vitalismo
Termine apparso verso la fine del 18° sec. per indicare il tratto distintivo della dottrina fisiologica di Paul Joseph Barthez e di altri medici della scuola di Montpellier. Esso è usato dalla storiografia filosofica per caratterizzare una concezione del vivente che, al di là di possibili varianti, presenta due elementi ricorrenti: (1) il richiamo alla specificità e alla differenza dei fenomeni vitali rispetto ai fenomeni dei corpi inanimati; (2) la tesi secondo la quale la costruzione regolare, la struttura organizzata e l’integrazione delle parti e delle funzioni riscontrabili nell’essere vivente derivano da un principio di attività che non è riconducibile alla materia. Con una certa frequenza a questa tesi è unita l’idea che nell’Universo tutto è vivente. Il termine designa allora una visione generale della realtà. Secondo alcuni interpreti nella filosofia di Aristotele è presente la tendenza a proiettare in tutta la natura un ‘modello biomorfico’. Di v. in senso complessivo si può senz’altro parlare a proposito della tesi dell’anima o vita dell’Universo propria della tradizione neoplatonica e in riferimento all’ilozoismo di Paracelso o al panpsichismo di Van Helmont. Appartengono alla concezione vitalistica del reale anche la teoria della vita plastica della natura sostenuta dal filosofo di Cambridge Cudworth, e la Naturphilosophie dell’idealismo tedesco.
Il v. come teoria del vivente è emerso e ha trovato un terreno particolarmente favorevole al suo sviluppo in due settori d’indagine: le ricerche sulla generazione e la spiegazione dei processi fisiologici. La dottrina della presenza di «ragioni» nei semi da cui si generano piante e animali (λόγοι σπερματικόι o rationes seminales), già presente nello stoicismo, assume particolare rilievo nell’ambito del neoplatonismo di Plotino e, nell’età del Rinascimento, nella riflessione di Marsilio Ficino. Per J.B. van Helmont, esponente di primo piano della filosofia chimica, la generazione è possibile in quanto l’archeus, o principio attivo, nel seme dispone e modella la materia secondo i tratti o le linee di un’immagine o idea che gli appartiene. Le teorie epigenetiche proposte da vari autori nel 17° e 18° sec. (William Harvey, Francesco Maria Nigrisoli, John Turberville Needham, Felice Fontana), per le quali lo sviluppo embrionale è un processo in cui si formano successivamente nuove parti secondo leggi naturali e non un semplice accrescimento di un essere già formato, si collocano per lo più sul versante del vitalismo. Particolarmente significativa, da questo punto di vista, la dottrina del Bildungstrieb o nisus formativus proposta da Johann Friedrich Blumenbach negli anni Ottanta del Settecento. La strutturazione dell’organismo richiede come ragione esplicativa il riconoscimento di una forza che sia in grado di prefigurare l’organizzazione strutturale e funzionale da realizzare e che sia capace di attuarla secondo un piano di sviluppo. Forze specifiche tra loro integrate rendono possibile il funzionamento organico ma dipendono nel loro insieme dalla forza generativa. Al Bildungstrieb di Blumenbach può essere avvicinata la Gestaltungskraft di Karl Ernst von Baer. Sul versante della fisiologia esemplare appare il v. di Georg Ernst Stahl. Con particolare efficacia egli mette in evidernza l’impossibilità di render conto dei fenomeni vitali secondo il modello della macchina semovente proposto da Descartes o sulla base di microstrutture soggiacenti alle funzioni ipotizzate dai medici d’indirizzo iatromeccanico. Come ha osservato Fr. Duchesneau, per Stahl il ‘tono’ che regge l’interazione delle parti solide e liquide dell’organismo dipende da una sorta di razionalità priva di rappresentazione cosciente a sua volta connessa a un’anima che è eterogenea rispetto alla struttura corporea e che la dirige al fine di conservare la vita. Nel corso del Seicento e del Settecento un indirizzo di fisiologia vitalistica si afferma in Gran Bretagna con i lavori di Francis Glisson e, soprattutto, di John Hunter. La prospettiva del v. attraversa la fisiologia francese dalla scuola di Montpellier di Barthez e di Xavier Bichat fino a François Magendie e, in qualche misura, fino a Claude Bernard. In questa tradizione di studi il v. presenta una marcata valenza metodologica: appare come l’elaborazione di una prospettiva che orienta e favorisce la ricerca fisiologica in maniera appropriata e in senso specifico, cioè per procedere all’analisi e alla spiegazione delle connessioni funzionali dell’organismo. Esso può essere caratterizzato come un vero e proprio programma di ricerca, nel senso stabilito da Lakatos. A questa forma di v. aperta all’indagine sperimentale si avvicina quella che si afferma in Germania sotto l’influenza della teoria di Blumenbach e della riflessione kantiana sul principio della finalità degli esseri organizzati esposta nella Critica della facoltà di giudizio (1790). Tale orientamento si definisce nello Handbuch der Physiologie des Menschens di Johannes Peter Müller, il cui primo volume appare nel 1833. Proprio sotto l’influenza di Müller la teoria cellulare di Theodor Schwann, da questi proposta nel 1839, assume una tonalità vitalistica di cui originariamente era del tutto priva. In questo contesto si costituisce la patologia cellulare di Rudolph Virchow e si afferma il principio Omnis cellula e cellula.
È merito del v. (in partic. di autori come Xavier Bichat, Georges Cuvier, Lorenz Oken e Lamarck) aver contribuito in maniera decisiva, tra Settecento e Ottocento, alla nascita della biologia come sapere autonomo. I primi decenni dell’Ottocento segnano il periodo di massima espansione del v. a livello europeo. Anche la cultura medica italiana partecipa e contribuisce a questa diffusione. Prima di assumere un’impostazione sperimentale a partire dalla seconda metà del secolo, le indagini e le esposizioni fisiologiche si muovono in una prospettiva teorica idealistica e vitalistica. A questo proposito è emblematico il caso del medico napoletano Salvatore Tommasi, sostenitore, fino alla prima metà dell’Ottocento, di una fisiologia impostata sull’idea di vita che rende possibile l’organizzazione nelle sue molteplici forme. Nella seconda metà del secolo il riduzionismo – cioè la spiegazione dei fenomeni vitali secondo cause e leggi della fisica e della chimica – prevale nettamente sul vitalismo. Nei primi decenni del Novecento il v. è ripreso e proposto in polemica con il materialismo e il positivismo. Tre opere testimoniano in maniera significativa questa ripresa: Der Vitalismus als Geschichte und als Lehre (1905; trad. it. Il vitalismo. Storia e dottrina) di Driesch, L’évolution créatrice (1907; trad. it. L’evoluzione creatrice) di Bergson e Der Aufbau des Organismus (1934) di Kurt Goldstein. Tracce significative di v. sono riscontrabili anche nell’opera che ha segnato la nascita dell’olismo, Holism and evolution (1926) di Jan Smuts. A partire dalla metà del 20° sec. il v. ha sempre più perso validità e influenza perché le tesi a cui esso dava espressione sono state fatte proprie e tradotte nel linguaggio della scienza dalla biologia. Anche se i corpi viventi non sono estranei alle leggi della fisica e della chimica, è un dato unanimamente riconosciuto che gli esseri viventi presentano caratteristiche speciali che non sono riscontrabili nei corpi inorganici e che fanno sì che vi sia discontinuità e differenza tra il mondo vivente e il mondo fisico (E. Mayr, The growth of biological thought. Diversity, evolution, and inheritance, 1982; trad. it. Storia del pensiero biologico. Diversità, evoluzione, eredità). Una di queste caratteristiche, sicuramente tra le più rilevanti, è il possesso di un programma genetico. Proprio la scoperta del DNA (1953) come supporto materiale per la trasmissione dei caratteri ereditari – della sua struttura a doppia elica, della sua interpretazione in termini di informazione, del ruolo che esso svolge nella costruzione dell’organismo e nella trasmissione e continuazione della vita – ha contribuito in maniera determinante a emarginare il vitalismo. Occorre tuttavia tener presente che da parte dei seguaci della dottrina dell’Intelligent design la complessità delle sequenze di informazioni contenute nel codice genetico è stata messa in evidenza per sostenere la tesi secondo la quale nel DNA sono rintracciabili i segni di un progetto che rinvia a un essere intelligente (per es., in W. A. Dembski, Intelligent design. The bridge between science and theology, 1999; trad. it. Intelligent design. Il ponte tra scienza e religione). Inoltre, come risulta dal lavoro di Jonas in The phenomenon of life. Toward a philosophical biology (1966; trad. it. Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica), il v. può essere riproposto in sede di ontologia del vivente con argomenti criticabili, ma pur sempre degni di attenzione.