ufficialetto, sino al degrado finale della delazione, con la fucilazione goyesca di Franz e il vagare demente della donna nella notte di Verona, tra le truppe tedesche inneggianti a Custoza, consentiva a Visconti di oggettivare la propria vicenda di aristocratico militante nel PCI dissociato tra amori omofili e ideali di popolo. Ne nacquero polemiche interminabili, ostruzionismi da parte della componente nazionalista e cattolica della stampa e della giuria alla Biennale veneziana, per le accuse di diffamazione delle forze armate.
La medesima temperie si riprodusse con l’opera lirica, alla Scala milanese, feudo di casa, quando Luchino bambino era intimo delle figlie di Arturo Toscanini. Del resto, in qualsiasi genere si manifestasse, drammaturgia, cinema o musica, il suo talento nel coniugare bellezza estetica, verità esistenziale, ossessione decorativa, sensibilità storiografica e sociale, presenza della morte risultò sempre irritante e irrituale per i difensori e cultori della tradizione. Nell’opera, trovò in Callas l’interprete flessibile, disposta ad adeguarsi alle sue richieste di drammatizzazione, nel ricordo fulgido di Eleonora Duse scoperta da lui adolescente nel 1921 in La donna del mare. Percorso che dalla Vestale di Gaspare Spontini nel 1954, alla Sonnambula l’anno dopo, portò nel 1956 alla Traviata diretta da Carlo Maria Giulini, suo primo incontro con Giuseppe Verdi, in cui sfoggiò un minuzioso naturalismo nell’ambientare la vicenda.
Basti considerare la fine del primo atto, dopo la festa, allorché Violetta si spogliava: così gettava lontano le scarpe, e mentre udiva la voce di Alfredo (Giuseppe Di Stefano) la scena all’improvviso si oscurava, anticipando il golgota di passione e di sacrificio che l’attendeva. Dirigendo la cantante, il regista la forzava a una recitazione anche corporale, liberando sentimenti che solo il melodramma legittimava senza timore di inverosimiglianza. Callas fu per antonomasia la diva che assunse ai suoi occhi l’immagine materna, apprestando cerimoniali di beatificazione e di espulsione della prima donna, come nella compiaciuta agonia finale. E continui i trasferimenti del resto tra grande schermo e ribalta sonora e viceversa, come quando la stessa Violetta-Callas immobile, le braccia aperte quasi fosse in croce, riceveva in faccia il denaro insultante da Alfredo, con un gesto ripreso alla lettera dalla prostituta Nadia-Girardot che si consegna a Simone perché la pugnali verso il finale di Rocco e i suoi fratelli.
Nei titoli operistici, costante la predilezione per la librettistica shakespeariana, dal Macbeth del 1958 a Spoleto al Falstaff viennese del 1966. Nella filmografia, intanto, seguirono Le notti bianche nel 1957, Leone d’argento veneziano, dal racconto dostoevskijano con Maria Schell, la spiritata Natalia in attesa del ritorno dell’uomo misterioso che l’ha stregata, e Marcello Mastroianni, l’ingenuo Mario che si illude di riuscire a farla sua. Il plot era spostato da Pietroburgo a Livorno, ma in realtà il film era girato tutto in interni.
Tornando al palcoscenico, Girotti rispuntò nel gennaio del 1957, sagomato con tanto di baffi ad assomigliargli, nei panni del cameriere tentatore per la Contessina Giulia strindberghiana, Lilla Brignone, cui il regista affidò le proprie emozioni private, a ricreare le torpide atmosfere di Un tram che si chiama desiderio. Il 1957 fu l’anno anche della sua escursione nel balletto, con il manniano Mario e il Mago, musica di Mannino e coreografia di Léonide Massine. Clamoroso fu il caso dell’Arialda di Giovanni Testori, al debutto romano passata indenne nel dicembre del 1960, e in trasferta a Milano nel febbraio del 1961 interrotta con il sequestro dello spettacolo e la denuncia per oscenità di commediografo e regista, e scioglimento inevitabile della compagnia stessa. Ma l’incidente in questione determinò in compenso l’ultimo caso di censura preventiva in Italia. Qui, gli sfondi desolanti dell’hinterland meneghino che contornavano il delirio della protagonista e il degrado morale di un famelico proletariato erano agevolmente prelevati, tramite altresì la lettura del Ponte della Ghisolfa, raccolta di novelle sempre testoriane, dal già citato film Rocco e i suoi fratelli, al debutto con Leone d’argento al Festival veneziano nel settembre del 1960, poi Nastro d’argento.
Nella trama, con rimandi anche al romanzo russo, centrata sulla famiglia meridionale (in questo caso lucana), trapiantata a Milano durante le migrazioni interne attivate dal boom economico, si scatenava il conflitto tra il mite Rocco e il fratello maggiore Simone (Renato Salvatori), truce e violento, disposto a tutto per il successo, anche a prostituirsi, ai bordi del mondo pugilistico e per l’amore della prostituta Nadia. Alle loro spalle, vigilava invano la dolente madre, l’attrice greca Katina Paxinoux. Nei panni del protagonista eponimo, iniziava il sodalizio artistico con il regista Alain Delon, dalla beltà angelica e dallo sguardo accattivante.
Nel frattempo, a riprova della sua visibilità ormai internazionale, favorita pure dai rapporti con celebrità culturali tra le capitali europee, Visconti nel novembre del 1958 aveva allestito a Parigi Deux sur la balançoire di William Gibson, con Girardot e Jean Marais, compagno di Cocteau, e vi tornò nel marzo del 1961 a dirigere la versione francese, Dommage qu’elle soit une p..., dell’elisabettiano John Ford, in cui si intrecciò alla coppia Romy Schneider e Delon, nel copione accesi da una relazione incestuosa tra fratelli, all’altezza dei suoi turbamenti davanti a tanta bellezza giovanile. L’attrice tornò assieme a Thomas Milian per un episodio di Boccaccio ’70, Il lavoro, in circuito dal febbraio del 1962. A sua volta Delon venne riutilizzato nei panni di Tancredi assieme a Claudia Cardinale (poi presente sullo schermo pure in Vaghe stelle dell’orsa del 1965, Leone d’oro a Venezia, sulla maledizione della famiglia, tra odi ed ennesimi incesti) e al carismatico Burt Lancaster, il principe don Fabrizio di Salina, per il dispendioso e monumentale Gattopardo, Palma d’oro a Cannes, molto tagliato nella versione per il mercato americano.
Tratto dal romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, nel marzo del 1963, la pellicola, esaltata nella grandiosa sequenza del ballo a palazzo Ponteleone, riprendeva il discorso sconsolato del regista sull’inanità degli ideali, sconfitti dal cinismo dei vincitori e sulla fine del vecchio mondo, nel passaggio dall’aristocrazia borbonica all’affermazione della nuova borghesia e all’annessione allo Stato piemontese. Umori che rimbalzavano anche altrove da una commedia cechoviana a un dramma shakespeariano e a un melodramma verdiano.
Verdi gli venne spesso commissionato in quegli anni, si pensi al Trovatore dato a Mosca nel settembre del 1964, e poi con un nuovo allestimento a Londra nel novembre. Per lo schermo, firmò nel 1967 Lo straniero, dal romanzo di Albert Camus con Mastroianni, stralunato Mersault, e nel 1969 La caduta degli dei, Nastro d’argento e nomination all’Oscar per la miglior sceneggiatura originale nel 1970, sul crollo dell’impero industriale dell’acciaio assorbito dal regime nazista, mescolando echi autobiografici all’aura di Thomas Mann dei Buddenbrook e agli intriganti furori del Macbeth. In più, perversioni omofile, travestismi e orge tra le SA (Sturmabteilung, truppe di assalto naziste), incesti tra il giovane Martin di Helmut Berger e la madre, Ingrid Thulin, contornavano l’ennesima dissoluzione della famiglia nell’esplosione panica dei sensi e nell’aggressione della Storia.
Nel 1971 fu la volta di La morte a Venezia, omaggio controverso alla propria famiglia, in cui Silvana Mangano venne abbigliata a ricostruire la maestosa bellezza di Carla, e Dirk Bogard funzionò da specchio dei tremori del regista davanti alla grazia degli adolescenti, contrapposta ai segni insistiti della decomposizione del corpo e della fine di una classe.
In realtà il titolo in un primo tempo si riferiva a un progetto sul processo della russa Maria Tarnowska, rea di aver istigato all’omicidio un suo amante per liberarsi di un altro partner, con condanna finale nel 1910, sceneggiatura inedita, di cui restano molti appunti, foto e frammenti di riprese girati a Venezia con Schneider.
Il film venne girato mentre allo stesso tempo Visconti si accaniva invano nel preparare la sceneggiatura della Recherche proustiana, altro suo focus tematico ed esistenziale.
Il 27 luglio 1972, sulla terrazza dell’hotel Eden, questa mole incredibile di lavoro, oltre ai tanti progetti avviati, mischiata a una vita dalla grande intensità mondana, dai rapinosi investimenti amorosi e dalle ottanta sigarette quotidiane, gli provocò una trombosi che lo fermò di fatto solo pochi mesi. In piena riabilitazione, prima a Roma e poi in Svizzera, con gran pena riuscì a terminare il montaggio del più lungo dei suoi film, Ludwig, girato prima della malattia, ancora con il giovane Berger, nuovo idolo privato, e ultimo dei suoi rovinosi protégés, nei panni del folle re di Baviera sequestrato dal suo onirico milieu wagneriano. E i vaneggiamenti e i capricci dispotici del personaggio, così come i suoi incerti orientamenti sessuali alludevano all’angosciante adolescenza del regista. Nel maggio del 1973 con la sua versione del pinteriano Tanto tempo fa, suo ultimo allestimento in prosa, e la scena, trasformata in una sorta di ring, spostata in sala, provocò lo stesso autore inglese, che fece sospendere le repliche al teatro Argentina, non riconoscendosi assolutamente nella messinscena che sottolineava in modo per lui eccessivo rapporti lesbici tra le due donne, interpretate da Valentina Cortese e Asti. In compenso, trionfò con la pucciniana Manon Lescaut al festival di Spoleto nel giugno del 1973, resa in un’angosciante e insieme commovente disperazione. Nella scena di Lila de Nobili, l’eroina cantava sprofondata nel gran letto al centro del secondo atto. Guizzo sorprendente in una carriera avviata ormai a ripetersi nei temi, riconosciuta ormai come classica, ma senza più le iniziali provocazioni, resa innocua dalla pioggia di tanti David di Donatello (Morte a Venezia, Ludwig, Gruppo di famiglia in un interno) e Nastri d’argento (La caduta degli dei, Morte a Venezia, Gruppo di famiglia in un interno).
Riuscì in compenso a realizzare ancora due film, nella sceneggiatura sempre aiutato dai fedeli Suso Cecchi d’Amico ed Enrico Medioli: nel 1974 Gruppo di famiglia in un interno, prodotto da Giovanni Bertolucci per la casa di Rusconi, uomo notoriamente di destra, riprendendo la topica del vecchio attratto da giovani, dove si avvaleva dell’indubbia sintonia con Lancaster, e nel 1976 il dannunziano L’innocente, pur menomato ulteriormente dalla frattura della spalla e della gamba destra, e girato in carrozzella, aiutandosi con un microfono per la voce indebolita. L’avversione per lo scrittore abruzzese, temperata dalla condivisa passione per l’arredo antiquario, lo portò a far morire suicida il protagonista Tullio Hermil, travolto dai rimorsi per l’infanticidio.
Terminato il montaggio della pellicola, Visconti si spense a Roma il 17 marzo 1976, per una seconda trombosi. Aveva sessantanove anni.
Le ceneri vennero sepolte a Ischia, dove, nel 2003, venne deposta la sorella Uberta.
Fonti e Bibl.: A Forio d’Ischia è situato il Museo Luchino Visconti, presso la sede della Fondazione La Colombaia, con foto d’epoca, locandine, bozzetti, sceneggiature e abiti di scena. Un archivio Visconti, su sollecitazione della sorella Uberta, comprensivo di molta corrispondenza, di abbozzi narrativi del regista e soprattutto di quel che resta della sua biblioteca internazionale, venne costituito a Roma, all’Istituto Gramsci nel 1987, e nel 1988 corredato da una documentazione curata da C. d’Amico de Carvalho e A. Favino. Molti interventi della sua poetica si trovano in Il mio teatro, a cura di C. d’Amico de Carvalho - R. Renzi, I (1936-1953), II (1954-1976), Bologna 1979; per la filmografia, sono disponibili le sceneggiature delle pellicole, entro la serie Dal soggetto al film, edite da Cappelli a Bologna: Notti bianche, a cura di R. Renzi, 1957; Il Gattopardo, a cura di S. Cecchi d’Amico, 1963; Vaghe stelle dell’orsa, a cura di P. Bianchi, 1965; La caduta degli dei, a cura di S. Roncoroni, 1969; Morte a Venezia, a cura di L. Micciché, 1971; Ludwig, a cura di G. Ferrara, 1973; Gruppo di famiglia in un interno, a cura di G. Treves, 1975; Ossessione, trascrizione del film di E. Ungari, nota introduttiva di R. Renzi, 1977; La terra trema, trascrizione di E. Ungari, introduzione di F. Rosi, 1977; Bellissima, trascrizione del film di E. Ungari, introduzione di C. Zavattini, 1978; Rocco e i suoi fratelli, a cura di G. Aristarco - G. Carancini, 1978; S. Cecchi D’Amico - E. Medioli, Gruppo di famiglia in un interno: sceneggiatura originaria e integrale dell’omonimo film di Luchino Visconti, Mantova 2006.
In generale si veda Album Visconti, a cura di C. d’Amico de Carvalho, con un’intervista di L. Tornabuoni a M. Antonioni, Milano 1978; G. Servadio, L. V., Milano 1980; C. D’Amico de Carvalho - V. Marzot - U.Tirelli, V. e il suo lavoro, Milano 1981, 1995; L. Schifano, Luchino Visconti. Les feux de la passion, Paris 1987 (trad. it. Milano 1988); R. Renzi, V. segreto, Roma 1994; Studi viscontiani, a cura di D. Bruni - V. Pravadelli, Venezia 1997; numeri monografici dedicati a Visconti in Drammaturgia, 2000, 7, e in Ariel, 2006, 1-3; L. V., la macchina e le muse, a cura di F. Mazzocchi, Bari 2008: M. Giori, Poetica e prassi della trasgressione in L. V.: 1935-1962, Milano 2018. Su Visconti regista di prosa: F. Mazzocchi, La locandiera di Goldoni per L. V., Pisa 2003; Il teatro di V. Scritti di Gerardo Guerrieri, a cura di S. Geraci, Roma 2006 (in partic. V. verso Čechov, pp. 136-191); L. V. e il suo teatro, a cura di N. Palazzo, Roma 2008; F. Mazzocchi, Le regie teatrali di L. V. : dagli esordi a Morte di un commesso viaggiatore, Roma 2010. Per il cinema: G. Rondolino, L. V., Torino 1981; P. Baldelli, L. V., Milano 1982; L. Miccichè, V. e il neorealismo. Ossessione, La terra trema, Bellissima, Venezia 1990; Id., L. V. Un profilo critico, Venezia 1996; M. Lagny, L. V.: verites d’une legende, Paris 2002; G. Tramontana, Invito al cinema di L. V., Milano 2003; L’estetica dello sguardo. L’arte di L. V., a cura di A. Barbera - R. Isoardi, Milano 2006; L. Darbellay, L. V. et la peinture: les effets picturaux de l’image cinématographique, Genève 2011; T. Biondi, Il cinema antropomorfico di L. V. : l’affresco umano degli antieroi viscontiani, Torino 2016; V. Bergen, L. V.: les promesses du crépuscule, Bruxelles 2017. Per la regia lirica: C. Gastel Chiarelli, Musica e memoria nell’arte di L. V., Milano 1997; Viscontiana. L. V. e il melodramma verdiano, a cura di C. d’Amico de Carvalho, Milano 2001.