SCIALOJA, Vittorio
– Nacque a Torino il 24 aprile 1856 da Antonio e da Giulia Achard, figlia di un facoltoso commerciante francese.
La famiglia paterna, originaria di Procida, era di consolidata tradizione liberale sin dai tempi della Repubblica partenopea, per l’adesione alla quale il prozio Antonio fu impiccato e vari suoi congiunti esiliati. La figura del padre, noto economista e senatore – così come la vicinanza di questi con Giuseppe Pisanelli, Pasquale Stanislao Mancini e Silvio Spaventa – ebbe un peso rilevantissimo nella formazione culturale di Vittorio, nelle sue inclinazioni ideologiche e nella sua propensione per gli studi giuridici.
Dopo il periodo torinese, Scialoja compì gli studi ginnasiali a Firenze e quelli liceali e universitari a Roma, dove si laureò nel 1877 con una tesi (Sopra il precarium nel diritto romano, stampata l’anno seguente) discussa con Nicola De Crescenzio. Più che il magistero di quest’ultimo – che peraltro Scialoja ricordò sempre con devozione, segnalando in particolare che aveva contribuito «al progresso della scienza [...] con l’insegnamento» (Nicola De Crescenzio, in Bullettino dell’Istituto di diritto romano «Vittorio Scialoja», VII (1894), p. 303) ancor più che con gli scritti – furono decisivi, nel giovane laureato, lo spiccatissimo senso giuridico e le rare capacità di autodidatta, tanto che non trascorse neppure periodi di perfezionamento in Germania, come era invece costume per i giuristi della sua generazione, specialmente per gli studiosi di diritto romano, e contribuendo tuttavia in modo decisivo alla recezione, e a una peculiare rivisitazione, dei modelli tedeschi.
Indirizzato, soprattutto da Mancini, verso l’insegnamento dopo essersi inizialmente orientato alla magistratura, ad appena ventitré anni (nel 1879) Scialoja fu chiamato come professore straordinario di diritto romano e civile nella libera Università di Camerino. Vi rimase un solo anno, ma inaugurando il proprio corso con una prolusione dalla vasta eco: Del diritto positivo e dell’equità.
Già la scelta di dedicarsi a un tema non strettamente inerente alla sola storia giuridica antica, ma di ampio respiro e dalle molteplici implicazioni sul piano della teoria e della politica del diritto, illustra precocemente alcuni tratti della sua personalità scientifica, rivolta alla dimensione giuridica nel suo complesso, senza appagarsi di specialismi disciplinari, e anzi tesa a misurarsi con gli snodi più delicati che la scienza del diritto era chiamata allora ad affrontare. Particolarmente significativa è anche la posizione che Scialoja assunse in quell’occasione, respingendo ogni reale contrapposizione tra equità e diritto positivo, nel senso che per il giurista la prima riuscirà rilevante solo in quanto tradotta nelle disposizioni dell’ordinamento, non certo come dettame etico, in ciascuno diversamente declinabile, così da revocare la cogenza delle medesime disposizioni.
Un simile atteggiamento, ampiamente seguito nei decenni successivi, è stato letto nei termini di un rigoroso e unilaterale ‘legalismo’; ma la preoccupazione di salvaguardare la precaria coesione del neonato Stato italiano, e quindi anche della codificazione civile da esso raggiunta (1865), a fronte di ogni forza disgregante (compresa appunto l’equità, se percepita quale «un sentimento o un concetto [...] individuale», Studi giuridici, III, Roma 1933, p. 14), è solo uno dei motivi rintracciabili in quell’intervento. Ed era proprio (e solo) contro quella configurazione parcellizzata e nebulosa dell’equità, con gli esiti eversivi che rischiava di innescare rispetto a un ordine giuridico unitario, che si levava la voce di Scialoja: non contro l’«equità comune», espressiva di «un’aspirazione di un popolo ad un certo diritto» e di una «volontà [...] che giunge ad un certo grado d’intensità riconoscibile dalla forma esterna» (p. 14), per poi riversarsi nelle previsioni del legislatore ancor piú che nelle scelte del giudice, giacché veniva ribaltato un noto adagio, per affermare che «aequitas legislatori, jus judici magis convenit» (p. 15). Si voleva unica e mai disattesa la legge dello Stato, ma – si potrebbe dire anticipando alcuni fili conduttori dell’intera riflessione di Scialoja – la si sapeva anche altra dal diritto di un popolo, nutrito dai principi della tradizione, forte di apporti scientifici non appiattiti sul nudo impegno esegetico.
Nel 1880 giunse la chiamata come incaricato di diritto romano a Siena, dove rimase quattro anni nonostante la vittoria nel concorso per la cattedra di straordinario a Catania, nel 1881. Gli esordi non furono semplici: i metodi d’insegnamento, innovativi quanto rigorosi – ricalcati, nella sequenza della trattazione, sull’impianto sistematico ormai prevalente, ma per dare largo spazio all’analisi delle fonti e ai collegamenti con altre materie – suscitarono malumori negli studenti, e forse anche in alcuni colleghi, sino a sfociare in un’autentica sollevazione (maggio 1881), con conseguente sospensione delle lezioni disposta dal Consiglio accademico (salvo la loro ripresa per diretto intervento del ministro Guido Baccelli). Negli anni senesi non mancarono tuttavia, per Scialoja, risultati rilevanti: dalla promozione a ordinario (nel 1883-84) alla formazione dei primi dei suoi innumerevoli allievi (il romanista Carlo Manenti e il civilista Dante Caporali), sino al ruolo assunto nelle attività seminariali ed esegetiche del neonato Circolo giuridico della facoltà giuridica toscana e poi nella fondazione della connessa rivista Studi senesi (il cui principale impulso si dovette al penalista Enrico Ferri). Del 1881 è anche una ‘lettera aperta’ destinata a Filippo Serafini e pubblicata nella rivista da questi diretta, Archivio giuridico (Sul metodo dell’insegnamento del diritto romano nelle Università italiane).
Nel tratteggiarvi le modalità didattiche stimate ormai necessarie, Scialoja non esitava a qualificare il diritto romano un «diritto morto», ma la cui analisi, proprio per questo, appariva persino più feconda sul piano scientifico, dal momento che di essa (più che di un «diritto vivente») era consentito l’esame «anatomico» e anche la ricostruzione degli sviluppi diacronici, mettendone a frutto le potenzialità cognitive rispetto agli assetti attuali – tanto che quella lettera può essere intesa quale «manifesto» di una «‘Nuova scuola storica italiana’, in contrapposizione alla Scuola storica tedesca» (Orestano, 1987, p. 507).
Nel 1884 Scialoja passò a La Sapienza di Roma – dove insegnò prima diritto romano e dal 1922 istituzioni di diritto romano – al termine di un concorso che lo vide competere con alcuni allievi del docente di quella materia allora più influente, Serafini, e prevalere solo dopo l’annullamento ministeriale dei lavori di una prima commissione esaminatrice. Questo successo e il prestigio della cattedra romana segnarono l’avvio della sua ascesa nel panorama non solo della romanistica, ma dell’intera scienza giuridica italiana, di cui divenne un incontrastato protagonista, senza rinunciare alla professione di avvocato civilista e amministrativista – esercitata con notevole successo (e non senza eco sugli sviluppi della giustizia amministrativa), per divenire anche presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Roma (1912) e del Consiglio superiore forense (1926) – e a un impegno politico assiduo, che lo condusse a ricoprire, come vedremo, una molteplicità di incarichi. La sua preminenza scientifica e accademica, dietro alla quale vi era un solido progetto di rifondazione della cultura giuridica del Paese, si affermò attraverso una strategia centrata sulla fondazione di una rivista (dedicata, per la prima volta, esclusivamente al diritto romano e che potesse divenire il luogo privilegiato per diffondere l’impostazione del suo direttore), la creazione di una scuola e la messa a punto di un metodo scientifico al passo con quelli ormai affermati in Europa (in particolare in Germania).
Nella prima prospettiva Scialoja, dopo tre anni dalla chiamata a La Sapienza, dette vita all’istituto di diritto romano, di cui divenne ‘segretario perpetuo’ e al quale furono chiamati a partecipare romanisti, ma anche cultori di archeologia e storia antica, di diritto vigente e di storia del diritto italiano, e che presto assorbì un’analoga istituzione (la Società italiana per l’incremento degli studi romanistici) contestualmente creata da uno dei contendenti al concorso romano, Lando Landucci (1855-1937), allora professore a Padova: si trattò di un ulteriore ‘colpo’ inferto alla scuola di Serafini. E subito dopo, nel 1888, l’istituto fu provvisto di un periodico (il Bullettino dell’Istituto di diritto romano, tuttora edito), la cui vita proseguì poi in sostanziale indipendenza dalle vicende del medesimo ente.
Quanto alla creazione di una scuola, fu questo uno degli ambiti in cui Scialoja mostrò un talento raro, che forse nell’insegnamento e poi nella selezione e formazione di giovani studiosi fu persino superiore a quello riversato nella ricerca scientifica (così si potrebbe dire, adattando il giudizio che egli aveva formulato per De Crescenzio).
Furono suoi allievi in senso stretto, o comunque da lui fortemente influenzati, futuri prestigiosi docenti di diritto romano come Pietro Bonfante (1864-1932), Gino Segrè (1864-1942), Salvatore Riccobono (1864-1958), Carlo Longo (1869-1938), Siro Solazzi (1875-1957) e Vincenzo Arangio-Ruiz (1884-1964); ma anche di diritto civile quali Vincenzo Simoncelli (1860-1917), Alfredo Ascoli (1863-1942), Leonardo Coviello (1869-1939), Roberto de Ruggiero (1875-1934) e Filippo Vassalli (1885-1955), così come di diritto processuale civile, campo in cui eccelse Giuseppe Chiovenda (1872-1937), e di diritto amministrativo, come Antonio Longo (1862-1942) e soprattutto Oreste Ranelletti (1868-1956).
Attraverso le nutrite genealogie accademiche che ne discesero, l’impronta di Scialoja rimase impressa nelle principali correnti della scienza giuridica italiana fra Otto e Novecento. Insistere sulle sue straordinarie capacità nel momento didattico (soprattutto nei corsi e seminari di esegesi delle fonti), come sulla sua abilità nell’indirizzare gli allievi verso le materie per cui intravedeva in loro migliori attitudini, conferma come fra le sue doti spiccassero rapidità e acutezza delle intuizioni giuridiche, che potevano esprimersi nell’immediatezza della lezione ancor più che nell’approfondimento scritto (per il quale egli stesso confessava una certa insofferenza); ma non significa certo oscurare il rilievo della sua produzione scientifica, che continuò copiosa e incessante nel lungo periodo romano, spaziando dal diritto antico al vigente, dalla storiografia giuridica alla teoria generale, dalla ricostruzione esegetica di casi e istituti privatistici all’indagine attorno a problemi di filologia giuridica (così da coinvolgere una pluralità di testimonianze epigrafiche e papiracee e giungere altresì, nel 1931, a una nuova edizione critica del Digesto, realizzata con i più valenti romanisti italiani del tempo).
L’amplissimo spettro dei suoi interessi scientifici è anche testimoniato, ad esempio, dalla partecipazione all’Annuario di diritto comparato (autentica «epifania della cultura giuridica comparatistica», Alpa, 2000, p. 260) e al Foro Italiano, creato nel 1875 dal fratello Enrico (padre a sua volta di Antonio Scialoja jr, fondatore del diritto della navigazione in Italia) e del quale Vittorio Scialoja divenne più tardi direttore; dall’attenzione per l’insegnamento (se non per la codificazione) del diritto agrario, la cui parte più rilevante era colta nelle disposizioni di carattere pubblicistico; dall’ancor più significativa promozione di uno studio volto a fissare regole comuni per le relazioni economiche fra Italia e Francia.
Peculiare del suo metodo di lavoro negli ambiti (in lui fortemente integrati) del diritto romano e di quello civile fu – accanto, ma connessa, a quest’interesse per l’esperienza giuridica nella sua totalità (speculazione teorica e risvolti operativi, profondità storica e dimensione vigente) – una ponderata recezione del modello sistematico desumibile dai maestri della pandettistica tedesca (dal nome di Pandette, o Digesto, ove Giustiniano raccolse i frammenti degli scritti giurisprudenziali antichi, riletti nella Germania dell’Ottocento all’insegna della loro ‘attualizzazione’, assunti a fondamenta di edifici teorici organici e rigorosi, presentati come schemi logici applicabili in ogni tempo), e già da Friedrich Carl von Savigny.
Significativa è, in particolare, la scelta di Scialoja di rivolgersi, nel tradurre un’opera di quest’ultimo, al System des heutigen römischen Recht (gli otto volumi della versione italiana del Sistema del diritto romano attuale apparvero a Torino fra il 1886 e il 1898), ossia il lavoro della maturità savignyana, in cui l’istanza sistematica finiva con il prevalere, in quello che era stato il corifeo della Scuola storica, sulla stessa sensibilità per il divenire del diritto nel tempo.
Vi era, in quella scelta, non solo l’intento di agevolare la diffusione in Italia delle tesi del maestro tedesco (intento cui fece seguito il costante impegno di Scialoja di dar conto dei progressi della scienza giuridica in Germania, tramite recensioni, segnalazioni di volumi, saggi ed edizioni critiche di documenti). Essa era soprattutto funzionale a un disegno di fondo, teso a emancipare la scienza giuridica italiana dal mero lavoro ancillare rispetto al dettato dei codici: la via del sistema – con i suoi principi, astrazioni e ferree deduzioni – era anche la via di una recuperata centralità del giurista, la cui formazione non poteva che basarsi sulle dottrine romane: non più, in quanto ormai espressione di un «diritto morto», oggetto di immediata vigenza e spendibilità processuale (come invece nella Germania del tempo, che giunse a emanare un codice civile solo alla fine del XIX secolo, anche se per Scialoja la stessa «differenza tra lo stato anteriore e posteriore alla codificazione è più di forma che di sostanza», Studi giuridici, IV, Roma 1933, p. 196), ma ineludibili per comprendere genesi e portata delle disposizioni attuali, e già per fornire le categorie indispensabili al cultore e operatore del diritto (soprattutto privato), educarne quel «senso giuridico» che, tutt’altro che rispondente a un comune sentire, poteva raggiungersi solo seguendo sul campo le tecniche di generazioni di esperti.
Si realizzò così, in Scialoja, un autentico «adattamento nazionale del paradigma pandettistico» (Schiavone, 1990, p. 284), in cui non andò dissolta quella duplicità di «anime distinte», storica e sistematica, «ma collegate funzionalmente fra di loro» (Talamanca, 1995, p. 162) che caratterizzarono la cultura giuridica tedesca a partire almeno dall’ultimo Savigny (quello appunto del System). La rilettura dei materiali giuridici antichi vi operò come autentico pernio, luogo di costruzione di una coscienza critica ripetto alle soluzioni normative e alle direttive metodologiche di ogni settore giuridico, senza la quale non si potrebbe comprendere la svolta consumata in quei decenni nel rapporto fra codice e scienza del diritto.
La razionalità giuridica così delineata muoveva anche dalla capacità di evitare, da parte di Scialoja, gli eccessi di ogni approccio (quello puramente antiquario o speculativo oppure appiattito sul nudo dato legislativo; la tensione sistematica o il mero esercizio esegetico), ove anche il suo «concettualismo» (Cianferotti, 1988, pp. 725 ss.) veniva ricomposto con la sensibilità per il caso concreto in un equilibrio che aveva radici lontane, muovendo da quei giuristi romani che egli considerava i suoi veri maestri. Era una razionalità giuridica che aspirava inoltre a presentarsi come neutra: un repertorio di categorie e metodi tutti interni alle tecniche del dirittto. Immagine ovviamente artificiosa, dal momento che, sottesa a quell’attrezzatura teorica, non è difficile scorgere la precisa incidenza di motivi ideologici, che si possono sintetizzare nei termini di un «liberalismo conservatore» (Brutti, 2013, p. VII). I cardini dell’ordine giuridico borghese – la libertà del singolo, la proprietà privata quale archetipo di tutti i suoi diritti soggettivi, il ruolo della manifestazione della volontà (colta nella figura unitaria del ‘negozio giuridico’) come idonea a produrre una molteplicità di conseguenze e relazioni nel diritto civile – furono non a caso oggetti privilegiati di prolusioni (soprattutto Responsabilità e volontà nei negozi giuridici, del 1885) e trattazioni didattiche (come il corso dell’anno accademico 1892-93 sui Negozi giuridici, ma anche le lezioni di Teoria della proprietà nel diritto romano curate da Pietro Bonfante ed edite a Roma nel 1928-1933), per ricevervi sempre una ricostruzione fortemente connotata dall’individualismo liberale. Basti ricordare la persuasione, circa il negozio giuridico, della sua rispondenza a una «verità» inscritta nella prassi sociale e in regole di convivenza avvertite come pressoché immutabili, salvo poi una serrata articolazione tecnica attorno alle nozioni di «volontà», «dichiarazione» e «responsabilità» (Brutti, 2013, pp. 65 ss.); oppure lo scetticismo manifestato (sin dal giovanile Degli atti di emulazione nell’esercizio dei diritti (1878), ma destinato a riproporsi nella voce Aemulatio (1892) e in altri contributi del periodo romano) a proposito della possibilità di individuare «un precetto che condanni gli atti rivolti allo scopo di nuocere ad altri senza però lederne alcun diritto» (atti noti ai giuristi come «emulativi», e di cui Scialoja negava potersi trovare un divieto, muovendo, «in ultima analisi, dal riconoscimento della libertà come “regola fondamentale” del diritto privato», Chiodi, 2013, p. 1835).
Questo pur vasto impegno scientifico è lontano dall’esaurire la personalità e il ruolo di Scialoja sulla scena italiana (e per molti versi europea) fra XIX e XX secolo. Accanto ad alcune cariche già ricordate e ad altre prettamente accademiche – come la presidenza della facoltà giuridica romana (1897-1907 e 1915-16) e poi dell’Accademia dei Lincei (dal 1926) – il suo cursus honorum di notabile dell’Italia liberale e poi fascista è, nel corso del Novecento, davvero considerevole. Al 1904 risale la nomina a senatore, cui seguirono responsabilità di governo: il ministero della Giustizia (1909-10), quello senza portafoglio con l’incarico della Propaganda (1916-17), quello degli Affari esteri (1919-20). Fu vicepresidente del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione; ministro di Stato nel 1926; delegato italiano alla Conferenza di pace e primo rappresentante del nostro Paese (1921-32) alla Società delle Nazioni (alla cui costituzione aveva dato un personale contributo); presidente, dal 1924, della sottocommissione per la riforma del codice civile. Di rilievo, in campo politico e legislativo, le proposte di legge, avanzate in veste di guardasigilli, in materia di cittadinanza, indagini sulla paternità e trascrizione; il suo coinvolgimento già negli ultimi mesi del 1917 in merito ai provvedimenti urgenti da adottare per il dopoguerra; l’iniziativa intrapresa al fine di fissare una disciplina unitaria per i rapporti privati fra Italia e Francia – così da giungere, nel 1927, all’approvazione del «Progetto di un codice delle obbligazioni e dei contratti» comune ai due Paesi –; i ripetuti interventi volti a segnalare l’‘arretratezza’ del nostro codice civile, proporne modifiche tramite la redazione (sin dagli anni Dieci) di vari progetti e più tardi guidarne i lavori di riforma.
Dal 1924 fu in effetti chiamato a presiedere la prima delle quattro sottocommissioni in cui era articolata la Commissione reale incaricata di redigere i nuovi codici (quello civile, nel caso di Scialoja, che peraltro non mancò di dare impulso anche al codice di procedura civile). Dal suo lavoro in quella sede non scaturì però molto (se non il progetto del primo libro del codice, presentato nel 1930): l’opportunità di una revisione organica e profonda rispetto al testo previgente non venne da lui colta in pieno – e certo non per carenza di capacità né di rapidità d’azione – per ridursi a una mera, frammentaria revisione formale. Difficile sottrarsi alla sensazione che, benché pienamente disponibile a collaborare con il governo di Benito Mussolini (nei cui confronti svolse pubblici interventi sin troppo concilianti, anche a fronte dell’involuzione autoritaria seguita all’omicidio di Giacomo Matteotti, nel 1924-25), Scialoja cercasse di sottrarsi a una ridefinizione sostanziale della normativa di diritto privato, che in quel momento sarebbe equivalsa a uno stravolgimento del suo assetto di fondo, di stampo liberale, a tutto vantaggio della pervasiva infiltrazione dei principi dello Stato totalitario e corporativo, con il primato che esso riconosceva agli interventi pubblici su un’economia ormai di massa e le sue istanze di solidarismo sociale in chiave autoritaria. Da qui l’«invincibile scetticismo» che a Scialoja fu rimproverato da Dino Grandi, in quanto improntato all’idea (inaccettabile per il guardasigilli di Mussolini) secondo cui politica e diritto sarebbero stati nettamente distinti. Fra le regole giuridiche delle relazioni fra privati e il contributo della vecchia oligarchia liberale, in cui Scialoja rimaneva saldamente inscritto, si levava ora l’ombra dello Stato fascista, e al vecchio notabile non rimaneva che ridisegnare il proprio compito in termini più limitati, tali da non stravolgere l’impianto del codice del 1865, tanto che all’innovativo testo del 1942 si giungerà, sostanzialmente, in virtù dei lavori realizzati a partire solo dal 1939.
Lasciato l’insegnamento nel 1931, Scialoja fu al centro di solenni onoranze nazionali, cui seguì la raccolta dei suoi contributi (cinque volumi di Studi giuridici, editi a Roma fra il 1933 e il 1936), dopo che già nel 1905 erano stati pubblicati scritti in suo onore. Morì a Roma il 19 novembre 1933.
Fonti e Bibl.: G. Scherillo, L’opera scientifica di V. S., Modena 1934; R. Orestano, Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna 1987, pp. 506 ss.; G. Cianferotti, L’Università di Siena e la ‘vertenza Scialoja’. Concettualismo giuridico, giurisprudenza pratica e insegnamento del diritto in Italia alla fine dell’Ottocento, in Studi senesi, C (1988), pp. 725-750; M. Talamanca, Un secolo di «Bullettino», in Bullettino dell’Istituto di diritto romano «Vittorio Scialoja», XCI (1988), pp. IX ss.; F. Amarelli, L’«insegnamento scientifico del diritto» nella lettera di V. S. a Filippo Serafini, in Index, XVIII (1990), pp. 59 ss.; C. Salvi, La giusprivatistica fra codice e scienza, in Stato e cultura giuridica in Italia dall’unità alla repubblica, a cura di A. Schiavone, Roma-Bari 1990, pp. 241 ss.; A. Schiavone, Un’identità perduta: la parabola del diritto romano in Italia, ibid., pp. 283 ss.; F. Cipriani, Studi di processualisti e di oligarchi. La procedura civile nel regno d’Italia (1866-1936), Milano 1991, pp. 55 ss.; M. Talamanca, La romanistica italiana fra Otto e Novecento, in Index, XXIII (1995), pp. 166 ss.; A. Lovato, Diritto romano e scuola storica nell’ottocento napoletano, Bari 1999, pp. 42 ss., 111 ss.; G. Alpa, La cultura delle regole. Storia del diritto civile italiano, Roma-Bari 2000, pp. 259 ss.; P. Grossi, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 1860-1950, Milano 2000, pp. 42 ss., 104 s.; M. Talamanca, V. S., in Juristas universales, a cura di R. Domingo, III, Madrid 2004, pp. 672-677 (con bibl.); M. Brutti, V. S. Diritto romano e sistema nel tardo Ottocento, in Bullettino dell’Istituto di diritto romano «Vittorio Scialoja», CV (2011), pp. 13-87; A. Carratta, V. S. ed il processo civile, ibid., pp. 103-134; N. Irti, Del ritorno ai classici (e del negozio giuridico nel pensiero di V. S.), ibid., pp. 89-101; E. Stolfi, V. S., in Il contributo italiano alla storia del pensiero. Diritto, Roma 2012, pp. 397-400 (con bibl.); M. Brutti, V. S., Emilio Betti. Due visioni del diritto civile, Torino 2013; G. Chiodi, S., V., in Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), a cura di I. Birocchi et al., II, Bologna 2013, pp. 1833-1837 (con bibl.); M. Brutti, I romanisti italiani in Europa, in Il diritto italiano in Europa (1861-2014). Scienza, giurisprudenza, legislazione. Annuario di diritto comparato e di studi legislativi, V (2014), a cura di M. Bussani, pp. 218 ss.; E. Stolfi, Giuristi, ideologie e codici. S. e Betti nell’interpretazione di Massimo Brutti, in Sociologia, XLVIII (2014), pp. 72-87; Id., S. V., in Dizionario del liberalismo italiano, II, Soveria Mannelli 2015, pp. 1012-1014; Id., Studio e insegnamento del diritto romano dagli ultimi decenni dell’Ottocento alla prima guerra mondiale, in Storia del diritto e identità disciplinari: tradizioni e prospettive, a cura di I. Birocchi - M. Brutti, Torino 2016, pp. 3 ss., 23 ss., 40 ss.