COSTA (Costa di Arignano), Vittorio Gaetano
Nacque in Torino il 10 marzo del 1737 da Carlo Maria detto il conte di Arignano deceduto nell'anno 1755 mentre era governatore di Cuneo, e da Paola Blanciardi. Frequentò la facoltà di legge dell'università di Torino ai tempi del clamoroso esonero di F. A. Chionio (1754) e si laureò inutroque iure il 10 luglio 1757. Aggregato al Collegio dei dottori di filosofia il 22 dic. 1757, venne ordinato sacerdote il 1º marzo 1760 dal cardinale Carlo Vittorio Amedeo Delle Lanze, grande elemosiniere; fu poi nominato regio elemosiniere il 2 marzo 1764, e vicario generale del cardinale Delle Lanze il 10 febbr. 1769. Pochi mesi dopo, l'11 settembre, il C. fu eletto vescovo di Vercelli.
Nonostante la cosidetta "apostasia" del cardinale Delle Lanze che aveva abbandonato nel 1769 le posizioni filogianseniste per accostarsi al benignismo della Compagnia di Gesù, il C. tenne un atteggiamento equidistante tra i due opposti schieramenti. La sua linea, condivisa dalla maggioranza dei vescovi piemontesi, rifletteva l'orientamento tomista, probabiliorista e moderatamente giurisdizionalista dell'università di Torino.
Lo legarono all'ambiente universitario torinese numerose amicizie tra cui quella con Carlo Denina, protetto dal C. ed accolto nel seminario di Vercelli nel 1777, quando lo storico fu privato della cattedra per aver stampato all'estero senza licenza un'opera assai discussa, Dell'impiego delle persone, in cui contestava, tra l'altro, il celibato ecclesiastico. Il C. aveva inoltre aiutato il Denina nella compilazione dell'opera Rivoluzioni d'Italia. Il Denina testimonia pure la conoscenza da parte del C. della lingua tedesca; mentre l'Operti accenna alla sua conoscenza delle lingue classiche e lo annovera "nel numero de' pochi che son della greca coltissima e necessaria lingua intendenti", il Regis nel discorso funebre elogia "i suoi progressi nelle principali favelle, nella soda Filosofia, nella Giurisprudenza".
Non mancarono critiche al C., soprattutto dopo la sua elevazione all'episcopato vercellese. Tra i filogiansenisti l'abate Bentivoglio definì lui, C. Morozzo, vescovo di Fossano, e T. O. Pochettini, vescovo di Ivrea, "trois sujets estimables, mais qui sont de la secte des accomodans". Acuita da questo atteggiamento di scarsa stima fu probabilmente la polemica mossa contro il C. dal tipografo vercellese filogiansenista Giovanni Antonio Ranza per l'abbattimento dell'antichissima basilica di S. Maria, ritenuta di epoca costantiniana (si vedano gli opuscoli, che indirettamente attaccano il C., di G. A. Ranza, Officio di S. Eusebio ..., Vercelli 1777 e Il primo ingresso dei vescovi di Vercelli, ibid. 1778). Conseguenze ancora più spiacevoli procurò al C. una recita fatta nel marzo del 1775 dai chierici del seminario di Vercelli.
Allo spettacolo, in cui si parodiava una di quelle famose dispute che si erano tenute in Roma sulla "dottrina della grazia", detta de auxiliis, si facevano intervenire i superiori generali dei maggiori ordini religiosi, lo stesso papa attorniato da cardinali e vescovi ed infine l'imperatore con la sua corte e gli ambasciatori delle maggiori potenze cattoliche. Lo scalpore suscitato dalla parodia, in cui si prendeva di mira soprattutto il molinismo dei gesuiti, superò l'importanza dell'episodio e fu addirittura riferito al nuovo papa Pio VI.
Il vescovo di Vercelli, che aveva autorizzato lo spettacolo, fu considerato un profanatore e beffeggiatore dei papi, delle cose chiesastiche e delle teste coronate. Poiché il governo sabaudo si rifiutava di disapprovare pubblicamente l'operato del C., il papa minacciò un "breve monitorio". La diplomazia sabauda trovò una soluzione di compromesso: il C. fu chiamato a Torino ed invitato a presentarsi al segretario degli Affari Esteri, marchese di Aigueblanche, che gli notificò il regio dispiacere per l'accaduto, invitandolo a trattenersi quindici giorni in città.
Tre anni dopo, il 28 luglio 1778, il re Vittorio Amedeo III promuoveva il C. alla sede arcivescovile di Torino e gli conferiva pure, in segno di massima fiducia, la carica di grande elemosiniere richiedendo per lui al papa l'elevazione al cardinalato. Ma Pio VI la ricusò, concedendola invece al vescovo C. G. Filippo della Martiniana successore del C. a Vercelli.
L'elezione a grande elemosiniere, oltre all'ordinariato sulla parrocchia regia, esente dalla giurisdizione dell'arcivescovo di Torino, conferiva al C. una delle massime dignità di corte e lo costituiva consigliere del re. Il C. usò di questa influenza a corte con illuminata saggezza e senza indebite ingerenze.
Le calamità naturali che si succedettero negli anni 1778, 1781-82 offrirono al C. occasione per denunciare le ingiustizie sociali che colpivano, soprattutto nei tempi di carestia, i ceti più poveri. Egli non si limitò a stigmatizzare nelle sue lettere pastorali "l'ingiustizia delle frodate e differite mercedi", ma invitò tutti i predicatori ad "ergersi a difesa dei poveri, prole prediletta di Cristo, e degli angariati dall'autorità prepotente e dalle ingiustizie dei forti": "Si ha da parlare con tutti lo uniforme linguaggio della verità, e debbono i ministri evangelici cogli scritti e a viva voce, dalle cattedre e nei tribunali di penitenza, perorare con carità e fortezza presso i grandi e i ricchi del secolo, a spirituale vantaggio delle stesse anime loro, la giusta causa dei poveri e degli afflitti i quali scoraggiati e sbattuti dalla miseria, non hanno voce bastevole ad implorare la reverenda autorità delle leggi". Commettono ingiustizie che "gridano vendetta al divin trono" coloro che "somministrando lavoro colgon l'occasione della penuria per diminuire la consueta mercede o, ciò che è lo stesso, mettono a troppo alto prezzo le vettovaglie". Sono causa di questi comportamenti "nei potenti e nei ricchi la mollezza, l'orgoglio ed il dissoluto costume" che li rendono nello stesso tempo "prodighi del danaro ed avidi di radunarne" (Raccolta delle omelie, lettere e indulti..., Torino 1793). Pur non trascendendo i limiti di una concezione sociale tipica dell'ancien régime, caratterizzata da una rigida distinzione di classi, il C. affronta il tema dell'uguaglianza e dell'identico dovere degli uomini di contribuire al bene comune con la giustizia, la carità, il lavoro e l'utilità sociale.
L'attenzione del C. ai problemi sociali ebbe pure un riflesso nella riforma religiosa. Nelle visite pastorali delle compagnie e confraternite e negli statuti sinodali che le riguardano egli ridimensiona le spese di culto ed assegna finalità umanitarie e di mutuo soccorso. Appoggia la diminuzione delle feste extradomenicali di precetto che nel 1786 "ad populorum indigentiani sublevandam atque honestas artes fovendas" vennero ridotte da trentaquattro a quattordici.
Nel 1786 il C. pubblicò a Torino un Compendio della dottrina cristiana ricavato in buona parte dal catechismo di monsignor M. Casati, vescovo di Mondovì.
Il testo del C. ebbe larga diffusione anche in altre diocesi del Piemonte (più di 52 edizioni per oltre un secolo) e contribuì in modo determinante all'affermazione dello stesso catechismo del Casati. Oltre al ruolo avuto nella storia della catechesi italiana, il testo del C. è importante sul piano socio-religioso per la parte avuta nella formazione di intere generazioni di Piemontesi.
Maggior risonanza tra i contemporanei ebbe il sinodo diocesano convocato dal C. dal 19 al 21 ag. 1788 (Synodus dioecesana Taurinensis..., Augustae Taurinorum 1788) al culmine di quella offensiva anticuriale che era stata lanciata negli Stati asburgici fra il 1783 ed il 1787 dai sinodi del "vescovo ribelle" di Pistoia Scipione de' Ricci. Il C. non escluse dall'elenco dei padri sinodali i rappresentanti di nessuna delle correnti teologiche e pastorali, ma guidò i lavori con molta fermezza non lasciando alcuno spazio di manovra ai simpatizzanti del vescovo di Pistoia.
Nel discorso introduttivo pose come criterio la fedeltà alle direttive della S. Sede e la esclusione di ogni intolleranza ed animosità nelle dispute teologiche. Questa impostazione riscosse, com'era prevedibile, dei consensi entusiastici da parte dei giornali degli "zelanti": il Giornale ecclesiastico di Roma, il Journal ecclésiastique di Parigi, l'Espiritu de los mejores diarios literarios di Madrid, mentre critiche più o meno aspre appaiono nella stampa filogiansenista: sugli Annali ecclesiastici di Firenze, sulla Gazzetta ecclesiastica di Vienna, sul periodico milanese Notizie interessanti la Religione e sulle Nouvelles ecclésiastiques di Utrecht.
In realtà il sinodo torinese accolse, pur con estrema moderazione, alcune istanze valide del movimento riformista toscano: il cristocentrismo, il senso comunitario della Chiesa, il ridimensionamento delle devozioni particolari e dell'esteriorità nel culto, il richiamo ad una critica storica più severa, il primato della carità, ecc. Gli atti sinodali, più che una rigorosa codificazione giuridica, si presentano inoltre come un documento di carattere pastorale.
Il sinodo torinese fu accolto con grande soddisfazione dalla S. Sede. Pio VI inviò al C. una lettera autografa in cui ringraziava per l'omaggio del volume dei decreti sinodali, dichiarando di averne già letta ed apprezzata l'orazione introduttiva e di vedere in questo sinodo un modello, contrapposto al pistoiese, da proporre a tutte le diocesi. Un'espressione tangibile di questa stima fu l'elevazione del C. al cardinalato il 30 marzo 1789.
Gli anni successivi risentirono i contraccolpi della Rivoluzione francese nel ceto borghese e tra gli intellettuali, mentre gravi carestie affliggevano il popolo. Per soccorrere i poveri - affermò il Regis nell'elogio funebre - il C. "la sua mensa a pochi e grossi cibi restrinse", vendette "ori e diamanti già doni di Real magnificenza" e "tolse anche egregie somme in prestanza". Un certo ascendente del C. anche sugli ambienti intellettuali influenzati dalle idee e dagli avvenimenti francesi si rivelò in occasione dei disordini universitari del 1791. Questi erano stati originati da uno squallido episodio di cronaca nera e dalla gelosia goliardica degli studenti per i propri privilegi, ma l'occasione fu sfruttata dai fautori della Rivoluzione ed apparvero le gravi carenze dello apparato governativo sabaudo. Pochi giorni dopo i suddetti tumulti il re pregò il C. di accettare l'incarico di "capo interinale dell'Università supplente le veci del capo del Magistrato della riforma", I. Corte, allora ammalato. Il C. riuscì a reggere con soddisfazione di tutti questa difficile supplenza dal 18 giugno 1791 al dicembre 1794, quando, alla morte del Corte, la carica fu conferita al conte Peiretti, primo presidente del Senato. Nel 1792, dovendosi chiudere l'università per gli eventi bellici, il C., allo scopo di facilitare lo studio privato dei giovani, promosse la pubblicazione di tutti i trattati solitamente "dettati" a voce. In tal modo si ebbe una serie di pregevoli pubblicazioni che fece conoscere ed onorò l'università torinese.
Le preoccupazioni del C. per la bufera che stava per investire il regno sabaudo sono testimoniate in termini drammatici dalla lettera pastorale del giugno 1792 in cui tenta pure un'analisi delle cause sociali che portano alla ribellione dei popoli.
Egli rimprovera alle classi abbienti una impostazione anticristiana della vita che "ripone la felicità nel godimento delle cose create" e adotta uno stile di vita "molle e voluttuosa, che tutta spendesi nel cercare sollazzi e non far nulla". Di qui derivano "l'oppressione dei poveri", le "palesi ed occulte ingiustizie" che sono la vera "origine ed il fomento de' mali, di- cui se ne fanno ognidì sì acerbi lamenti". "Siccome avviene che i ribollenti vapori nelle profonde cavità della terra ristretti, prendendo col tempo forza e vigore, scoppiano poi in rovinoso tremoto: così gli angariati dall'autorità prepotente e dalle ingiustizie dei forti, sforzandosi scuotere il peso insopportabile che li opprime; e la tanta gente corrotta dai vizi, affogata ne' debiti, agitata dai misfatti e dalla disperazione inferocita, cercando nella comune rovina un qualche scampo ai loro mali, urtano in fine con tanta furia il già mal fermo edifizio della politica società, che sarà meraviglia che non la atterrino".
Una certa durezza dimostrò il C. verso gli ecclesiastici francesi che avevano prestato il giuramento costituzionale quando richiesero asilo nella sua diocesi. In una lettera del 30 genn. 1796, rispondendo a J. de Maistre che gli raccomandava la richiesta di asilo del primo vescovo costituzionale, il Panisset, fuggito a Losanna, il C., trattandosi di "uomo eretico e scomunicato notorio" ancora "pochissimo persuaso de' suoi torti gravissimi" pone come pregiudiziale ad ogni interessamento a suo favore il ritorno "al seno della Cattolica Chiesa" mediante "una solenne ritrattazione con cui rinunci allo Scisma ed agli errori da lui insegnati e protetti colla penna, voce e coi fatti". Altrettanto severo fu l'atteggiamento del C. verso il padre filippino Michele Gauthier, il cui nome figurava tra i padri del sinodo torinese del 1788; egli fu espulso dalla Congregazione dell'Oratorio di Savigliano il 31 marzo 1794 non tanto per il suo larvato orientamento filogiansenista e gallicano, quanto per le sue ostinate riserve sui "brevi" pontifici di condanna della Costituzione civile del clero.
Durante i drammatici avvenimenti degli anni 1794-96 il C., membro del Consiglio del re in quanto grande elemosiniere, fu sempre più coinvolto in pesanti responsabilità politiche. Nel Regio Consiglio in cui si decise l'armistizio di Cherasco, sottoscritto dal Bonaparte il 28 apr. 1796 e ratificato dal Direttorio di Parigi il 15 maggio successivo, l'intervento del C. a favore del "partito della pace" fu decisivo. Vittorio Amedeo III, che ne ammirava la franchezza e la lungimiranza, decise di nominarlo primo ministro in sostituzione del conte di Hauteville di cui i Francesi avevano chiesto la destituzione perché savoiardo. Il "regio biglietto" di nomina del C. all'altissima carica porta soltanto l'indicazione del mese e non quella del giorno. Certamente fu scritto prima del 10 maggio: nelle prime ore di quel giorno, dopo un Consiglio di Stato protrattosi tutta la notte, il C. fu colto dalla grave crisi cardiaca che lo portò alla morte il 16 maggio 1796 a Torino.
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