Vittorio Emanuele Orlando
Presentare in un breve profilo una personalità multiforme come quella di Orlando, torna piuttosto arduo. Ci si trova invero dinanzi al giurista più rappresentativo dell’Italia liberale, a un uomo politico di alto profilo, a un esemplare interprete del giolittismo, partecipe della schiera di quegli intellettuali che, nell’era appunto giolittiana, in tutta Italia e in particolare nel Mezzogiorno si sono offerti come promotori di un processo di crescita del Paese, ancorché secondo una linea moderata e trasformista.
Orlando nasce a Palermo il 19 maggio 1860 da una famiglia di tradizione forense, la quale, in particolare dopo il suo matrimonio con Ida Castellano, figlia di Ambrogio, un armatore legato ai ricchissimi Florio e tra i fondatori della compagnia assicurativa Lloyd Siciliano, risulta ben inserita nella borghesia della città. Nel 1877 si iscrive alla locale facoltà di Giurisprudenza, dove ha come maestri uomini di notevole dottrina. Si pensi al civilista Luigi Sampolo, direttore de «Il circolo giuridico», al costituzionalista Alessandro Paternostro che, da deputato, è membro della Commissione dei 7 incaricata di condurre la nota inchiesta bancaria, e all’economista Vito Cusumano, studioso dalle molteplici aperture teoriche, maturate frequentando prima (a Pavia) Luigi Cossa, esponente della scuola storica, e poi (a Berlino) Adolph Heinrich Gotthilf Wagner, Ernst Engel e l’autorevole rappresentante del ‘socialismo della cattedra’ Gustav von Schmoller, che introduce in Italia tramite l’«Archivio giuridico» di Filippo Serafini.
Conseguita la laurea nel 1881, Orlando si dedica presto all’attività forense, preparandosi al contempo alla libera docenza in diritto costituzionale, che consegue nel 1882. Nel 1885 vince il concorso a cattedra nella medesima disciplina della quale diviene titolare prima a Modena, poi a Messina. Dal 1888 al 1900 insegna diritto amministrativo a Palermo, finché nel 1903 non approda a Roma come ordinario di diritto pubblico interno.
Nel 1890 fonda l’«Archivio di diritto pubblico», con l’intento di avviare, come dichiara nell’annesso Programma, la formazione di una nuova scuola giuridica (da lui pomposamente chiamata «scuola nazionale di diritto pubblico»), capace di rompere con le tradizionali trattazioni, a suo dire, non solo non rispettose delle distinzioni tra Stato e società, «ordine giuridico» e «ordine politico», ma impregnate altresì di divagazioni filosofiche e di sociologismo.
Nel solco della tradizione meridionale che vede i giuristi di prestigio, specie se avvocati, presenti in prima fila nella vita politica, egli inoltre partecipa all’attività parlamentare e governativa del Paese. Viene eletto deputato nel 1897 e rieletto senza interruzione fino al 1919 nel collegio di Partinico, dove, sulla scia del padre e a motivo della sua professione, gode di larghe conoscenze tra i feudatari e i notabili, riscuotendo al contempo grande considerazione tra i capi della locale, potente cosca mafiosa (Grassi Orsini 2002, pp. 35-40). Conseguita in breve tempo una posizione di rilievo nazionale, nell’ottobre 1903 diviene ministro della Pubblica istruzione. In prosieguo, regge il ministero di Grazia, giustizia e culti, e poi quello dell’Interno. Nell’ottobre 1917, in piena guerra mondiale, nel momento in cui giunge a maturazione il conflitto del generale Luigi Cadorna con il governo, viene nominato presidente del Consiglio. La disfatta di Caporetto lo induce a sostituire Cadorna all’Alto comando dell’esercito e a irrobustire la resistenza, giungendo così, anche mercè l’aiuto delle forze alleate, alla vittoria. Caduto il suo governo, dopo la rielezione nelle consultazioni del novembre 1919, diviene presidente della Camera.
Il suo atteggiamento dinanzi al fascismo, sulla scia di Benedetto Croce e di altri autorevoli esponenti liberali, è in un primo tempo attendista e persino fiducioso in un suo possibile ruolo di ripristino dell’autorità dello Stato, in un momento di gravi conflitti sociali e politici. Non tarda tuttavia a maturare la consapevolezza della natura dittatoriale del regime mussoliniano, e perciò nel 1925 si dimette da deputato e infine nel 1931, al fine di evitare il giuramento di fedeltà al regime imposto ai docenti universitari, chiede il collocamento a riposo, ritornando alla sua originaria professione di avvocato.
Nel 1945, caduto il fascismo e conclusasi la Seconda guerra mondiale, egli ritorna alla vita politica. Partecipa ai lavori della Consulta e successivamente a quelli della Costituente. Nella prima legislatura repubblicana è senatore di diritto. Muore a Roma il 1° dicembre 1952.
La dottrina orlandiana segna di sé il lungo periodo di studi giuridici italiani, che va dagli ultimi decenni dell’Ottocento all’avvento del fascismo. Un periodo in cui, in parallelo con la costruzione dello Stato unitario, secondo i canoni del parlamentarismo liberale, prendono assetto i grandi filoni della cultura giuridica accademica: dalla storiografia romanistica alla dogmatica privatistica, alle scuole penalistiche, alla nuova disciplina del diritto pubblico (Cianfarotti 1980).
Orlando dedica la sua ricerca a ppunto a quest’ultima disciplina, battendosi perché essa acquisisca uno statuto teorico che sul piano scientifico la ponga in una condizione di pari dignità con il diritto privato (Fioravanti 2001). Al riguardo, egli ritiene essenziale il ricorso a un metodo che, da un lato, con la sua purezza, astrattezza e tecnicismo, consenta la conoscenza dei profili formali dei mezzi di potere dello Stato di diritto, dall’altro, seguendo il moderno principio della divisione del lavoro scientifico, appaia capace di assicurare un approccio specifico alle tematiche sostanziali del diritto pubblico. Il paradigma posto a fondamento della sua teoresi è quello di uno Stato sottolineato dal duplice carattere di soggetto-persona e di assoluta centralità nel quadro complessivo dell’ordinamento giuridico (Costa 1986).
Il concetto di Stato-persona viene mutuato dalla scuola giuridica tedesca, in particolare dagli studiosi Carl Friedrich von Gerber e Paul Laband (Skalweit 1975). Già mezzo secolo prima questi due giuristi avevano teorizzato la sovranità quale privilegio esclusivo dello Stato-persona, e avevano ricavato come corollario che in esso era da individuare la fonte ultima dello stesso diritto (Wyduckel 1984). Così delineato, lo Stato orlandiano è destinato a controllare e a ricondurre a sé l’intera area delle dinamiche istituzionali, anzi, prima ancora, ad assorbire nella sua persona la stessa società civile, dal moderno costituzionalismo configurata come ‘popolo’. Non è un caso, infatti, che Orlando rigetti il principio della sovranità popolare e la conseguente dottrina di un potere legislativo scaturente dal potere supremo del popolo; dottrina da lui vista come il frutto di un estremismo giacobino postrivoluzionario per sua natura sovversivo. Le stesse elezioni, nella sua ottica, non azionano un trasferimento di poteri dal popolo agli eletti, ma una mera designazione di persone dotate di particolari qualità intellettuali e morali. E le assemblee che ne scaturiscono non creano il diritto, ma semplicemente lo attestano, o, se si vuole, dichiarano un diritto già esistente.
La forma di governo cui Orlando attribuisce legittimità è quella del governo di gabinetto. In essa, come sostiene nel 1886 in Studi giuridici sul governo parlamentare («Archivio giuridico», 36, pp. 521-86), vengono a saldarsi l’attività decisionale della maggioranza parlamentare e il ruolo della prerogativa regia. Tutto ciò è il risultato di due percorsi epistemologici.
Il primo è rappresentato dal trapianto nella giuspubblicistica del modello privatistico: operazione che accentua la tendenza al formalismo conservatore radicato nella formazione culturale di Orlando al punto da indurlo, in analogia a quanto altri avevano prima fatto con il diritto privato, a configurare il diritto pubblico come «un sistema di principi giuridici piuttosto che di precetti legislativi» (Principii di diritto amministrativo, 1891, p. X). E se per questa via il diritto privato, in particolare tramite la sua branca civilistica, potrà conferire dignità normativa all’intera organizzazione proprietaria e mercantile della società, il diritto pubblico, modellato sulla sua falsariga, potrà identificare i ruoli e le funzioni essenziali del moderno Stato liberale.
Il secondo percorso è innescato dal fatto che Orlando decide di tenersi al riparo da ogni possibile influenza esercitata dallo storicismo giuridico individualizzante di stampo anglosassone. Secondo quest’ultimo, il diritto, piuttosto che costruzione logico-formale, è esperienza. Per cui ogni ragionamento giuridico deve empiricamente relazionarsi alle situazioni concrete che viene a esaminare. A siffatta corrente storicistica Orlando preferisce quella dello storicismo generalizzante, inaugurata da Friedrich Karl von Savigny e portata a compimento dai già ricordati Gerber e Laband. Egli appare costantemente preoccupato di realizzare un sicuro coniugio tra storicismo e concettualismo, convinto com’è che solo uno storicismo concettualizzante possa fornire le nozioni concrete più vicine alle categorie astratte dell’ordinamento e fare del ragionamento giuridico un ragionamento esatto.
Il che spiega perché i connotati dell’apoliticità e della neutralità del diritto e dello Stato risultino ai suoi occhi imperativi ineludibili, e al contempo fa comprendere come la scienza giuridica da lui costruita possa compiacersi nell’esaltare il carattere adiaforo di un sistema formale in sé coerente, ma incapace di rispondere ai vari input provenienti dai mutamenti culturali e sociali. Trattasi, in effetti, di una scienza promossa come un sistema conoscitivo di natura tecnicistica, asettico e indifferente agli scopi e interessi materiali e ai connessi conflitti, sì da risultare conclusivamente come la scienza sociale conservatrice per eccellenza. Oltretutto, non bisogna mai perdere di vista che essa si accolla il compito squisitamente politico di garantire i nuovi equilibri imposti dalla nascita dello Stato unitario (Azzariti 2011, p. 123).
Tutto ciò destina al crollo la costruzione della quale parliamo, nonostante venga ininterrottamente accompagnata da un tono enfatico e da una crescente verve polemica. Il suo statuto teorico in verità apparirà con il tempo sempre più debole e, con riferimento alla sua dipendenza dalla cultura tedesca, sempre più scarsamente originale, come fosse il frutto di un ‘cosmopolitismo provinciale’. Così che la riflessione giuspubblicistica italiana comincerà ad aprirsi a una nuova dottrina costituzionale, che non potrà non prendere le mosse dall’accantonamento dello statalismo orlandiano, tanto patologicamente formalistico quanto esasperatamente autoritario. Come gli altri sistemi giuridici occidentali avanzati, anche il nostro sistema si baserà sul paradigma costituzionale (Fioravanti 2009); un paradigma che lo sospingerà a costruirsi non solo come diritto vigente ma anche come diritto disegnato dalla Costituzione (un diritto da creare).
Naturalmente, Orlando non riesce ad aprirsi a queste nuove istanze che vanno maturando in seno alla dottrina liberale, affermando in particolare l’esigenza di una saldatura di quest’ultima con la democrazia, intesa nel suo profilo sostanziale di trasformazione dei rapporti di forza esistenti tra le classi sociali. Gli sfugge il significato dei cambiamenti avvenuti nei lunghi anni del suo impegno di studioso e di uomo politico. Persino la crisi dello Stato liberale, affrontata con lucida consapevolezza da Santi Romano (Fotia 2001, pp. 141-50), viene da lui ricondotta a una semplice disfunzione del governo parlamentare.
Orlando, peraltro, è il classico uomo politico che porta il suo bagaglio dottrinale nell’azione parlamentare e di governo. Dopo un breve periodo di attenzione verso Francesco Crispi, lo statista schierato per il rafforzamento dell’esecutivo e dunque, ai suoi occhi, interprete del giusto principio che vede la vera sintesi organica di tutte le attività dello Stato realizzarsi appunto nell’esecutivo, passa tra i ranghi del giolittismo. È questa l’ideologia che gli torna più congeniale. Per la sua dimensione statocentrica, il suo riformismo gradualista, la sua legittimazione della prassi trasformista (Barbagallo 1995).
In poco tempo, Orlando diviene uno degli esponenti più influenti del composito ‘gruppo giolittiano’. Nella veste di rappresentante di tale gruppo nella Sicilia occidentale, il 18 agosto 1909 indirizza a Giolitti una lettera nella quale, dopo averlo informato che a Palermo domina un trust eterogeneo ma coeso, formato dai partiti popolari e dal ‘gruppo Florio’, lo consiglia sulla condotta da tenere sul piano elettorale. E ancora. Dopo le elezioni del 1913, pronuncia a nome del gruppo l’indirizzo di risposta al discorso della corona per l’apertura della Camera.
Il suo prestigio trova peraltro ufficiale riscontro nell’affidamento, nel corso della lunga egemonia giolittiana, degli importanti dicasteri avanti ricordati. Nella cui gestione porta avanti la politica di moderato riformismo testè menzionata, cui affianca una condotta trasformistica spesso modulata attraverso variabili centriste e consociativiste (Fotia 2011); politica che, sia sul piano istituzionale sia sul terreno sociale, non abbandonerà più.
Sul primo, Orlando, sin da quando nel 1897 viene eletto per la prima volta alla Camera, comincia a occuparsi di problemi cruciali con un approccio certamente pragmatico, ma che non impedisce alle sue idee di fondo di far sentire la loro influenza. Permane, per es., la sua convinzione sull'irrilevanza giuridica dei partiti: questi, in quanto semplici «forze sociali», non hanno bisogno di trovare spazio nella sfera statale. Non solo. Egli non coglie il ruolo delle loro dinamiche competitive e di alternanza, ai fini di una effettiva dialettica democratica; al contrario, secondo un’ottica organicista palesemente consociativa, auspica il superamento di ogni contrasto anche in materia di metodi e di programmi operativi, in ossequio all’«unità del pensiero nazionale». Così pure si batte per un sistema elettorale uninominale, il più adatto, nella sua visione, a favorire la scelta dei migliori, dei più capaci, delle ‘eminenze’ della società.
Egli si misura altresì con la questione nodale della separazione dei poteri, ponendo particolare attenzione alla natura del potere giudiziario. In proposito, ricordiamo la l. 24 luglio 1908 n. 438 sull’ordinamento della magistratura, da lui promossa nella veste di ministro guardasigilli. In questa delicata materia, Orlando dichiara di avere, come uomo politico, portato sempre scrupoloso rispetto all’indipendenza dei magistrati, ma di temere che una statuizione legislativa dell’assoluta autonomia e totale indipendenza della magistratura favorisca la formazione di una classe chiusa nei suoi privilegi e poteri, di una sorta di ‘clero borghese’ al quale la sovranità statale dovrebbe consegnare le proprie leggi, autorizzandone un uso discrezionale.
Sono queste solo alcune delle numerose posizioni che hanno dato adito al dibattito se siano state la dottrina e la politica di Orlando a presiedere la transizione verso il regime fascista. E tuttavia, nel merito, va riconosciuto che la cultura giuridica di Orlando, proprio in virtù del suo tecnicismo e della sua fede nell’apoliticità e neutralità del diritto e dello Stato, viene ad attestarsi su posizioni di difesa dell’autonomia dell’ordinamento statuale e della legalità, svolgendo nel ventennio fascista quel ruolo di garanzia che non aveva svolto in precedenza (Ferrajoli 1999, p. 36).
Piuttosto, i suoi paradigmi giuridici fondamentali sono messi a dura prova nell’ultimo periodo di attività politica. Egli, in realtà, si schiera contro il modello di Stato tracciato dalla Costituente. Anzi, è lo stesso concetto di potere costituente che appare a lui del tutto distorsivo. Creare una legalità sovraordinata a quella ordinaria, com’è la legalità delle norme costituzionali, significa porre in dubbio la legittimità di un ordinamento fondato sulle leggi prodotte dal Parlamento, organo dello Stato sovrano.
Orlando si rifiuta, insomma, di accettare un fatto fondamentale per gli ordinamenti novecenteschi: la capacità di uno Stato di convertire la sovranità normativa del Parlamento in sovranità normativa della Costituzione, nel riconoscimento che il diritto positivo è in primo luogo quello in essa tratteggiato. E di conseguenza si schiera contro la creazione di una corte che abbia il compito di tutelare giurisdizionalmente la primazia delle norme costituzionali, in altre parole, di sancire la conformità delle leggi ordinarie con i principi e i dettati della Costituzione. Oltretutto, su impulso di giudici ordinari, posti in diretto contatto con la carta costituzionale, e perciò operanti, in senso lato, come ‘giudici costituzionali’.
Sul terreno sociale, l’azione politica di Orlando risulta nel complesso modesta e priva di incisività. La strada prescelta dai giolittiani tra gli estremi del socialismo di Stato e l’individualismo atomistico, pur enfatizzata da lui con continui espedienti retorici, viene di fatto battuta senza entusiasmo. Egli riconosce l’esistenza di una questione sociale, ma resta convinto che nel conflitto tra capitale e lavoro lo Stato debba mantenersi su un sentiero di neutralità, puntando semmai sulla responsabilità degli operatori economici. Guarda con favore allo sviluppo della legislazione sociale, a partire dal 1898, quando si schiera a sostegno del disegno di legge relativo all’obbligo dei datori di lavoro di assicurare i lavoratori contro gli infortuni. Da ministro della Pubblica istruzione, inoltre, estende l’obbligo scolastico dal 9° al 12° anno di età.
Sulle tematiche dello sviluppo delle regioni meridionali, infine, Orlando, che pure è relatore sui Provvedimenti per le provincie meridionali, per la Sicilia e per la Sardegna (l. 15 luglio 1906 n. 383), si colloca tra i politici ‘ministeriali’ del Sud, caratterizzati, oltre che da una carenza di visione organica dei processi di crescita del Mezzogiorno, dall’assenza di un raccordo minimo con le dinamiche collettive espresse, seppure in maniera confusa, dalle masse.
Il suo atteggiamento riconduce perciò all’analisi sulle contraddizioni degli intellettuali meridionali compiuta da Antonio Gramsci. Il sistema economico dell’epoca, di cui Giolitti è l’espressione politica più alta, mentre al Nord si regge su un blocco urbano di industriali e operai, nel Mezzogiorno si appoggia a un sottosistema sociale formato da proprietari terrieri, contadini e ceti intellettuali piccolo e medio borghesi. Questi ultimi, diseducati dai due ‘grandi intellettuali meridionali’, Croce e Giustino Fortunato, esercitano nei confronti delle masse quella mediazione conservatrice che viene a operare come efficace sostegno della politica giolittiana e del sistema unitario nazionale, nutrito di trasformismo consociativo.
In tal senso, Orlando può essere visto come il terzo grande intellettuale svolgente siffatto ruolo. La sua scienza giuridica, costituitasi in cultura egemonica, contribuisce a formare gli intellettuali medi dai quali provengono per decenni le classi dirigenti e il ceto politico del Sud. Il tutto nell’accettazione di quella condizione di arretratezza economica e di minorità civile delle popolazioni di questa parte del Paese, che appare come una costante della strategia politica del tempo.
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