Volontariato
Il termine volontariato definisce contemporaneamente la cosiddetta azione volontaria, ossia quella derivante da motivi di ordine prosociale, e le forme più o meno organizzate secondo cui tale azione si esplica. Nel primo caso (azione volontaria) il riferimento è alle teorie motivazionali dell'agire sociale e collettivo, nel caso in cui questo produca il bene di altri senza previsione di ricompense esterne (Cattarinussi 1990). Nel secondo caso (v. come organizzazione) il riferimento è ai meccanismi e ai percorsi attraverso i quali queste forme organizzative hanno raggiunto rilevanza culturale, sociale, politica ed economica. Va detto che, pur esistendo numerosi e interessanti collegamenti tra questi percorsi interpretativi, la ricerca sull'azione volontaria risulta maggiormente influenzata da discipline quali l'antropologia, la psicologia sociale, la sociologia e la sociobiologia, mentre la letteratura relativa allo sviluppo e al ruolo politico e sociale del v. appare caratterizzata da forti connotazioni etico-politiche ed economico-sociali.
La ricerca in materia di azione volontaria è vastissima e ancora non esiste un'unica teoria esplicativa generale, ma diverse interpretazioni. Esistono inoltre posizioni discordanti sul considerare prosocialità quale sinonimo di altruismo, assegnando al primo una connotazione adattiva e al secondo una connotazione etico-morale. L'altruismo, inteso come amore incondizionato per il prossimo, sembra appartenere alla sfera dei sentimenti, a quella dei motivi e dei valori che orientano la persona a desiderare il bene altrui, mentre la prosocialità, intesa come tendenza a far ricorso ad azioni che si contraddistinguono per gli effetti benefici che producono negli altri, sembra appartenere invece alla sfera delle abitudini, delle pratiche, delle modalità abituali di interazione sociale. Si tratta fondamentalmente di una propensione ad agire in modi che sortiscono effetti positivi per l'altro (Il comportamento prosociale, 2006). Altri autori (Donati 2000) hanno argomentato invece a favore del dono, quindi dell'altruismo, quale motore della relazione sociale generalizzata, in condizione di spiegare anche la relazione di scambio.
L'interesse per il v. in quanto soggetto organizzativo sempre più coinvolto in numerosi settori della vita sociale, culturale, economica e politica è cresciuto in modo significativo a partire dagli anni Sessanta e Settanta del 20° sec., di pari passo con i profondi mutamenti che hanno caratterizzato le società occidentali di quel periodo. Ciò sembra confermare le ipotesi di una stretta connessione del v. con i più generali problemi del welfare e del senso di cittadinanza e vedono la sua crescita come un fenomeno di risposta alle crisi. Al contempo rimane un'immagine nascosta del v., quale catalizzatore di bisogni estranei al welfare (motivi di ordine altruistico e prosociale per l'appunto), che lo vede come produttore di senso, piuttosto che di servizi. Queste due anime, che permangono nel corso dello sviluppo del movimento del v., segnalano la pluralità di ragioni che caratterizza i modelli di adesione alle organizzazioni di volontariato.
Motivazioni al lavoro volontario
La motivazione è fra i principali oggetti di interesse degli studiosi del comportamento organizzativo. Essa lo è ancora di più quando si tenta di escludere le variabili di tipo utilitaristico che sembrano sottostare al lavoro retribuito. Le ricerche sulle motivazioni all'azione volontaria possono essere distinte sulla base dell'indipendenza assegnata all'altruismo nei confronti della reciprocità. In pratica si tratterebbe di decidere se il comportamento di donazione sia spiegabile attraverso la derivazione da altre categorie quali l'utilità, le norme sociali o l'apprendimento.
Nell'approccio utilitarista classico, il concetto di altruismo viene spiegato attraverso il processo di reciprocazione del dono. Secondo la 'teoria dello scambio' (Gouldner 1960), per es., l'altruismo è considerato strumentale all'ottenimento di future ricompense (di natura esterna come, per es., la gratitudine e l'approvazione sociale, oppure interna come l'approvazione del proprio Super Io). La 'teoria dei giochi' spiega razionalmente l'altruismo, mostrandone la convenienza nelle situazioni ad alta interdipendenza, e quella dello 'scambio simbolico' lo spiega in quanto sostegno alla credibilità e all'affidabilità del donatore (Ranci 1994). Anche per la 'sociobiologia' il comportamento solidale si può spiegare in quanto strategia, programmata geneticamente e stabilizzata nel corso dell'evoluzione, la quale permette di massimizzare il bilancio perdita-guadagno. La solidarietà converrebbe mediamente ai singoli soggetti e non rivela una tendenza evolutiva verso il bene della specie. Secondo la 'teoria dell'equità', invece, le società sviluppano sistemi normativi (individui implicati nelle transazioni sociali dovrebbero ricevere ricompense proporzionali ai loro sforzi) che fanno sì che gli individui che percepiscono di trovarsi in relazioni inique tentino di correggere lo squilibrio, creando condizioni di maggiore equità (Asprea, Villone Batocchi 1981).
In alternativa alle spiegazioni di tipo utilitaristico o normativo, e senza dover ricorrere a categorie etico-teologiche (secondo le quali il dono è totalmente puro e gratuito, non contaminato da comportamenti interessati), si trova il famoso lavoro di M. Mauss (Essai sur le don, 1923-24) che mette in evidenza quanto l'idea dell'uomo come animale economico sia in realtà un'invenzione recente e tipica delle società occidentali, non inscritta nella nostra storia e nella nostra antropologia. La logica del dono ha a che fare con un intramontabile principio di saggezza, quello dell'uscire da sé stessi, del dare assieme liberamente e per obbligo. Lo spirito del dono, infatti, è basato su una triplice obbligazione: l'obbligo di dare, l'obbligo di ricevere e infine l'obbligo di ricambiare. Il dono è quindi un circolo, un filo che tesse la relazione, che costruisce l'amicizia, il legame sociale, perché obbliga nel tempo e ci rende costantemente e irrinunciabilmente dipendenti gli uni dagli altri. Questa spiegazione della funzione sociale del dono rappresenta uno spartiacque tra la visione utilitarista e quella etico-teologica e risulta convincente per spiegare ampie zone del v. non riconducibili a modelli ideologico-religiosi di adesione.
Da un punto di vista descrittivo (piuttosto che esplicativo) sono state proposte differenti categorie per comprendere le motivazioni al lavoro volontario: condizioni socioeconomiche (le persone con redditi, livello culturale, posizione lavorativa e prestigio sociale più alti hanno maggior probabilità di diventare dei volontari); reti di relazioni interpersonali (il reclutamento avviene per lo più attraverso reti di relazioni, se si esclude l'attrazione esercitata da alcune organizzazioni di v. molto visibili); caratteristiche demografiche (le ricerche in questo campo sono difficilmente riassumibili, pur se si rileva una concentrazione nelle fasce di età tra i 10 e i 18 anni e tra i 40 e i 55 anni; in Italia l'ISTAT ha pubblicato i dati relativi alle rilevazioni del 2003 utilizzando differenti intervalli di età che però confermano la massima concentrazione di lavoro volontario nella fascia di età che è compresa tra i 30 e i 54 anni: ISTAT 2005); personalità (nelle diverse indagini, di frequente difficilmente confrontabili, sono riscontrabili dati che fanno supporre una correlazione tra l'appartenenza a organizzazioni volontarie e caratteristiche come la fiducia e la facilità ai rapporti interpersonali).
Forme organizzative e problemi di classificazione del volontariato
Se, quindi, l'azione volontaria, ricondotta alla sua natura utilitaristica, etico-religiosa o sociorelazionale, può essere considerata un'espressione relativamente stabile del comportamento umano, sono profondamente mutate le forme con le quali si organizza e il ruolo che queste forme assumono nei sistemi sociali. Uno degli elementi di complessità è dato, in questo caso specifico, dal rapporto tra organizzazioni volontarie e organizzazioni non-profit, ovvero l'insieme dei soggetti organizzativi che operano senza finalità di lucro. In Italia, oltre alle differenze di carattere giuridico, fiscale e tributario, il dibattito si è acceso attorno all'influenza di una sempre maggiore istituzionalizzazione delle organizzazioni di v. e della sua rischiosa dipendenza dai finanziamenti pubblici. È cresciuta infatti la propensione alla gestione delegata di servizi sostenuta da una professionalizzazione delle competenze interne e da una dipendenza dal finanziamento pubblico sempre più ingente (Osservatorio nazionale per il volontariato 2005). Ciò sembrerebbe prefigurare lo sfumarsi delle differenze tra v. e terzo settore a favore di quest'ultimo.
Per comprendere questo processo è utile partire dalla definizione di terzo settore (cui si affiancano nella situazione italiana quelle di privato sociale e terzo sistema). Il riferimento culturale muove dalla tradizione statunitense (che in quel contesto può vantare una lunga e consolidata tradizione, oltre che sotto il profilo quantitativo anche sotto quello della formalizzazione giuridico-amministrativa) per poi dispiegarsi nelle tradizioni italiane ed europee. Ciò non vuol dire che esista una diretta derivazione culturale, ma piuttosto che ricerca, politica e diritto hanno guardato alle organizzazioni non-profit con maggior attenzione e in anticipo negli Stati Uniti rispetto a quanto è avvenuto nel contesto europeo. Sarebbe naïf ipotizzare una più marcata presenza di motivazioni prosociali nelle culture anglosassoni rispetto a quelle latine. Piuttosto è utile ricorrere a distinzioni di ordine storico-sociale e giuridico, quali l'impatto di legislazioni basate sulla common law, sull'iniziativa privata dei cittadini o le diverse connotazioni culturali che caratterizzano le confessioni protestanti e il cattolicesimo.
In ambito americano le chiavi di lettura più ricorrenti per spiegare l'esistenza del settore non-profit (o not-for-profit, termini nati proprio negli Stati Uniti) sono le carenze e le distorsioni del privato mercantile e le rigidità e inadeguatezze del pubblico nell'offerta di servizi (Boccacin 1993). Questo approccio non sembra ipotizzare un'identità specifica di questo fenomeno, indipendente cioè dalla sua collocazione 'tra Stato e mercato.
Diversa è la prospettiva assunta dal Johns Hopkins Comparative Nonprofit Sector Project, il più estensivo studio comparativo realizzato in materia (e ancora in corso) a livello internazionale. Non a caso uno degli ultimi rapporti è intitolato Global civil society: an overview (2003), sottolineando il carattere di cittadinanza attiva che sembra assumere la crescita globale del numero di organizzazioni non-profit nel mondo. Anche in questo caso è possibile rintracciare le differenti prospettive motivazionali applicate all'analisi: una utilitaristica e reattiva, l'altra prosociale e proattiva. A livello europeo si possono rintracciare le radici del fenomeno nel charitable sector (Inghilterra, Galles e Scozia seppur con qualche differenza) e nell'économie sociale dei Paesi di lingua francese (in particolare Francia e Belgio). Il primo designa un insieme di organizzazioni costituite per perseguire finalità, appunto, caritatevoli e le sue radici storiche sembrano coerenti con quelle delle italiane Misericordie (per quanto le charities inglesi coprano da sempre campi di intervento più variati). Il secondo (économie sociale) è probabilmente quello più tipicamente europeo e pone l'accento sull'aggettivo sociale rispetto al sostantivo économie per sottolineare la priorità delle finalità sociali delle iniziative economiche intraprese (Colozzi, Bassi 1995).
Per quanto riguarda la situazione italiana, le primordiali forme organizzate di v. possono essere rintracciate nelle già citate Confraternite di misericordia (12° sec.), nel Volontariato vincenziano (17° sec.), nelle Pubbliche assistenze, Società di mutuo soccorso e case del popolo (19° sec.). Gli sviluppi in corso a partire dalla fine del Novecento sono da addebitare a una pluralità di fattori, tra cui la cosiddetta crisi dello stato sociale di carattere organizzativo e di legittimazione del modello, le grandi riforme del welfare (quali l'istituzione del Servizio sanitario nazionale e la legge-quadro dei servizi sociali; il decentramento amministrativo e la crescita della partecipazione sociale), il rinnovamento della Chiesa postconciliare, la nascita di forme di coordinamento tra volontari e l'accresciuta attenzione delle istituzioni.
In termini di classificazione le organizzazioni di v. condividono con il più ampio terzo settore i cinque criteri distintivi: assenza di distribuzione di profitti, natura giuridica privata, costituzione formale, autogoverno, una quota di lavoro volontario. Questa definizione è condivisa a livello europeo e risulta coerente con quella raggiunta dal già citato progetto della Johns Hopkins University.
La legislazione italiana prevede in aggiunta pure la democraticità dell'organizzazione attraverso l'elezione delle cariche e la partecipazione effettiva degli aderenti. All'interno di un sistema di classificazione suddiviso in v. organizzato, cooperazione sociale, associazionismo prosociale oppure sociale, fondazioni prosociali, il v. organizzato sembra distinguersi dal resto del terzo settore essenzialmente per la pregnanza della sua motivazione prosociale, ossia per la centralità dell'orientamento all'altruismo e alla reciprocità (Rossi, Boccacin 2003).
La legislazione vigente in Italia (l. 11 ag. 1991 nr. 266, detta anche Legge-quadro sul volontariato) ha raffigurato l'organizzazione di v. come un gruppo organizzato, dotato di autonomia e identità, minimamente strutturato e in condizioni di operare con continuità per fini esclusivi di solidarietà. Sono i volontari a determinare le finalità organizzative e a svolgere in modo esclusivo o prevalente le attività. I criteri assunti dalla l. 266/91, che permettono l'iscrizione ai Registri del volontariato e la conseguente possibilità di ricevere contributi pubblici, prevedono la natura solidaristica (a vantaggio di terzi) e promozionale (nei vari settori della vita sociale), forme giuridiche ritenute adeguate alle finalità (purché compatibili con lo scopo solidaristico), statuti oppure accordi tra gli aderenti, assenza di fine di lucro e gratuità delle cariche e delle prestazioni, formazione del bilancio. Sono state avanzate delle proposte di revisione della legge-quadro soprattutto in merito al problema del finanziamento del v., cui le Fondazioni bancarie sono obbligate e che per ragioni di svariato genere non è riuscito a funzionare totalmente, nonché all'impatto della successiva riforma costituzionale del titolo v sull'impianto della legge-quadro.
Per quanto concerne la dimensione europea del v., va detto che, a causa della grande variabilità degli assetti legislativi e dei sistemi istituzionali di riferimento, non è possibile ottenere un quadro preciso nei dettagli. Una ricerca (SPES 2006) ha messo in evidenza la vitalità del fenomeno nei Paesi oggetto dell'indagine (Italia, Francia, Gran Bretagna, Spagna, Paesi Bassi, Polonia, Repubblica Ceca), e una sostanziale similitudine in quanto all'inclusione del v. nel terzo settore e nella definizione stessa di volontariato. Molto diverse risultano invece le legislazioni (in alcuni casi non vi sono leggi specifiche) e la consistenza (maggiore nei Paesi Bassi, Francia e Gran Bretagna anche a causa di più antiche tradizioni tanto politiche quanto istituzionali di carattere liberal-democratico).
All'interno dell'Unione Europea è cresciuto nel corso del tempo il riconoscimento del valore sociale, culturale ed economico del v. e il coinvolgimento delle organizzazioni di volontari nei processi decisionali in campo politico (per es., le consultazioni con la società civile sulla governance europea). Dalla Risoluzione sul volontariato adottata dal Parlamento europeo nel 1983, che riconosceva la natura di interesse generale dell'attività volontaria e invitava l'allora Commissione europea a prestare una sistematica attenzione al v., alla Comunicazione per la promozione del ruolo delle organizzazioni e delle fondazioni di volontariato in Europa, del 1997, che sottolineava l'importante ruolo del v. nella creazione di opportunità di lavoro, l'attenzione delle istituzioni europee è continuamente cresciuta nei confronti di una realtà che esprime in modo sempre più preciso le istanze della cosiddetta società civile. All'inizio del 21° sec., il principale finanziamento diretto al v. da parte dell'Unione Europea avviene sotto forma di Programma per il servizio volontario europeo (SVE), un programma che permette la circolazione di circa 3500 giovani volontari tra gli Stati membri della UE e i Paesi candidati all'ingresso.
Diffusione e vitalità del volontariato
I dati sulla diffusione del v. in Italia mostrano un incremento del 152% tra il 1995 e il 2003 per quanto concerne il numero delle organizzazioni, dipendente dalla creazione di nuove entità e dalla iscrizione di preesistenti organizzazioni nei Registri del volontariato. Le regioni dell'Italia settentrionale sembrano mostrare il maggior radicamento sia di organizzazioni sia di prestazione d'opera volontaria. Cresce il numero di organizzazioni di piccole dimensioni (meno di 11 volontari) e diminuisce quello delle organizzazioni con più di 60 volontari; aumenta il numero di dipendenti impiegati rispetto alle precedenti rilevazioni (1995) soprattutto nel Mezzogiorno. Cresce anche il numero complessivo di volontari. Sanità e Assistenza sociale si confermano i settori in cui operano il maggior numero di organizzazioni pur se in leggera flessione, mentre crescono Ricreazione e cultura, Protezione civile e Protezione dell'ambiente. Aumenta inoltre il numero di organizzazioni che operano in due oppure in più settori.
Complessivamente si evidenzia una diffusione più equilibrata sul territorio, una crescente espressione di partecipazione e di cittadinanza attiva, una certa secolarizzazione (con la crescita della componente aconfessionale e apartitica), nonché un potenziamento dell'assetto gestionale e più campi di intervento e di specializzazioni. Per contro si rilevano problemi di ricambio e turnover, crescita (in particolar modo nel settore sanitario) della dipendenza da finanziamenti pubblici con conseguente tendenza al passaggio all sociale, una certa frammentazione nella rappresentanza e la tendenza a un minore coinvolgimento dinamico delle fasce giovanili. Emergono inoltre preoccupazioni per un indebolimento della componente di gratuità, indebolimento che sarebbe dimostrato dalla progressiva crescita numerica del personale dipendente come pure dalla tendenza a concedere rimborsi spesa forfettari (cioè non documentati).
Questi dati e considerazioni tratteggiano un movimento sociale maturo, che fornisce un ambiente relativamente stabile per l'espressione delle motivazioni prosociali e della cultura del dono ma che, proprio a ragione delle dinamiche storico-sociali che lo hanno fatto crescere, affronta i problemi della maturità. Ma anche in questo caso vale la pena di ricordare la perenne differenza tra motivi e forme organizzative.
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