11 settembre 2001
11 settèmbre 2001. – L’11 settembre 2001 è una data storica nel mondo contemporaneo: negli Stati Uniti, in una successione di attentati senza precedenti, quattro aerei di linea vengono dirottati da terroristi legati ad al-Qā‛ida e utilizzati per colpire obiettivi di forte valenza simbolica: le Torri gemelle del World trade center a New York e il Pentagono a Washington.
I fatti. – La mattina dell’11 settembre diciannove attentatori (quindici provenienti dall’Arabia Saudita, due dagli Emirati arabi uniti, uno dall’Egitto e uno dal Libano) prendono il controllo di quattro voli di linea partiti dagli aeroporti di Boston, Newark e Washington. Alle 8.46 il terrorista egiziano Muḥammad ‛Aṭṭā, ritenuto dagli inquirenti il capo dei dirottatori, guida il primo aereo, il volo American Airlines 11, a schiantarsi contro la Torre nord del World trade center; un quarto d’ora più tardi, alle 9.03, un altro aereo, il volo United Airlines 175, si schianta contro la Torre sud. Alle 9.37 il terzo aereo dirottato, volo American Airlines 77, viene diretto dai terroristi contro la facciata ovest del Pentagono. Alle 10.03 un quarto aereo, volo United Airlines 93, che secondo le ricostruzioni sarebbe dovuto cadere su una sede politica di Washington, la Casa Bianca o il Campidoglio, precipita in aperta campagna vicino a Shanksville, in Pennsylvania, in seguito al tentativo dei passeggeri di fermare i dirottatori. Nel giro di mezz’ora, tra le 9.59 e le 10.28, le due Torri collassano al suolo. Le vittime degli attentati, complessivamente, sono quasi tremila (oltre 2600 sono i morti nel crollo delle Torri). Nel maggio 2012 nella base di Guantanamo si è aperto il processo ai cinque presunti organizzatori degli attentati: il kuwaitiano Khālid Shaykh Muḥammad, autoproclamatosi la mente dell’attacco, gli yemeniti Walīd Muḥammad Ṣāliḥ Mubārak bin ‘Aṭṭāsh e Ramzī bin al-Shibḥ, il pachistano ‘Alī ‘Abd al-‘Azīz ‘Alī e il saudita Muṣṭafà Aḥmad al-Ḥawṣāwī. Battuta al Congresso la linea garantista del presidente B. Obama, che voleva che il processo fosse celebrato a New York presso un tribunale civile, è una corte militare a giudicare gli imputati. Tra i capi di accusa omicidio, cospirazione, terrorismo, strage e dirottamento aereo.
Gli scenari. – Le ricostruzioni grafiche che disegnano le rotte aeree dei quattro voli deviati dai terroristi l’11 settembre 2001 – viste infinite volte sullo sfondo dei notiziari televisivi – mostrano sempre i rispettivi bersagli, indiscutibilmente riconosciuti di universale valore simbolico. Le Torri gemelle del World trade center e il Pentagono sono oggetto della profanazione organizzata da al-Qā‛ida in virtù di una loro essenza mitica. Gli attentatori hanno valutato che l’egemonia culturale statunitense sull’immaginario globale, interpretata come una leggenda spettacolare del presente, un orizzonte mitico pianificato per sostenere e mascherare il progetto di dominio politico-economico degli Stati Uniti sul mondo, meritasse una dichiarazione di guerra senza precedenti, nella forma e negli effetti. Tra le 8,46 e le 10,28 dell’11 settembre, la complessa operazione – rivendicata da Osama Bin Laden in un video trasmesso il 29 ottobre 2004 dall'emittente del Qatar, al-Jazeera – si consuma praticamente in diretta televisiva, seguita da un numero incalcolabile di spettatori nel mondo, e naturalmente le notizie e le immagini rimbalzano anche in Internet. Durante gli speciali informativi e le edizioni straordinarie, che si susseguono e sovvertono i palinsesti dei network statunitensi per giorni e settimane, due date – e le rispettive immagini di repertorio – sono evocate per suggerire una prima razionalizzazione delle violente emozioni che scuotono una nazione incredula e attonita: l’8 dicembre 1941, il Day of infamy, secondo la definizione data dal presidente Roosevelt durante il discorso al Congresso all’indomani dell’attacco giapponese a Pearl Harbor; e il 22 novembre 1963, quando a Dallas viene assassinato il presidente J.F. Kennedy. L’improvvisa aggressione aerea della flotta USA alla fonda nelle isole Hawaii, che proprio nel maggio 2001 riappare incidentalmente in sala protagonista di un kolossal da 140 milioni di dollari (Pearl Harbor, di Michael Bay), è la più efficace e immediata analogia storica, scelta per ricondurre nell’alveo della realtà i fatti sconvolgenti dell’11 settembre e svelare il carattere anche militare dell’attacco terroristico, prefigurando l’implicita risposta. Già un paio d’ore dopo il crollo della seconda torre, il presidente in carica George W. Bush in un primo e breve discorso alla nazione (registrato alla Barksdale Air Force Base) dichiara e rassicura: «La libertà stessa è stata attaccata stamattina da codardi senza volto. E la libertà sarà difesa». Il richiamo ai fatti di Dallas, invece, opera sul fronte dell’immaginario culturale e funziona su due diversi – ancorché intrecciati – scenari narrativi. Il primo è quello del lutto collettivo: l’improvvisa scomparsa di Kennedy è anche il luogo della frattura – in chiave metaforica – dell’American dream, rappresentata nelle più diverse opere di tanti autori contemporanei, fra tutti il James Ellroy di American tabloid (1995). La sineddoche che essa costituisce è una fonte durevole – quasi ossessiva – di riferimenti per gli sceneggiatori e i registi sia del cinema sia della televisione (il lavoro più eloquente in campo cinematografico è quello di Oliver Stone: JFK, 1991). Il dolore, il disorientamento e la paura dopo Dallas riaffiorano come la polla di un fiume carsico, e allo stesso modo l’elaborazione del lutto per la strage dell’11 settembre si dispiega nel senso comune come 'fine del sogno americano'. Tuttavia, dopo il crollo delle torri, essa prende la forma dell’asserzione perentoria, insieme sconsolata e incombente: 'nulla sarà più come prima'. Su tale registro (cui si unisce la sopraggiunta crisi economica) è incentrata nel 2008 la reattiva campagna elettorale del candidato democratico Barack Obama fondata sullo slogan Yes we can. Lo scenario narrativo degli attimi dell’assassinio del 35° presidente degli Stati Uniti è legato al nome di un cineamatore, Abraham Zapruder, artefice del filmato in Super8 girato a Dallas nel 1963. L’indiscutibile autenticità delle immagini riprese da Zapruder certifica l’evento, la morte in diretta, e tuttavia quelle fotografie si rivelano depositarie di una verità illusoria, incapaci di soddisfare definitivamente la domanda di oggettività, per diventare anzi oggetto di un’ininterrotta autopsia e il supporto principale delle teorie che formulano le ipotesi di cospirazione. Una risposta del tutto simile si sprigiona nel discorso pubblico sul dopo 11 settembre, con una fondamentale differenza: l’effetto polifonico impresso dalla rivoluzione digitale, esplosa nella metà del secolo scorso, la cui ricaduta tecnologica ha velocemente generato infiniti Zapruder. La telefonia mobile (chiamate ai familiari, SMS) documenta in diretta dal volo United 93 un tentativo di contro-dirottamento. La proliferazione di mini videocamere e di apparecchi fotografici digitali, di gran lunga più efficienti, veloci e convenienti del Super 8, permette di registrare, da molteplici punti di vista, tutte le fasi dall’attacco in avanti. Così come i blog, i social network e in generale il web testimoniano la partecipazione attiva di milioni di voci alla costituzione di una multiforme e ininterrotta, benché frammentata, trama narrativa intorno all’11 settembre.
I linguaggi. – Se, dunque, l’attacco a New York e Washington è un’azione militare che rammenta Pearl Harbor, simultaneamente è anche un evento spettacolare, per la prima volta in diretta mondiale. Questa sincronia è la novità della guerra del terrore scatenata da al-Qāʿida contro gli Stati Uniti. La scelta degli obiettivi coglie con spietata lucidità la condizione antropologica del presente, una realtà che risulta dall’incrociarsi delle molteplici immagini, interpretazioni, ricostruzioni, che in concorrenza tra loro, o comunque senza alcuna coordinazione centrale, i media distribuiscono. Il decennio successivo è perciò caratterizzato dallo svolgimento del conflitto aperto nel 2001 su due ampi fronti, due antiche ferite separate nel tempo che si riaprono improvvisamente e violentemente in un istante, cancellando dal centro di Manhattan quelle Torri che s’infilavano nella nebbia sulla copertina del romanzo Underworld di Don De Lillo (1997). All’estero, il fronte militare conduce l’amministrazione Bush all’invasione dell’Afghanistan il 7 ottobre 2001 e, in seguito, alla controversa riapertura delle ostilità con l’Iraq nel marzo 2003. Negli affari interni la questione della sicurezza genera il Patriot act, che ha suscitato vivaci polemiche circa la sua legittimità, ma la cui durata è stata poi prolungata dall’amministrazione Obama fino al 2015. Il fronte linguistico, nel tentativo di giustificare e spiegare – o semplicemente normalizzare – l’angoscia collettiva generata dal mancato funzionamento del più potente esercito e dei più efficienti servizi segreti del mondo – tante volte protagonisti della vasta filmografia apotropaica proposta dall’industria hollywoodiana – si dispiega tanto sul piano istituzionale e dell’informazione, quanto – fatalmente – nel territorio dell’immaginario estetico dei media di massa: letteratura, cinema, televisione, Internet. L’11 settembre, dunque, si caratterizza come un evento spettacolare che risucchia al suo interno le narrazioni di Dallas e Pearl Harbor, restituendole amplificate in uno spettacolo terrorizzante diffuso attraverso un'apoteosi dei media di massa senza precedenti. Tuttavia, come ha fatto notare il filosofo sloveno Slavoj Žižek, l’11 settembre proprio per questo attesta anche la fine della possibilità narrativa dei mezzi di comunicazione. Con un’analisi pungente e provocatoria Žižek certifica come compiuta la prefigurazione del filosofo francese Guy Debord, il teorico della società dello spettacolo che in un aforisma del 1967 aveva affermato: «nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso». Il fronte linguistico, lungo il corso del decennio successivo all’attentato, appare perciò ingovernabile, travolto da una profonda crisi della verità, investito dal disfacimento delle parole, sempre più incapaci di dire l’autentico. La frantumazione della rappresentazione produce un caleidoscopio di forme del racconto che hanno come prodotto significativo il revival editoriale della letteratura complottista. Contemporaneamente, le voci più sintomatiche della letteratura statunitense mostrano una sottrazione al confronto diretto con la realtà, per privilegiare la rievocazione nostalgica di un passato che attinge spesso alla saga familiare (Marylinne Robinson, Jeffrey Eugenides, Jonathan Franzen, Paul Harding) e ai moduli narrativi della letteratura di genere (Tim Powers, Stephen King). Si prendono le distanze da un presente indecifrabile sia ricorrendo al romanzo storico (John Wray), sia guardando al futuro o al passato alternativo. Nel caso del romanzo premio Pulitzer The road (2006), C. McCarthy rivisita il genere fantascientifico postapocalittico, aprendo con il piccolo protagonista uno spiraglio di 'pessimismo rassicurante'; mentre Philip Roth sceglie l’ucronia fantapolitica, e per The plot against America (2004) immagina Charles Lindbergh nel 1940 come un filonazista presidente degli Stati Uniti. Più direttamente prossimi all’11 settembre Don DeLillo e Jonathan Safran Foer. DeLillo penetra nella microstoria e – coerente con la foto di copertina scelta per Underworld – imbastisce Falling man (2007) a partire dalle immagini dei corpi che si lasciano precipitare dalle Twin Towers in fiamme. Il giovane Foer nel romanzo Extremely loud & incredibly close (2005) mescola invece gli echi della Dresda di Vonnegut con la storia di un bambino di 9 anni che ha perso il padre nei crolli del WTC. Al cinema Steven Spielberg riprende il classico di H.G. Wells (1898) e gira War of the worlds (2005) in cui l’invasione aliena a New York, e la distruzione che ne segue, sono la prima rappresentazione allegorica degli attacchi di quattro anni prima. Oliver Stone (World trade center, 2006) affronta la realtà e mette in scena la storia vera di Will Jimeno e John McLoughlin, due dei venti estratti vivi dalle macerie del WTC. Mentre Paul Greengrass (United 93, 2006) immagina la rivolta dei passeggeri a bordo del quarto aereo, precipitato nei dintorni di Shanksville, in Pennsylvania, e probabilmente diretto contro la Casa Bianca. Nel fantascientifico John Carter, di Andrew Stanton (2012), kolossal Disney da 350 milioni di dollari tratto da un romanzo della saga di Barsoom (1917-19) di Edgar Rice Burroughs, uno dei protagonisti afferma: «Per annientare una nazione ci vuole uno spettacolo ben organizzato».