VITTORIO EMANUELE III re d'Italia imperatore di Etiopia
È nato a Napoli l'11 novembre 1869 da Umberto e da Margherita di Savoia. Al battesimo, impartitogli dall'arcivescovo di Napoli, cardinale Riario-Sforza, gli furono dati i nomi di Vittorio Emanuele Ferdinando Maria Gennaro. Quest'ultimo, in onore del santo patrono della capitale dell'antico regno delle Due Sicilie, la quale era stata scelta a sede del principe ereditario Umberto, come segno dell'affetto di casa Savoia per le nuove provincie del regno. E Napoli salutò il primo erede al trono, nato dopo l'unificazione, con affettuose dimostrazioni di giubilo, durate più giorni.
Dopo la prima educazione, prevalentemente fisica, vigilata con assidua cura dalla madre, egli intraprese un regolare corso di studî, di cui fu affidata la direzione al colonnello di Stato maggiore Egidio Osio, uomo molto studioso e colto che, dopo aver combattuto nelle campagne del 1859, '60 e '66, aveva nel 1868 seguito la spedizione inglese contro il negus Teodoro, e poi, dal 1879 al 1881, era stato addetto militare a Berlino. Sotto la rigidissima guida dell'Osio, il principe seguì, per i primi tre anni, il programma del Collegio militare di Napoli, al quale V. E. venne iscritto vestendone anche la divisa (13 ottobre 1881), pur avendo proprî maestri; per i due successivi, quello della Scuola militare di Modena, alla quale pure fu iscritto (28 dicembre 1884); per gli ultimi tre, quello della Scuola di guerra. A questi programmi venne poi aggiunto tutto quello che richiedeva la condizione speciale dell'alunno che, negli ultimi tre anni, studiò anche le discipline giuridiche e politiche. La giornata di studio del principe era regolata minuziosamente in modo da dargli un'istruzione ricca e completa, più che a qualsiasi altro giovane del suo tempo. Dal 1885 in poi, vennero anche, durante le vacanze, i viaggi all'estero: Svizzera, Germania, campi di battaglia del 1870, Egitto, Palestina, ecc. E da essi V. E. attinse una conoscenza viva e diretta di paesi, uomini, cose e istituzioni.
Seguendo la tradizione della sua casa, il giovane principe entrò presto nell'esercito. Nominato sottotenente di fanteria il 3 dicembre 1886, percorse rapidamente tutti i gradi. Con la nomina a maggiore (30 maggio 1889), ebbe il comando effettivo di un battaglione a Roma. Ebbe termine allora il corso degli studî. Nominato colonnello (2 novembre 1890), comandò il primo reggimento di fanteria di stanza a Napoli; poi la brigata Como come maggior generale (2 settembre 1892), la Diviisione di Firenze come tenente generale (5 settembre 1894), infine il X corpo d'armata di stanza a Napoli (11 agosto 1897). L'anno prima, il 24 ottobre 1896, aveva sposato in Roma Elena, figlia del principe Nicola di Montenegro.
Nel decennio che precedette la sua assunzione al regno, per quanto i doveri militari, che egli adempiva scrupolosamente, assorbissero gran parte del suo tempo, ebbe agio anche di osservare e meditare gli avvenimenti politici, seguire i movimenti dell'opinione pubblica, valutare gli errori, farsi idee e convinzioni personali. E così egli per la solida e severa educazione avuta, per il profondo sentimento della responsabilità e dell'onore, per l'abitudine a molto riflettere, per la prudenza dell'azione, era preparato più di ogni altro a regnare. E lo dimostrò subito quando ascese al trono, dopo l'orribile tragedia di Monza. Per quanto l'uccisione del padre fosse l'atto isolato di un individuo, senza nessuna complicità nel paese, tuttavia appariva come l'indice di un'oscura situazione interna. Ma egli non ebbe un momento di dubbio. Bandendo da sé ogni idea di reazione, col nobilissimo proclama del 2 agosto 1900 il popolo italiano, opera sua personale senza collaborazione di ministri, riaffermò la sua fede nelle istituzioni e nell'avvenire della patria, si dichiarò conscio dei doveri che la tradizione storica gli imponeva, vide nella partecipazione del popolo italiano al lutto della sua casa quella "solidarietà di pensieri e di affetti", che unisce indissolubilmente popolo e monarchia.
Così V. E. iniziò il suo regno, che segnò anche l'inizio di un periodo di ascesa nella vita italiana.
Sebbene egli sia stato sempre rispettosissimo delle norme costituzionali, estraneo e superiore alle competizioni dei gruppi e partiti politici, riservando a sé, essenzialmente, il compito di supremo moderatore e stimolatore, pure re Vittorio è stato sempre sensibilissimo ai bisogni e alle tendenze del paese e sempre ha saputo interpretare in ogni momento della vita italiana, le necessità dell'ora. Così, nel primo decennio del regno, sentì che il paese aveva bisogno di lavorare in pace al fine di risolvere una quantità di problemi fondamentali per la sua prosperità e per il suo benessere, per la pacificazione sociale, per il rafforzamento economico, finanziario e militare. Ed egli andò incontro a questi bisogni. Per quanto l'azione da lui esercitata necessariamente sfugga alla nostra conoscenza, tuttavia essa è sempre stata grandissima, perché prima di dare la sanzione sovrana agli atti del suo governo egli ha voluto essere informato minutamente di tutto, discutendo, consigliando, suggerendo, e dando così direttive sicure e costanti. Certo, non fu estraneo alla volontà e all'opera del nuovo re, se, col suo avvento, le classi lavoratrici e i problemi economico-sociali furono oggetto di più sollecita cura da parte del governo, le passioni di parte si temperarono ed ebbe fine un periodo quanto mai tempestoso di vita italiana, certi valori nazionali ebbero un crescente riconoscimento anche fra i partiti di sinistra, molte pregiudiziali antimonarchiche caddero e la monarchia ebbe quasi una nuova giovinezza in Italia.
Secondo un'antica consuetudine della sua casa, il campo dove si fece sentire più la sua azione personale fu quello della politica estera e militare, alle quali veniva così assicurata la necessaria continuità di metodi e di fini. In fatto di politica estera, egli si mantenne nel solco della Triplice: ma iniziò o accentuò quella tendenza di ravvicinamento alle potenze dell'opposto gruppo che aveva avuto una manifestazione nel suo stesso matrimonio con Elena del Montenegro. Si ebbero nel 1900 e 1902 le note franco-italiane a riconoscimento della Tripolitania e del Marocco come reciproche sfere di azione. Si ebbero, nel 1903, le trattative per una visita dello zar alla corte italiana; e nell'ottobre stesso, la visita di re Vittorio al presidente della repubblica francese, che l'anno appresso venne lui in Italia: e fu un viaggio di grande significato ed importanza anche nei riguardi della Questione romana, ormai del tutto abbandonata anche dalla Francia. Si ravvivava in Italia la passione irredentista. E il re non fu estraneo ad essa. V. E. "pensa irredentisticamente", riferiva l'ambasciatore tedesco in Roma, conte De Monts, a v. Bülow, il 15 dicembre 1903: tanto più pericoloso e preoccupante perciò, egli concludeva, l'atteggiamento dell'opinione pubblica, specialmente della gioventù. Austria e Germania debbono tenere nel debito conto l'ambizione e l'intraprendenza di questo giovane re; tenerne conto più che non farebbero solo in base al calcolo della potenza effettiva dell'Italia. Ma le sensibilità alla passione irredentista non impedì a re Vittorio di seguire il problema coloniale e vigilare sulle cose dell'Africa Settentrionale. Così, nel 1911, egli fu tra i primi a comprendere che la Francia, dopo avere sistemato la questione marocchina con la Germania, avrebbe potuto rivolgere le sue mire alla Tripolitania. Ora la perdita di questa, dopo quella della Tunisia, avrebbe nuociuto gravemente alla monarchia e all'Italia. E perciò V. E. decise l'impresa, che poi seguì attentamente, constatando la buona preparazione, l'allenamento, il patriottismo dell'esercito: buon auspicio per prove più grandi.
Nello stesso anno 1911 l'Italia celebrava il cinquantenario della costituzione del regno: e in quell'occasione il re passò egli stesso in rassegna, inaugurando il monumento al grande avo, i progressi dell'Italia nel decennio della sua assunzione al trono. La più grande prova venne in occasione della guerra mondiale. Nel maggio del 1915, quando suonò l'ora suprema, l'ultima parola spettò al re, egli fu chiamato a decidere l'avvenire della patria. Anche questa volta egli ebbe fiducia nelle virtù del popolo italiano e riconfermando in carica il ministero Salandra scelse la guerra. Il 25 maggio diresse ai "soldati di terra e di mare" un proclama - redatto da lui stesso - alto e sereno, modello di compostezza e di rispetto per il nemico, nel quale considerava la nuova impresa di guerra come il compimento dell'opera del Risorgimento. E nella notte dal 25 al 26 maggio partì per il fronte, lasciando nella capitale a lato del governo, come suo luogotenente, lo zio Tommaso, duca di Genova. E da quel giorno fino alla fine della guerra il re rimase sempre con l'esercito operante, e mentre lasciò al capo di Stato maggiore il compito di condurre le operazioni, egli si assunse quello di vivere la vita dei combattenti, incoraggiarli, visitarli feriti negli ospedali, ascoltare i loro bisogni e i loro desiderî, condividere talvolta cameratescamente con essi il rancio e la tenda, saggiarne il morale, e nello stesso tempo rendersi conto dell'andamento delle operazioni. Non si arrestava davanti ai disagi e ai pericoli, e spesso i soldati se lo vedevano comparire vicino negli osservatorî più avanzati, nelle trincee più battute, nei momenti dell'intensa lotta, sempre pronto a dire una parola di conforto e di incoraggiamento. Fu in una di queste visite, che, in un ospedaletto da campo, si incontrò con Mussolini ferito e gli parlò, ed ebbe un'impressione viva delle qualità e possibilità dell'uomo.
In questo modo non solo poté con i suoi suggerimenti correggere molti errori e ovviare a infiniti inconvenienti, ma poté conoscere l'animo dei combattenti meglio di qualsiasi altro, talché nel momento supremo di Caporetto, quando molti in Italia e fuori dubitarono della resistenza italiana, e temettero una rovina definitiva, il re seppe invece essere il capo sereno che non perde la fiducia, che rincuora gli altri, che sa vedere e consigliare i provvedimenti più adatti e tempestivi. In un colloquio con Cadorna e Orlando a Treviso (31 ottobre 1917), venne decisa la resistenza al Piave. Nei giorni successivi, essendosi riuniti a Rapallo i capi dei governi alleati per provvedere alle necessità del fronte italiano, egli volle avere con loro un colloquio. Questo ebbe luogo a Peschiera (8 novembre 1917), in un locale la cui modestia faceva vieppiù sentire la solennità dell'ora. Si accorda con i suoi ministri presenti che da parte italiana nessuno, all'infuori di lui, prenda la parola. "... Rimasi impressionato - racconta Lloyd George - dalla calma forza d'animo che egli mostrò in un momento in cui il suo paese e la sua corona erano in giuoco; non diede alcun segno di timore o di depressione".
Due ore durò la sua esposizione precisa e circostanziata sulle ragioni della ritirata, della quale addusse i motivi perfettamente naturali, sulla situazione del momento e sui mezzi per fronteggiarla, sulla volontà italiana di resistere sul Piave e non abbandonare al nemico Venezia e altri territorî; e si affermò convinto che il morale dell'esercito non era stato seriamente intaccato. Questa sua fede egli riaffermò nel breve ma efficace proclama di due giorni dopo. Gli avvenimenti successivi gli diedero ragione e un anno dopo si aveva Vittorio Veneto, e la liberazione dei territori irredenti. Il novembre entrava in Trento e la sua prima visita era alla tomba di Battisti; il 10 novembre sbarcava a Trieste. Come il suo grande avo aveva condotto il Piemonte da Novara a Solferino, così egli aveva condotto l'Italia da Adua a Vittorio Veneto.
Lo smarrimento del dopoguerra dovette profondamente addolorarlo, ma egli non perdette la fede nel suo popolo. Osservò e meditò sulle forze della rinascita: dopo avere, il 28 ottobre 1922, rifiutato di firmare il decreto sullo stato d'assedio, propostogli dal ministero Facta, il giorno dopo affidò a Mussolini il compito della ricostruzione, e ne assecondò poi tutta la vasta e complessa opera. Il 9 maggio 1936, al termine della guerra etiopica, la terza guerra vittoriosa del suo regno, egli assunse il titolo di imperatore d'Etiopia.
Dobbiamo ricordare anche che alla sua iniziativa si deve la fondazione dell'Istituto internazionale di agricoltura (1905). Occupa un posto eminente fra gli storici col suo Corpus Nummorum Italicorum, del quale sono già usciti 16 volumi, e fatto in gran parte con l'ausilio della sua collezione che iniziò a undici anni e che ora comprende 95 mila pezzi. La stima già acquistatasi all'estero fece sì che nel 1903 venne scelto come arbitro per risolvere la secolare questione dei confini fra il Brasile e la Guiana inglese. Dopo un lungo esame dei memoriali delle parti e dei documenti relativi emanò il suo giudizio (6 giugno 1904), accettato senz'altro dai due contendenti. Successivamente, furono ancora sottoposte al suo arbitrato due altre questioni: per la frontiera del Barotseland, tra l'Inghilterra e il Portogallo (1905); e per il possesso dell'isola di Clipperton nel Pacifico, contestato tra la Francia e il Messico (1909).
V. tavv. CIX e CX.
Bibl.: L. Morandi, Come fu educato V. E. III, 2ª ed., Torino 1903; S. Ricci, Il Corpus nummorum italicorum e la sua importanza per la storia d'Italia, in Atti della Soc. per il progresso delle scienze, 4ª riunione, Napoli 1910; A. Grasselli, Barni, V. E. III, Piacenza 1922; A. Robertson, V. E. III, King of Italy, Londra 1925; O. Tesini, Gloria di regno, Italia e V. E. III, Bologna 1925; G. A. Andriulli, V. E. III, Roma 1925; L. Rizzoli, L'opera numismatica di S. M. il re, in Accad. Pad., XLVI (1929-30); D. Lloyd George, War Memoirs, IV, Londra 1934, cap. 6°; L. Susani, Pagine e parole di guerra del re soldato, Roma 1934; G. Liuzzi, V. E. III, Torino 1935; L. Aldrovandi-Marescotti, I convegni di Rapallo e di Peschiera, nel vol. Guerra diplomatica, Milano 1936.