VOLTERRA
(etrusco Velathri; lat. Volaterrae)
Cittadina della Toscana centro-occidentale, in prov. di Pisa, posta tra le valli della Cècina e dell'Era, sulla sommità piana di un poggio in posizione dominante su un vasto territorio e per questo già abitato sino almeno dall'età del bronzo.
Importante lucumonia etrusca, passata per ultima sotto il controllo romano, la città in età classica si estendeva su un'area assai più vasta di quella dell'abitato medievale, come dimostra il giro delle mura etrusche, in parte conservate, e riutilizzate sul lato occidentale come base delle mura duecentesche comprendendone nel circuito una delle porte, il c.d. arco etrusco - dalla ghiera peraltro rifatta in epoca romana -, perfettamente integrato nella muratura medievale e ribattezzato porta all'Arco, significativo episodio di consapevole riadattamento di un prestigioso monumento antico. I principali percorsi di accesso alla città di epoca etrusca, sebbene irregolari, costituirono gli assi della città romana, intorno al cui foro, e sul luogo della od. piazza dei Priori, finì per concentrarsi, a scapito dell'antica acropoli sovrastante, la vita urbana nell'Alto Medioevo, periodo di forte contrazione urbanistica in cui tuttavia il potere longobardo ebbe in V., sede di gastaldato, uno dei suoi centri più importanti all'interno del ducato di Toscana, in stretto contatto con la capitale dello stesso potentato, Lucca, rispetto alla quale V. si trovava a metà strada lungo la più frequentata via di accesso ai territori meridionali dello stato, in Maremma, nonché lungo uno dei percorsi paralleli e alternativi al principale asse N-S che correva lungo la Valdelsa, divenuto poi la via Francigena o Romea.Pressoché nulla resta del patrimonio architettonico e artistico anteriore al periodo protoromanico, a parte una lastra altomedievale a motivi fitogeometrici a intreccio (Volterra, Mus. Etrusco Guarnacci). Ciò a causa soprattutto della distruzione della primitiva cattedrale e delle chiese suburbane altomedievali di S. Giusto e di S. Clemente, dedicate ai due supposti evangelizzatori della città in età apostolica, edifici testimoniati in epoca longobarda, uno dei quali è assai verosimilmente franato già in età medievale nelle Balze, il ciclopico fenomeno franoso tuttora avanzante a N della città, mente l'altro potrebbe trovarsi sul sito del monastero protoromanico dedicato appunto ai ss. Giusto e Clemente. Questo complesso benedettino, fondato nel 1030 e presto affidato ai Camaldolesi, ha visto l'abbaziale ricostruita nel primo sec. 12°, restaurata un'ultima volta e affiancata da nuovi edifici monastici in epoca tardomanieristica, e prudentemente sostituita nel Seicento dalla chiesa di identica dedicazione in posizione più sicura rispetto al baratro, oltre che più vicina alla città. La chiesa monastica, definitivamente abbandonata dopo l'acuirsi del movimento franoso e i danneggiamenti del terremoto del 1846, ebbe la copertura e parte dei muri d'ambito rovinati da un crollo nel 1895 ed è attualmente in corso di restauro. Ne restano ben visibili il capocroce, l'abside introdotta da un arcone bicromo e decorata esternamente da archetti, e il campanile. I capitelli, in parte ancora presenti, dimostrano l'attardamento stilistico tipico della zona centrale della Toscana, Valdelsa e Terra di Siena in specie, ben studiabile anche nei pezzi oggi al Mus. Diocesano di Arte Sacra, ulteriori capitelli e rilievi, e al Mus. Etrusco Guarnacci, comprendenti questi una vasta e notevole decorazione scolpita, assai probabilmente coeva, a cornici su archetti e lunette interamente decorati. Vi prevalgono motivi a intreccio dal rilievo appena risentito, disorganiche rappresentazioni fitomorfe e sintetiche raffigurazioni di animali, anche affrontati. Dal complesso monastico proviene anche una lunetta con leoni sbrananti un uomo (Volterra, Pinacoteca e Mus. Civ.). Sussistono inoltre frammenti di cibori e di decorazioni figurate romaniche dalla stessa chiesa. Degno di nota è l'architrave con rilievo raffigurante Cristo assiso tra i ss. Pietro e Paolo tra due sarcofagi di santi, rappresentati come tarde urnette etrusche con figura giacente del defunto, conservato nel Mus. Etrusco Guarnacci, dove si trovano in effetti urne cinerarie etrusche di provato utilizzo come repositorio di corpi venerati, dalla cattedrale, com'è il caso dell'urna di s. Clemente. Questa prassi, oltre a rappresentare un altro caso di apprezzamento e di riutilizzo di manufatti etruschi in epoca medievale, testimonia la presenza di reperti etruschi sicuramente visibili in epoca romanica e gotica e costituisce una delle verosimili fonti di esempi successivi di comparsa di simili iconografie. Tra queste, il caso delle figure reclinate della fontana Minore di piazza a Perugia, di un Arnolfo di Cambio nativo di questa diocesi. Ulteriori resti dell'arredo liturgico dell'abbaziale sono invece di età più tarda, come i rari frammenti architettonici del coro a eleganti arcature lobate, opera trecentesca conservata al Mus. Diocesano di Arte Sacra.Al centro della città, la cattedrale fu ricostruita e consacrata nel 1120, sopra una chiesa altomedievale ugualmente a dedicazione mariana. La pianta dell'edificio romanico era originariamente basilicale a croce latina, con absidi orientate, le minori in spessore di muro, secondo una disposizione non rara nella Toscana centrale, la maggiore semicircolare. Nel terzo quarto del Duecento il capocroce venne precocemente mutato, sotto l'influsso cistercense della non lontana abbazia di San Galgano, presso Chiusdino, all'epoca nel territorio della diocesi volterrana, in una struttura a T con alto transetto munito di cappelle terminali parallele al coro e similmente quadrangolari e a terminazione rettilinea. Venne ricavato anche un nuovo prospetto e accesso posteriore, sulla piazza dei Priori al fianco del coevo palazzo dei Priori, qualificato da un portale entro un paramento bicromo che ne favorisce l'altrimenti difficoltosa visibilità. Alterata ancora nel Cinquecento, con il rifacimento del colonnato e della copertura delle navate, e in seguito con l'aggiunta di cappelle barocche, talora di singolare livello qualitativo, la chiesa fu ancora modificata nel quinto decennio dell'Ottocento, prima e dopo il terremoto del 1846, e restaurata nel Novecento. Essa mostra oggi l'aspetto originario all'esterno e nella struttura interna più che nell'apparato decorativo. Il suo stile riprende fondamentalmente il Romanico pisano della fase tarda di Buscheto (v.), comune in effetti nei decenni intorno alla consacrazione della chiesa, per es. nel S. Pietro in Vincoli di Pisa (v.), e basato sui transetti della cattedrale pisana. Su questa base si accolsero qui suggerimenti lucchesi a livello strutturale, per es. nella lunghezza e altezza pronunciate delle navate, mentre il coronamento della facciata risulta parallelo a testi di area pisana della seconda metà del sec. 12°, e rappresenta la fase finale di una costruzione iniziata evidentemente dal capocroce e proseguita verso O, come mostra anche un certo evolversi e divenire più sicuri della decorazione architettonica. Maestranze pisane sembrano con quest'opera affiancarsi e sostituirsi alle mani lombarde autrici ancora in questa chiesa della lunetta del portale laterale (Volterra, Mus. Diocesano di Arte Sacra) e dei numerosi rilievi a intreccio che fino a pochi anni prima avevano costituito la voce meglio avvertibile nell'ambiente artistico volterrano, forze che altrove nella diocesi avrebbero continuato a operare protagoniste sino al Duecento inoltrato.
Opera di collaborazione tra artefici pisani e locali è la suburbana e diruta chiesa di S. Stefano, di cui resta parte della facciata, tripartita, ad arcature cieche, mentre più semplice veste mostra la successiva, stilisticamente meno qualificata, chiesa suburbana di S. Alessandro, ad aula a capanna con portale e oculo, cui è stato successivamente anteposto un portico.Già alla fine del sec. 12° il duomo fu dotato di un arredo presbiteriale di cui rimane oggi, spostato e ricomposto insieme a pezzi postmedievali, il pulpito. Si tratta di un'opera esemplata sul prototipo pisano di Guglielmo (v.), di cui rimangono i leoni stilofori, i capitelli e alcuni dei rilievi della cassa, segnatamente raffiguranti, oltre al Sacrificio di Abramo, l'Annunciazione e la Visitazione, riunite in un'unica lastra, e l'Ultima Cena, rendendo chiara attraverso questa peculiare scelta iconografica l'originale volontà di perseguire un programma incentrato sul sacrificio di Cristo più che riflettente lo svolgersi del racconto neotestamentario. Lo stile, nelle figure allungate e interpretate con uniforme espressività, nei panneggi ripetitivi ma larghi e a bande, e nel rilievo per piani paralleli, mostra tangenze con un'altra opera derivata dal magistero guglielmesco: le lastre del pulpito del duomo di Pistoia (Pistoia, duomo, cripta), opera degli esponenti della scuola pisana operanti in quella città o forse anche del maestro stesso in una sua fase tarda, rispetto a cui tuttavia il pulpito volterrano mostra già un trattamento delle superfici e un taglio degli occhi di stampo ticinese. L'opera si rivela parallela ma autonoma anche rispetto a Biduino e agli altri rappresentanti più tardi e noti della taglia guglielmesca. A V. operava un Maestro Buonamico, di matrice guglielmesca ma già vicino a Biduino e probabilmente di cultura ticinese, autore di un paliotto con Cristo tra i simboli degli evangelisti da Castellina Marittima, in val di Cècina (Pisa, Mus. Naz. di S. Matteo), e, in anni più maturi, della pieve di Mensano (Càsole d'Elsa) e della sua scultura architettonica, con validi capitelli fogliati a teste angolari, che paiono non distanti da queste sculture e il cui rapporto con esse resta da chiarire.Basati sugli esempi dei plutei fitogeometrici pisani della scuola di Guglielmo (Pisa, Mus. dell'Opera della Primaziale Pisana), ma risalenti agli anni intorno alla fine del sec. 12° o anche all'inizio del Duecento, nel prosieguo dei lavori dell'arredo presbiteriale del duomo, sono i plutei a formelle della recinzione del coro (Volterra, duomo; Mus. Diocesano di Arte Sacra), in cui sembrano operare anche artisti vicini a quelli responsabili della recinzione della basilica di S. Miniato al Monte a Firenze e altri di matrice lucchese, tutti forse peraltro di origine lombarda.Opera di alcuni anni successiva, all'inizio del secondo quarto del Duecento, è la poderosa Deposizione, gruppo ligneo policromo della cattedrale volterrana, che si inserisce nella fase matura e più plastica della serie centroitaliana di simili gruppi scolpiti, il cui livello qualitativo e il cui stato di conservazione lo lasciano anzi additare quale migliore esempio di tale tipologia, all'interno di un gruppo di opere di produzione locale ma ancora una volta verosimilmente di mano lombarda, seppure influenzata, oltre che dalla scultura lignea tardoromanica dell'Europa centrale, dalla plastica della Toscana occidentale tardoromanica.A partire dalla fine del primo quarto del Duecento il panorama artistico a V. andò rapidamente mutando verso il precocissimo e ancora poco sottolineato accoglimento di tipologie e stilemi gotici. La comparsa sorprendente di una così evidente variazione di orientamento culturale e artistico si deve alla presenza nella diocesi dei monaci cistercensi, che avevano da poco fondato e stavano costruendo l'abbazia di San Galgano, chiamati qui da Casamari proprio dal vescovo di Volterra all'inizio del secolo, e sostenuti dai vescovi cittadini per parecchi anni successivamente, prima che con il declino anche politico di V. l'abbazia passasse nell'orbita culturale senese. La presenza a V. dei monaci bianchi è supponibile sulla base, oltre che di riscontri documentari, della parimenti precoce dotazione da parte della città di un grande e moderno edificio pubblico, il palazzo dei Priori, e, gradualmente, delle altre vicine fabbriche comunali, tra cui il palazzo Pretorio. Pur modificati da ricostruzioni parziali, risarcimenti dei danni dei terremoti, e profondi restauri in stile all'inizio del Novecento, questi palazzi, che attendono ancora il necessario capillare esame filologico, mostrano, nelle parti sicuramente autentiche, tipologie e tecniche edilizie derivate dall'architettura cistercense, al pari di quanto nei decenni precedenti a opera degli stessi monaci era stato fatto nelle regioni dell'Italia settentrionale, risultanti in una costruzione civile da comprendere tra gli incunaboli toscani delle strutture gotiche a volte a crociera costolonate e aperte da bifore su colonnine, anche incassate, con capitelli a crochets, elementi pressoché inediti nella regione sino allo stabilirsi dei monaci bianchi nella val di Merse. La struttura del palazzo dei Priori, a blocco parallelepipedo a sviluppo verticale e con torre, precede di pochi anni esempi fiorentini quali anzitutto il palazzo del Bargello e, anche a dilatarne i tempi di costruzione tramandati dalle non chiarissime fonti epigrafiche (1208-1257), sembra precedere i trasformati o scomparsi palazzi degli Anziani di Pisa, Lucca e Prato, peraltro a sviluppo orizzontale e su portici all'uso lombardo, e meglio incarnare il prototipo del palazzo comunale toscano, preso a punto di riferimento in casi prestigiosi, quali anzitutto l'arnolfiano palazzo Vecchio a Firenze, alla fine del secolo.Al palazzo dei Priori fanno riferimento gli altri palazzi pubblici sulla medesima piazza, innalzati sin nel tardo Duecento, e le maggiori tra le case-torri private, quali le case-torri Buonparenti, con vertiginosi e possenti archi cavalcavia lungo il principale asse viario cittadino.
La fabbrica del palazzo dei Priori si situa infatti in un'età di grandi trasformazioni urbanistiche per la città, dall'opera delle nuove mura (1240-1266 ca.) e dalle precoci fonti pubbliche coperte e voltate in zone munite, come le fonti e porta di Docciòla, alla ricostruzione del coro della cattedrale, alla edificazione delle altre principali costruzioni religiose della città, tutte dotate di una veste architettonico-scultorea ormai fortemente influenzata dall'arte cistercense.Importante edificio a pianta centrale di questi anni è il battistero, organismo ottagonale antistante il duomo, cui si rivolge con una facciatina a paramento bicromo sul tipo di quella del coro della cattedrale. Esso mostra un portale strombato con cordoli, a pieno centro, di forma non dissimile da quelli del duomo di Lucca, della metà del Duecento, con architrave su mensole e capitelli con testine riecheggianti l'opera di Nicola Pisano ma attribuibili, per semplificazioni formali e nitore di superfici, a mano lombarda, forse a quel Giroldo di Jacopo da Lugano detto da Como (v.), che probabilmente a V. dovette operare per buona parte della propria vita. La cupola a spicchi, pur certamente prevista, venne aggiunta a completamento nel pieno Rinascimento.Alla medesima bottega va legata la parte inferiore della facciata della chiesa di S. Michele, pure in marmi bicromi, ad arcature cieche inglobanti il portale, percorsa da una cornice che raccoglie i capitelli dei pilastri laterali, delle semicolonne e del portale. La metà superiore della facciata, all'interno dei pilastri marmorei d'ambito, è un sorprendente completamento in stile di età neoclassica, epoca in cui l'interno fu rifatto e alterato. Altra opera di Giroldo è la casa-torre di Michele Toscano, del 1250, prospiciente la chiesa di S. Michele e firmata con una epigrafe.Con il Duecento avanzato furono costruite anche a V. le grandi chiese mendicanti, in posizione esterna rispetto al nucleo centrale della città, ma pur entro le mura. Tra queste emerge la chiesa di S. Francesco, con facciata a capanna e navata unica coperta a tetto, innalzata poco dopo la metà del Duecento, in seguito alterata, affiancata nel 1315 dalla cappella della Croce, voltata e a terminazione poligonale, successivamente affrescata.Della grande chiesa di S. Agostino sono riconoscibili le strutture tardoduecentesche della sala capitolare (Ascani, in corso di stampa b), aperta sul chiostro trecentesco, e quelle della parte inferiore della chiesa ricostruita nel Trecento, basilicale a tre navate, con facciata dotata di basamento a cornice marmorea con motivi decorativi bicromi.Il Trecento artistico a V. ha lasciato traccia di sé soprattutto nei monumenti scolpiti che andarono ad abbellire in particolare la cattedrale. Forse a un altare del 1320 ca. contenente le reliquie delle teste dei santi patroni della città si deve riferire la serie di medaglioni con i quattro santi Giusto, Clemente, Vittore e Ottaviano (Volterra, Mus. Diocesano di Arte Sacra), e la Madonna con il Bambino (Washington, Nat. Gall. of Art). L'opera è perlopiù riferita allo stretto ambito di Tino di Camaino, al pari di una Madonna con il Bambino oggi nella lunetta del portale della chiesa di S. Michele.Alcuni anni più tardi, poco prima della metà del secolo, le sepolture dei corpi di due dei patroni, nella cattedrale, vennero rifatte, dando vita a monumenti funebri di cui si conservano significative parti. Tra queste, le formelle con Storie di s. Ottaviano e quelle con Storie di s. Vittore (Volterra, Mus. Diocesano di Arte Sacra), opere della bottega familiare degli Agostini, e probabilmente in buona parte della mano di Giovanni d'Agostino, dotate, soprattutto le seconde, di un'alta qualità nell'invenzione e composizione delle scene, in cui al modellato tipicamente pittorico della bottega si uniscono ricordi iconografici ducceschi e arnolfiani. Le due serie componevano con ulteriori sculture solo in parte superstiti sepolture probabilmente ad arca, mentre ad altri manufatti, un'ulteriore e più semplice tomba ad arca e un tabernacolo rispettivamente, sono relativi altri frammenti, tra cui una Madonna con il Bambino tra angeli con donatori e una cuspide con Redentore.
Ancora nella cattedrale, i due finissimi angeli dei ceri pasquali di Mino da Fiesole riutilizzano statuette, colonnine tortili ed eleganti capitelli a fogliami a giorno dell'inizio del Duecento. Il coro ligneo intagliato del duomo è fine opera tardogotica terminata poco oltre il 1400.La pittura e la miniatura ebbero in V. un centro importante di produzione e di elaborazione di nuovi stilemi sin dall'inoltrato Duecento, come fanno fede, oltre alla considerazione circa l'origine volterrana di Berlinghiero (v.), del quale peraltro non è possibile oggi ipotizzare un itinerario artistico in patria, la presenza di precoci opere quali la croce dipinta dalla chiesa di S. Lino (Volterra, Pinacoteca e Mus. Civ.), la croce dipinta da San Dalmazio (Volterra, Mus. Diocesano di Arte Sacra) e quella presente in S. Agostino, e miniature tra cui un antifonario duecentesco (Volterra, Mus. Diocesano di Arte Sacra). Nel Trecento inoltrato, insieme all'opera di artisti forestieri, pisani, fiorentini e senesi, si andò formando a V. una scuola pittorica locale, soprattutto fiorente nella seconda metà del secolo con Francesco Neri e i suoi allievi, attivi anche altrove, in specie a Pisa. A lui si attribusce in patria un Cristo in pietà (Volterra, Pinacoteca e Mus. Civ.), mentre gli affreschi della cappella maggiore della cattedrale, dipinti nell'ottavo decennio del Trecento e quasi interamente perduti, furono affidati all'innovativo senese Bartolo di Fredi. Ancora nel duomo restano gli affreschi con Storie della Passione di Cristo di Taddeo di Bartolo, autore anche di tavole dipinte come una Madonna con il Bambino, nella cappella del seminario diocesano presso la chiesa di S. Andrea, la Madonna della Rosa, una Maestà e un elemento di polittico con i Ss. Niccolò da Tolentino e Pietro (Volterra, Pinacoteca e Mus. Civ,). Tra i fiorentini, furono presenti a V. Jacopo di Cione e Niccolò di Pietro Gerini, attivi nella sala conciliare del palazzo dei Priori, dove si trova un'Annunciazione tra i ss. Giusto, Ottaviano, Cosma e Damiano, pittura murale in forma di finto trittico. Ultimo ma non trascurabile episodio della cultura pittorica gotica a V. è l'affrescatura della cappella della Croce di Giorno in S. Francesco, da parte di Cenni di Francesco di Ser Cenni, con Storie della Vera Croce, opera terminata nel 1410, iconograficamente e anche stilisticamente dipendente da Agnolo Gaddi, di abile e scenografica composizione dai morbidi toni.I musei della città, oltre a quanto ricordato, contengono altre interessanti opere d'arte medievale. Nel Mus. Diocesano di Arte Sacra si trovano una croce dipinta duecentesca di influenza giuntesca da Castelfiorentino, il busto-reliquiario di S. Vittore, opera di alta qualità dell'inizio del Trecento, oltre a una croce astile in bronzo di età romanica e a manoscritti liturgici di età gotica.La Pinacoteca e Mus. Civ. conserva una testina marmorea scolpita attribuita a Giovanni Pisano, elementi di polittico con S. Giusto e S. Lino del Maestro di Monterotondo, un dittico duccesco di inizio Trecento, oltre a opere tardogotiche perlopiù provenienti dalla chiese mendicanti, di Cenni di Francesco di Ser Cenni, Jacopo di Michele detto il Gera, Alvaro Pirez d'Evora.Il Mus. Etrusco Guarnacci consente di avvicinare gli episodi decorativi protoromanici da S. Giusto alla plastica altomedievale, tardoantica e classica entro un itinerario percepito come unitario dalla storiografia settecentesca all'origine della creazione di quella importante e precoce raccolta, fondata nel 1732 e donata alla città nel 1761.Tra i monumenti degli immediati dintorni, oltre a numerose chiese romaniche di semplice struttura e piccole dimensioni, si ricordano la pieve di S. Giovanni Battista a Sillano, presso San Dalmazio (Pomarance), diruta, con facciata ad archi ciechi acuti intrecciati, tipologia decorativa di origine normanna, singolarmente presente qui all'inizio del Duecento, e la vicina rocca di Sillano, imponente struttura duecentesca a cinte concentriche poligonali imperniata su una torre centrale a pianta quadrata.
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