A Milano il Novecento diventa museo
Il grande neon di Lucio Fontana (1951) che brilla su piazza del Duomo dalla loggia dell’Arengario è una specie di stella cometa che guida verso una nascita davvero felice e importante: quella del Museo del Novecento, sorto nel cuore di Milano.
L’itinerario parte da una buona campionatura della grande avanguardia internazionale nelle sue varie declinazioni (Picasso e Braque, Klee, Kandinskij, un delizioso Mondrian, un Matisse del 1925), per continuare con il futurismo (con la bellissima Bambina x balcone di Giacomo Balla, 1912) e quindi attraversare (con alcuni memorabili Carrà, Morandi e Casorati, e fino all’elegantissima Rosa nera di Kounellis) tutto il ‘secolo breve’ dell’arte italiana, che viene fatto opportunamente concludere con gli anni Sessanta, quando le performance e le installazioni recidono gli ultimi nessi con la tradizione figurativa lunga, e aprono la strada all’arte d’oggi.
In un’epoca in cui le migliori energie economiche e mentali si indirizzano all’effimero dei Grandi Eventi occasionali, la fondazione di un vero museo – e di un museo pubblico – è di per sé una notizia straordinaria. E anche il riuso virtuoso, e in tutti i sensi appropriato, di un’architettura pubblica di pregio è un ottimo segno. Non è un caso che lo spettatore venga accolto dal Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo: che non è certo un introibo stilistico al Novecento (essendo semmai la felicissima conclusione della stagione precedente), ma un potente simbolo della funzione civile dell’arte. E questo non solo per il suo soggetto, ma anche perché il quadro entrò nelle collezioni civiche milanesi grazie a una pubblica sottoscrizione organizzata nel 1920: sarebbe pensabile, nell’Italia del 2011, chiedere ai cittadini di tassarsi per assicurare alla proprietà di tutti un’opera d’arte, per di più dall’inconfondibile valore politico progressista?
Invece è proprio questo lo spirito del Museo del Novecento: fare entrare anche quel secolo nel canone storico dell’arte italiana, restituendone ai cittadini di Milano e dell’Italia la proprietà morale e materiale. Cosa ormai ancora più rara, il museo è strutturato in modo cronologico «e non tematico, o per linee trasversali, ritenendo [i membri del Comitato scientifico] lo sviluppo della ricerca artistica una storia di linguaggi, che attingono alla tradizione preesistente per innovare o contrapporsi». E questo, in un’epoca di fuga di massa dalla storia e dal suo impegno interpretativo, significa mandare un messaggio felicemente controcorrente.
Un’altra caratteristica che rende esemplare il Museo del Novecento di Milano è il suo esplicito appello a una lettura razionale e contestuale dell’opera d’arte: «Al visitatore chiediamo di percorrere il museo non solo ammirando le opere preferite, ma anche cercando di comprendere le ragioni che ce le hanno fatte scegliere, raggruppare nelle sale e accostare tra di loro.
E sarebbe bene che il museo venisse anche usato come punto di partenza alla scoperta della città». Innanzitutto colpisce l’aperta sollecitazione del visitatore, a cui viene chiesto un ‘impegno’ attivo, una qualche fatica intellettuale: sovvertendo così il cardine stesso del marketing intellettuale contemporaneo, che è la promessa di diventare colti senza alcuno sforzo. E poi è importantissimo che al visitatore venga chiesto qualcosa di molto lontano dalla generale tendenza alla percezione soggettivistica ed emotiva, e dallo sradicamento dei singoli ‘capolavori’ dalla rete di rapporti storici che li ha visti nascere. Queste eccellenti intenzioni non vengono smentite dal percorso museale, davvero attento a fornire al visitatore tutte le informazioni utili, in un linguaggio accessibile ma non elementare, e che non sovrasta mai il dialogo con le opere. La qualità e il successo del Museo del Novecento di Milano mostrano che è possibile tornare ad associare la storia dell’arte alla conoscenza, al senso critico e alla crescita individuale, e non solo all’evasione, alla distrazione e al disimpegno intellettuale. C’è solo da augurarsi che questo esempio venga presto imitato.
Il nuovo Arengario
Il Museo del Novecento ha sede all’interno del Palazzo dell’Arengario, appositamente ristrutturato da Italo Rota e Fabio Fornasari, che hanno concepito una struttura ascensionale verticale, inserendo nello spazio della torre un sistema di risalita che si apparenta a molti altri edifici museali, ma che trova nel Guggenheim Museum di New York la sua massima e più precoce espressione: una rampa a spirale che, partendo dal livello della metropolitana, arriva all’altezza della terrazza panoramica affacciata su piazza del Duomo. Inoltre, il Palazzo dell’Arengario è collegato al secondo piano del Palazzo Reale tramite una passerella sospesa che consente di scoprire da una prospettiva del tutto nuova la stratificazione architettonica degli edifici adiacenti il Duomo. Tra gli spazi accessori si colloca l’area di 300 m2 destinata, all’interno del Palazzo Reale, agli Archivi del Novecento.
Piazza del Duomo e il caso Paladino
In fatto di arte contemporanea, piazza del Duomo, nel corso del 2011, non ha rappresentato solo la sede privilegiata del neonato Museo del Novecento, ma è stata anche al centro di una accesa querelle intorno all’opera di un importante artista vivente. Dal 21 marzo, infatti, la più famosa piazza del Nord Italia doveva ospitare una suggestiva installazione di Mimmo Paladino, protagonista di spicco della transavanguardia: la Montagna di sale. L’installazione, apparentata con l’arte povera e con la land art, consisteva in un immenso, candido vulcano formato da 500 quintali di sale, da cui facevano capolino trenta sculture, tre cavalli interi e frammenti di bronzo. Alla fortissima suggestione visiva dell’opera se ne associava anche una simbolica e concettuale, in una spiccata vocazione unitaria, laddove l’artista intendeva «portare il sale dal Sud al Nord», in omaggio al 150° anniversario dell’Unità d’Italia.
Secondo il volere delle autorità cittadine, la montagna, da allestire in concomitanza con l’inaugurazione della retrospettiva dedicata a Paladino da Palazzo Reale (7 aprile-10 luglio 2011), andava collocata tra la statua equestre di Vittorio Emanuele II e il Duomo, in asse con l’ingresso della Galleria.
L’installazione doveva avere in origine un diametro di circa 35 m e un’altezza di 20 m, ma fin dal 10 marzo la Sovrintendenza chiedeva all’artista di ridimensionarla, manifestando la viva intenzione di decentrarla in piazzetta Reale, dal momento che piazza del Duomo sarebbe stata occupata da un imponente padiglione del Salone del Mobile, oltre che dagli stand elettorali. L’ipotesi, naturalmente, non incontrava il consenso dei curatori, che contestavano la possibilità di alterare a proprio piacimento l’insieme e l’unicum di un’opera d’arte; e così, a meno di un mese dall’inaugurazione, questa era oggetto di ripensamenti e di diatribe burocratiche. Alla fine il Comune concordava con l’artista la collocazione dell’opera nella piazzetta adiacente a quella del Duomo, con l’inevitabile adeguamento del progetto iniziale: Paladino si vedeva infatti costretto a scorciare di 10 m l’altezza della montagna e di ridurre a 150 q la quantità totale di sale siciliano impiegato.
Alla fine, l’opera è stata smontata in anticipo (il 28 giugno anziché nel mese di luglio) perché danneggiata dai tifosi durante i festeggiamenti per la conquista dello scudetto da parte del Milan: si concludeva così, impietosamente, il destino di un’opera d’arte che, da valore aggiunto alla cornice di una città di respiro europeo, si era trasformata in fonte di polemiche interminabili, controversie e disattenzioni.
Il Quarto Stato: elaborazioni successive di un capolavoro
L’opera firmata nel 1901 da Giuseppe Pellizza da Volpedo (1868-1907) è il risultato di una serie di progressive sperimentazioni. Il dipinto, riconosciuto come opera simbolo del Novecento italiano e della pittura divisionista, costituisce lo sviluppo compiuto di tematiche già affrontate dal pittore in opere come Ambasciatori della fame (Milano, Civica Galleria d’Arte Moderna), Fiumana (Milano, Accademia di Brera) e Il cammino dei lavoratori (Collezione privata). E il verismo della scena fu raggiunto dall’artista grazie anche alla fotografia, come testimoniano le lastre conservate presso lo studio Pellizza a Volpedo. Il pittore, infatti, studiò la fisionomia dei volti di anziani contadini, ma anche alcuni gruppi d’insieme, ricorrendo a ritratti fotografici del tempo, come quello datato 1895-98 che presenta una composizione con due figure principali del tutto simili all’uomo con la giacca in spalla e alla donna con il bambino che campeggiano nella tela.