Gassman, Vittorio (propr. Gassmann, Vittorio)
Attore e regista teatrale e cinematografico, scrittore, nato a Struppa (Genova) il 1° settembre 1922 e morto a Roma il 29 giugno 2000. Personalità quanto mai complessa, ha rappresentato nel teatro italiano del secondo dopoguerra la conferma che la tradizione del 'grande attore' romantico non era tramontata. La polarizzava su di sé anzitutto nelle qualità atletiche del corpo, raffinando, attraverso l'espressione della voce e una controllata gestualità plastica, sottigliezze espressive dovute a un istinto imbevuto di una penetrante criticità intellettuale. Ma era il carisma comunicativo a fondere in lui ogni contrasto, così che, tra la fine degli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, G. incarnò sulle scene un fenomeno di divismo che non ebbe confronti o conferme ulteriori. Il cinema lo chiamò immediatamente a sé, ma sullo schermo per lungo tempo la sua presenza fu soltanto di risulta rispetto al teatro, un'ombra prolungata della fisicità acquisita sulla scena, quasi che l'attore non riuscisse a centrare altrettanto felicemente l'incollatura necessaria fra il proprio talento, il proprio corpo e il personaggio da interpretare in presenza della macchina da presa. La svolta avvenne nel 1958 per la sagacia di Mario Monicelli, che in I soliti ignoti gli affidò un ruolo del tutto contraddittorio con il profilo del primattore tragico, dell'interprete carismatico e unico di Sofocle, di V. Alfieri o di W. Shakespeare, facendone un personaggio comico, dimezzato nelle capacità espressive, incanaglito e balbuziente, rovesciandolo dal linguaggio aulico al gergo malandrino e beota. Il primattore diventava un carattere: quasi il bagno di sangue di un mito; ma si dilatò così una prospettiva di concretezza, di vitalità interpretativa per cui, ancora con Monicelli, poi con Dino Risi, con Ettore Scola, fino a Pasquale Festa Campanile, Luciano Salce e al più giovane Pino Quartullo, soltanto sullo schermo G. trovò modo di esprimere l'altro da sé, il diverso scovato nel profondo dell'animo, nelle pieghe di una piagata fragilità, che il grande successo ottenuto sulle scene aveva in qualche modo occultato. Nel corso di una carriera di grandissimo prestigio, ricchissima la filmografia, vinse nel 1957 la Grolla d'oro per la migliore interpretazione cinematografica in Kean genio e sregolatezza, trascrizione sullo schermo, con l'assistenza di Francesco Rosi, da un suo spettacolo teatrale dedicato al grande attore della scena inglese. Successivamente, oltre a quattro Nastri d'argento e cinque David di Donatello ottenuti tra il 1959 e il 1990, vinse per Profumo di donna (1974) di Dino Risi il premio come miglior attore al Festival di Cannes del 1975. Nel 1996 venne premiato nel corso della 53a Mostra del cinema di Venezia con il Leone d'oro alla carriera.
Figlio di un ingegnere d'origine austriaca, Heinrich, e di una fiorentina, Luisa Ambron, attrice in gioventù (la volle accanto a sé sul palcoscenico in Tre quarti di luna di Luigi Squarzina, stagione 1952-53), visse l'infanzia a Genova e, dopo un breve soggiorno a Palmi (RC), si trasferì a Roma dove frequentò le scuole superiori per poi entrare all'Accademia nazionale d'arte drammatica di Roma, allora diretta da Silvio d'Amico. Per le doti atletiche faceva parte anche della squadra nazionale di pallacanestro. Uscì diplomato dall'Accademia nel 1943 e fu subito scritturato dalla compagnia di Alda Borrelli, debuttando al teatro Odeon di Milano con La nemica di D. Niccodemi. Passò, in quella stessa stagione, 1943-44, nella compagnia di Elsa Merlini, ed entrò poi in ditta con Laura Adani, Tino Carraro ed Ernesto Calindri nella stagione 1945-46, recitando in testi brillanti il primo anno, e il secondo in testi diversamente ambiziosi come Adamo di M. Achard o La macchina da scrivere di J. Cocteau. Nella stagione 1947-48 interpretò fra l'altro Tutti miei figli di A. Miller con Evi Maltagliati e Tino Buazzelli. Avvenne in queste occasioni l'incontro con Luchino Visconti, un rapporto che si sarebbe consolidato nella stagione 1948-49 in una compagnia di cui facevano parte Vivi Gioi, Rina Morelli, Ruggero Ruggeri, Paolo Stoppa e Paola Borboni: i testi furono As you like it, con il titolo Rosalinda o Come vi piace, di W. Shakespeare, Oreste di V. Alfieri, un ruolo decisivo per la sua carriera, accanto a Un tram che si chiama desiderio di T. Williams. G. espresse così intero il proprio talento, nel conflitto fra uno spirito colto e intellettuale, squisitamente novecentesco, e l'istinto egocentrico, esibizionistico quanto mai suo, romantico e maledetto, ferito al cuore. Il conflitto si oggettivò nei rapporti con il regista, poiché, sia per il successo personale ottenuto, sia per una necessità di affrancamento proprio, dettata dalla tradizione cui il suo gusto faceva riferimento, G. non si mostrava più bisognoso di una guida. La vicenda di G. attore, da questo punto in poi, si confonde con quella di un ambizioso organizzatore teatrale che, unendosi prima per la regia a Guido Salvini poi a Luigi Squarzina, puntava alla creazione di una compagnia che potesse definirsi teatro nazionale, dapprincipio chiamatosi, proprio con Squarzina, Teatro d'arte italiano. Con questa testata, affiancato da Anna Maria Ferrero, Anna Proclemer, Ave Ninchi, Luigi Vannucchi, Mario Feliciani e il giovane Luca Ronconi, raccolse il successo più clamoroso in Amleto di Shakespeare, recitato integralmente, seguito da un Tieste di Seneca, con il quale confermò la propria passione per i classici unendovi un'idea di 'teatro della crudeltà', realizzata sulla centralità dell'attore protagonista più che sul concerto d'équipe cui si affidavano al tempo i primi teatri stabili, più importante fra tutti il Piccolo di Milano diretto da Giorgio Strehler.Seguirono anni di fitta attività e di grandi conferme: coincideva la sua figura nell'immaginazione del pub-blico con personaggi classici quali Oreste (a partire dalla stagione 1948-49), Amleto (a partire dalla stagione 1952-53), Edipo (a partire dalla stagione 1954-55), Otello e Jago (a partire dalla stagione 1956-57, con i due ruoli recitati alternativamente in scambio con Salvo Randone). Ma, oltre che nel repertorio classico, fu indimenticabile come Stanley Kowalski in Il tram chiamato desiderio, come Peer Gynt, Antony, Kean, e Ornifle nei testi omonimi rispettivamente di H. Ibsen, di A. Dumas padre, di J.-P. Sartre (da Dumas padre), e di J. Anouilh, tutte figure che in quel giro di anni andò replicando sui palcoscenici con successo mai incrinato e stile inconfondibile. Tale intensa attività sfociò nel tentativo, raggiunto nel 1960, della compagnia del Teatro popolare italiano, cioè di un Teatro nazionale viaggiante in tenda: l'esuberanza di G. sfondò così le pareti del tradizionale teatro all'italiana. Messo in scena Adelchi di A. Manzoni, e Un marziano a Roma di E. Flaiano, che poco riscosse l'attenzione del pubblico, quindi l'Orestiade di Eschilo, commissionandone felicemente la traduzione a Pier Paolo Pasolini, quell'impresa si dissolse, certo perché il cinema, con il grande successo del ladro balbuziente in I soliti ignoti, aveva intanto strappato a sé l'indiscusso divo del palcoscenico.Il cinema, fino a quel momento, non era rimasto estraneo alla seduzione del G. primattore, ma o l'aveva incorniciato sullo schermo in cifre di corretto romanticismo, come in Daniele Cortis (1947) di Mario Soldati e La figlia del capitano (1947) di Mario Camerini, o in figure d'antagonista piegate retoricamente al male. Da questo punto di vista, il meglio G. lo offrì in Riso amaro (1949) di Giuseppe De Santis dove, al fianco di una Silvana Mangano travolgente di sensualità, plasmò un'immagine dettata da pura canaglieria erotica, segnalandosi già come un attore cui il cinema poteva guardare fuori delle coordinate piccolo-borghesi o sentimentali dentro cui i protagonisti maschili erano al tempo disegnati. Il cinema americano, per es., lo considerava come un nome da rimettere alla serie dei comprimari, vedi il caso del personaggio di Anatole Kuragin, non interpretato in modo memorabile, affidatogli da King Vidor in War and peace (1955; Guerra e pace). Ma appunto toccò a Monicelli in I soliti ignoti, cucendogli addosso i panni sdruciti e del tutto impropri di un tartaglia quasi idiota, spalancargli una via che rivelò quanto l'abito su misura fino ad allora indossato dell'attore romantico o classico gli andasse stretto. Fu un momento decisivo, cui si affiancarono in parallelo e in tutta anomalia, nel 1959, l'esperienza televisiva di Il mattatore, trasmissione di satira e macchiettistica (pensata in collaborazione con il commediografo F. Zardi e diretta da Daniele Danza), e la regia di una commedia musicale di grande richiamo popolare, Irma la dolce di A. Breffort (nella stagione teatrale 1958-59). L'algido interprete di Oreste e Amleto scendeva in platea, si confondeva con il pubblico adorante, e si faceva ancor più adorare perché di quel pubblico metteva a nudo con acume crudele i difetti, le corrive indulgenze, mostrandosi capace anche di un inedito, fino ad allora, sorriso di pietà.In quello stesso 1959 un nuovo successo in La grande guerra ancora di Monicelli consacrava definitivamente il ribaltamento avvenuto: G. vi interpretò un italiano comicamente codardo che muore eroe malgrado sé stesso. Nell'esplodere di un genere cinematografico, indulgente verso la sociologia, sostanziato però di autentica sensibilità democratica, la commedia all'italiana, dove al Neorealismo ormai cristallizzato si integrava la novità ottica d'una realtà nazionale travolta da modernizzazione fin troppo veloce, G. con Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni, Nino Manfredi diede vita a una serie di volti che di tanto travaglio storico restano indici sapienti.Monicelli confermò in L'armata Brancaleone (1966), nell'invenzione ad alto tasso comico di un Medioevo maccheronico fortemente imbevuto di traumi attuali, quanto il grande attore di teatro classico potesse far commedia di sé stesso sul filo della caricatura e della parodia. Ma fu D. Risi a trovare per G. quali potessero essere gli accenti più persuasivi sullo schermo, trasformandone la caratteriale esuberanza e il decisivo narcisismo con sfumature o dolenti o ciniche, o entrambe mescolate con oculatezza, ottenendo ritratti umani di qualità indelebile in Una vita difficile (1961), nella parte di sé stesso, e in Il sorpasso (1962), dove quasi ad altezza di proverbio G. ritrae un personaggio di italiano deragliante verso forme di balordo e suicida vitalismo, così comune, così eterno, che sotto la sfrontatezza nasconde un irredimibile infantilismo. Sono interpretazioni in cui si legge trasparente quanto una sensibilità affinata sui versi della grande poesia tragica avesse maturato in G. la lettura del vero nella contemporaneità, e lo avesse portato a esprimere il dolore nella comicità, la sofferenza esistenziale nell'abiezione, e una personale, non simulata ma particolarissima vulnerabilità. Altrettanto deve dirsi del protagonista cieco di Profumo di donna, ancora diretto da Risi, o del lesto approfittatore e mestatore disegnato con gelida acribia in quel poema-presagio della declinante vita sociale italiana che è C'eravamo tanto amati con la regia di Scola (1974): due interpretazioni che segnano il vertice della carriera non solo cinematografica dell'attore.
Non va tralasciata la sua presenza in Il giudizio universale di Vittorio De Sica (1961), in Anima nera (1962) di Roberto Rossellini e in Il deserto dei Tartari di Valerio Zurlini (1976). Ma con Risi e Scola, in una oscillazione fra crudezze e pennellate persino čechoviane, G. ha ottenuto le riuscite più prestigiose. Con Risi ‒ fu più che un sodalizio artistico ‒ va ricordato per I mostri (1963), Il gaucho (1964), Il tigre (1967), Il profeta (1968), In nome del popolo italiano (1971), Telefoni bianchi e Anima persa, entrambi del 1976, Caro papà (1979), Sono fotogenico (1980), ma ancora di più per il sottile, segreto e doloroso Tolgo il disturbo (1990). Con Scola va ancora ricordato per Se permettete, parliamo di donne (1964), L'arcidiavolo (1966), La terrazza (1980) e per La famiglia (1987), dove storia italiana e soggettività individuale si specchiano nelle ambiguità, nelle sospensioni cui G. dà vita in un personaggio borghese classicamente 'senza qualità', comunque virile nell'esprimersi.Ma si deve dire anche quanto il teatro, il fascino delle tavole della ribalta, rappresentarono sempre per lui una nostalgia vissuta con drammatica crucialità nell'ultimo corso della vita. Negli anni Ottanta, allestì a Firenze una Bottega teatrale, presso l'antico Teatro Goldoni, cui confidava la possibilità di tramandare ai giovani la tecnica di un'arte sempre più dispersa o avvilita da dilettantesche improvvisazioni. Ma la Bottega non diede la fioritura promessa. Fu a quel punto che i ritorni sporadici al teatro rappresentarono per G. appuntamenti attraverso cui cercava di rinnovare il proprio profilo di ineguagliato dicitore di poesia, riproponendo casomai il successo già ottenuto con Affabulazione di P.P. Pasolini (messo in scena la prima volta nel 1977 come regista e protagonista al Teatro Tenda di Roma), oppure offrendo per le celebrazioni colombiane del 1992, in uno spazio appositamente creato da Renzo Piano nel porto di Genova, un Ulisse e la balena bianca tratto da Moby Dick di H. Melville, dove parve sognare la reinvenzione di sé nella cifra del 'grande attore' ormai definitivamente tramontato presso la stessa memoria del pubblico. Così nel cinema, la sua apparizione in La cena di Scola (1998), non l'ultima sullo schermo, sembrò malinconicamente mettere il punto fermo a un'esperienza fra le più significative nel ricco e sfaccettato panorama della commedia all'italiana.La sua vastissima filmografia ospita anche firme di registi stranieri, anzitutto Robert Altman (A wedding, 1978, Un matrimonio; Quintet, 1979), Paul Mazursky (Tempest, 1982, Tempesta, una trasposizione in abiti moderni dell'omonimo capolavoro shakespeariano), André Delvaux (Benvenuta, 1983), Alain Resnais (La vie est un roman, 1983, La vita è un romanzo) e Philippe de Broca (Les mille et une nuits, 1990, Le mille e una notte). Come regista o coregista firmò alcuni lungometraggi, la cui nota dominante è un teso, ossessivo ed esplicito autobiografismo: Kean genio e sregolatezza; L'alibi (1969), il più singolare e felice, cofirmato con Adolfo Celi e Luciano Lucignani, dove la realtà autobiografica divora l'invenzione cinematografica, un film cui invitò anche A. Moravia nel ruolo di sé stesso; Senza famiglia nullatenenti cercano affetto (1972), rimarchevole per la prestazione d'attore sia del medesimo regista sia di Paolo Villaggio; Di padre in figlio (1982), altro film-verità girato a quattro mani con il figlio attore, Alessandro, avuto dall'unione con Juliette Mayniel; L'altro enigma (1988), cofirmato con Carlo Tuzii, trascrizione filmica del pasoliniano Affabulazione.
Sempre più condizionato all'autobiografismo, G. pubblicò poi quattro volumi di memorie e versi dove sarcasmo e sfogata confessione si intrecciano talvolta anche con ruvidezza: Un grande avvenire dietro le spalle (1981), Vocalizzi (1988), Memorie del sottoscala (1990), Mal di parola (1992). Va ricordato anche il testo teatrale Camper: farsa edipica in 2 tempi e 10 rounds (1994), scritto per sé e ancora per il figlio Alessandro (n. 1965). Dal primo matrimonio con Nora Ricci aveva avuto una figlia, Paola (n. 1945), anch'essa attrice.
S. d'Amico, Palcoscenico del dopoguerra, 2° vol., Torino 1953, pp. 333-36.
S. d'Amico, Cronache del teatro, 2° vol., Bari 1964, pp. 693-96.
S. de Feo, In cerca di teatro, 2° vol., Milano 1972, pp. 74-77.
R. Cirio, Il mestiere di attore: pratica artistica e luoghi di formazione, a colloquio con Vittorio Gassman e Bernard Dort, Città di Castello 1992.
G. Gambetti, Vittorio Gassman, Roma 1999.
N. Ajello, Tre vecchi amici, e M. Risi, Ricordo di Gassman, in 'C'eravamo tanto amati' di Ettore Scola: storie d'italiani, storia d'Italia, a cura di E. Siciliano, Torino 2001, pp. 11-12 e 41-44.