Accursio
Il percorso biografico e la statura scientifica del fiorentino Accursio, autore degli apparati ordinari al Corpus iuris civilis, risentono di un giudizio storiografico di segno savigniano fortemente critico quando non negativo. A fronte delle luminose figure di Irnerio e di Graziano, ai quali è attribuita la palma di un indiscusso primato per avere avviato, con l’aprirsi del rinascimento giuridico medievale, un percorso di revisione formale e di razionalizzazione sistematica delle fonti civilistiche e canonistiche, Accursio e la sua immane opera di raccolta e di selezione del più che secolare patrimonio esegetico espresso dalla scuola dei glossatori arretrano al rango di epigoni di un metodo in declino. Un giudizio miope e riduttivo, del quale la lunga e fulgida stagione europea della Magna glossa costituisce la migliore smentita.
Scarne e prive di suggestione appaiono le note biografiche di Accursio (conosciuto anche con la grafia Accorso), nato, secondo le cronache, nei primi anni Ottanta del 12° sec. nel distretto di Firenze da famiglia contadina di buone fortune. Alla consueta localizzazione di Bagnolo, recenti studi affiancano quella di Certaldo, pur se il lemma Accursius florentinus ricorre con frequenza nella Glossa.
Allo Studium felsineo approda non più giovanissimo – alcune fonti indicano il 1218 –, ma fortemente motivato ad avvalersi del celebrato magistero in legibus di Azzone per intraprendere la carriera accademica e un ambizioso percorso di promozione sociale. Obiettivi che il giurista coglie entrambi puntualmente: cooptato all’insegnamento sin dal 1220 – da quando al suo nome si accompagna l’appellativo di dominus legum –, egli ottiene la cittadinanza e compare immatricolato nella società in armi dei Toschi; per più di quarant’anni, fino alla morte, la sua vicenda personale e professionale si dipana tutta nel capoluogo emiliano. Le tracce dirette di una presenza attiva e quotata di Accursio in città si arrestano nel 1256 e comprendono una decina di consilia iudicialia resi ai podestà nell’esercizio delle loro funzioni giurisdizionali: consulenze sintomatiche tanto della fama e del prestigio goduti da Accursio, quanto più in generale del crescente ruolo che i giuristi di cattedra e i professionisti del foro erano avviati a giocare nelle complesse dinamiche della società duecentesca. Muore in un anno imprecisato, fra il 1260 e il 1263. Infondata si è rivelata la testimonianza documentale relativa a un ritorno del giurista a Firenze nell’ultima stagione terrena, per ricoprire l'incarico di giudice e assessore del podestà – esperienza invero anacronistica per un personaggio di tanta autorevolezza –, nonchè infiammato da nuovi e ambiziosi progetti scientifici. Accursio viene sepolto a Bologna nel chiostro di S. Domenico e in seguito traslato nella bella arca marmorea fatta erigere dal figlio Francesco nell’abside della basilica di S. Francesco.
Tre dei suoi quattro figli (di Corsino, il più giovane, la tradizione vuole scegliesse la professione notarile) percorsero la strada del magistero giuridico, variamente contribuendo al prestigio del nomen paterno nel milieu accademico della seconda metà del Duecento.
Il più noto è il primogenito Francesco (1225-1293), divulgatore spregiudicato degli apparati paterni. Soggiornò per un lungo periodo in Francia: emblematica della crisi del metodo della glossa appare la notizia della repetitio magistralis che tenne davanti all’esigente uditorio orleanese, sollevando con la sua traballante dottrina le critiche del giovane Jacques de Révigny.
Del secondogenito Cervotto (1240 ca.- dopo il 1293), anch’egli doctor legum, la dottrina coeva ha rimarcato la modesta statura scientifica, definendo cervottine le espressioni esegetiche della scuola meno pregevoli per approfondimento e rigore. Anche a Cervotto, come al più giovane Guglielmo (1246-1313), il prestigio paterno aprì la strada dell’accademia nell’Europa senza frontiere del diritto comune, da Bologna traghettandolo verso Padova, la Francia e la Spagna.
Fama e credito personali permisero ad Accursio e ai suoi familiari di accumulare un'ingente fortuna economica, utilizzata spesso con spregiudicatezza: su di lui e sul primogenito Francesco grava l’accusa di avere praticato il prestito usurario nei confronti degli studenti, secondo un vieto costume dei dottori dello Studio. Il reato e peccato dei due Accursii venne sanato da un breve del pontefice Nicolò IV nel 1291, quando i discendenti del Maestro, banditi da Bologna a causa della vocazione ghibellina e filoimperiale della famiglia, giurarono fedeltà alla pars Ecclesie et Jeremiensium, guadagnandosi il rientro nel capoluogo.
Se all’aprirsi del 13° sec. Bologna appare ancora il tempio della glossa, è fuor di dubbio che la sbrigliata didattica di taglio pratico somministrata dalle cosiddette scuole minori e la discussione nelle aule accademiche delle quaestiones ex facto emergentes, aprendo le porte della riflessione giuridica al mondo dei fatti e alla montante realtà degli iura propria, siano state foriere di ripensamenti sull'esaustività di un'esegesi meramente letterale ai due corpora normativi universali.
Il segnale più vistoso di una mutata attitudine scientifica dei dottori di legge si coglie nel recupero del genere letterario delle summae, nei decenni precedenti tipicamente transalpino. Le due più compiute e appofondite sintesi al Codice e alle Istituzioni di Giustiniano prodotte dalla scienza giuridica medievale, destinate a lunga fortuna nella scuola e nella prassi, provengono dalla fucina bolognese del primo Duecento e dal genio di Azzone, nel quale si ravvisa il principale anello di congiunzione tra gli antichi magisteri di Bulgaro e di Giovanni Bassiano e quello di Accursio. Non è un caso che proprio Azzone, nella Summa al Codex, esprima una qualche insofferenza nei confronti dello stratificarsi di glosse e di apparati. Analogo scontento palesa Pillio da Medicina tentando di lanciare dalla vicina Modena, con il suo Libellus disputatorius, un nuovo canone didattico brocardico destinato a coinvolgere nella trama dei libri legales anche il sempre attuale versante del diritto feudale.
Dal secondo decennio del secolo queste espressioni dissonanti convergono verso quella che la storiografia ha indicato come una «linea alternativa» ai percorsi esegetici dissodati dalla scienza dei glossatori. Un’alternativa rappresentata in emblema dalle figure di Iacopo Balduini (o Baldovini; m. 1235) e di Odofredo (m. 1265), i quali, da cattedre bolognesi e in contemporanea con Accursio, proposero un'ermeneutica del corpus civilistico prodromica alla futura metodologia del commento.
L’impegno esegetico sui testi della compilazione giustinianea al fine di corredarli di un apparato glossemico completo e organico costituì per Accursio l’obiettivo primario, perseguito attraverso il diuturno esercizio del magistero. La più fedele rappresentazione della sua dimensione scientifica e professionale – che pur contempla secondo il segno dei tempi un'attività di consulenza presso la magistratura podestarile – rimane quella del didatta. Proprio nell’esercizio dell’insegnamento Accursio constata come la più che secolare lettura scolastica delle fonti giustinianee avesse prodotto una sovrabbondanza di espressioni interpretative tale da prefigurare il collasso del metodo. Le glosse redatte dai maestri o riportate dagli studenti erano state divulgate da una tradizione manoscritta spontanea, priva di filtri e di certificazione dei contenuti: gli unici criteri ordinatori all’interno degli strati esegetici – la paternità e la congruenza – tendevano a diluirsi nei processi di riproduzione seriale dei libri legali, monopolizzati dall'omogeneizzante operosità dei copisti bolognesi.
La fondamentale funzione di raccordo esercitata dalla scientia iuris fra le ossificate figure giuridiche contemplate dalla consolidazione giustinianea nel 6° sec. e le cangianti fattispecie in cerca di risposte normative dell’età medievale appariva pregiudicata dall'esuberanza e dalla varietà delle interpretazioni. La tradizione scolastica dell’esegesi testuale per glossam, priva di connotazioni d’autore, era fluita senza soluzione di continuità attraverso il succedersi degli insegnamenti di legum doctores, i quali dalla stagione irneriana per più di un secolo avevano provveduto ad aggiornare e vivificare l’antico ius imperiale mantenendolo aderente ai tempi. Un patrimonio sapienziale 'vivo' la cui ricchezza minacciava peraltro di compromettere sia sul piano della didattica sia su quello della pratica forense la fruibilità di un'interpretazione della littera legum, resa incerta da espressioni dissonanti quando non contraddittorie.
Lucido interprete delle esigenze di omogeneità e univocità che provenivano dalle aule scolastiche come da quelle giudiziarie, Accursio fece della revisione degli apparati glossemici di colleghi e di predecessori l’impegno di una vita, con ciò rivelando statura scientifica, lungimiranza e sensibilità giuridica non comuni. Che il lavoro fosse immane è incontrovertibile: le glosse consolidate nei suoi apparati destinati a divenire ordinari sono all’incirca 97.000, mentre è impossibile determinare l’entità dei materiali scartati dal giurista. Ad agevolargli il compito provvide la fruizione dell'autorevole e robusta tradizione esegetica che congiungeva la dottrina di Bulgaro a quella di Azzone, gli apparati del quale possono ben dirsi una prima redazione di quelli accursiani. Ne scaturì un corredo interpretativo delle leges selezionato e ragionato: padroneggiando un materiale vastissimo, coordinandolo e arricchendolo con i suoi personali contributi esegetici, Accursio immise nei circuiti della scuola e del foro una serie di apparati tanto chiari nel dettato quanto esaustivi nei richiami ai passi paralleli, imprimendo pertanto alla sua opera di selezione un’impronta che ben lungi dall’essere meramente consolidatoria denuncia l’acume e l’eccellenza della sua dottrina.
Gli apparati accursiani ebbero una fortuna rapida e immensa; dalla metà del secolo essi si imposero sulla fluttuante tradizione esegetica della scuola dei glossatori, condannando all’oblio quelle dottrine che il dominus non aveva condiviso e sistematizzato: valga per tutti il caso della linea esegetica di Ugolino dei Presbiteri e dei suoi seguaci. La Magna glossa trascritta sulla cornice dei testi giustinianei, quindi stampata a muovere dalla prima edizione incunabola del 1468, si impose per oltre sei secoli come l’interpretazione ufficiosa del complesso normativo civilistico, la sola capace di certificarne i contenuti ai fini della divulgazione scolastica e dell’esercizio della giurisdizione, strumento di quello ius commune nato nella scuola di Bologna e diffuso attraverso il metodo dei suoi dottori. Il Corpus iuris civilis corredato degli apparati accursiani segue la scansione pentapartita inaugurata da Irnerio: il Codex (primi 9 libri), il Digestum vetus (dal 1° al 24° libro), l’Infortiatum (dal 24° al 38°), il Digestum novum (dal 39° al 50°). Nel Volumen o Volumen parvum confluirono infine gli ultimi 3 libri del Codice, i 4 delle Istituzioni, le Novelle di Giustiniano nella redazione dell’Authenticum, organizzate in 9 collationes. Nella decima collatio trovarono posto quei Libri feudorum che dall’inizio del secolo erano entrati a far parte dello strumentario didattico utilizzato nello Studium, anch’essi accompagnati da un corredo glossemico nel quale Accursio riprodusse fedelmente la trama della dottrina specialistica di Pillio da Medicina.
I tempi della redazione degli apparati accursiani permangono in buona parte oscuri. Certamente ultimati entro il terzo decennio del Duecento, di essi si conosce, grazie a una notizia presente nei Commentaria di Angelo degli Ubaldi, l’ordine di composizione, che parrebbe allinearsi alla scansione didattica prevista dagli statuti universitari felsinei del 1252: gli apparati al Codice e al Digesto vecchio (lezioni ordinarie) avrebbero preceduto quelli all’Infortiato e al Nuovo (lezioni straordinarie). Di incerta determinazione è la tempistica del corredo accursiano all’Autentico e alle Istituzioni, pur se per quest’ultimo la duplice redazione distanziata nel tempo appare ormai più che un’ipotesi.
A una tale conclusione giunse negli anni Trenta del secolo scorso lo storico del diritto italiano Pietro Torelli (1880-1948), il cui ambizioso progetto di un’edizione critica della Magna glossa prese le mosse proprio dal manuale giustinianeo, di più ridotte dimensioni rispetto alle altre parti del Corpus. Governando magistralmente la paralizzante mole della tradizione manoscritta, Torelli vagliò più di 300 esemplari di codici glossati, riducendoli attraverso un procedimento di semplificazione a 142. Il suo stemma codicum contemplava tutti i testimoni del 13° sec. e una trentina del 14°, dalla laboriosa collazione dei quali è emersa l’evidenza di una duplice tradizione dell’apparato accursiano alle Istituzioni, la seconda ampliata e approfondita rispetto alla prima benché insistente sul medesimo ceppo. Il gravoso impegno dello studioso mantovano condusse nel 1939 alla bella edizione per i tipi dell’Accademia d’Italia (ora dei Lincei) del primo libro delle Istituzioni: le analoghe operazioni avviate per il secondo libro furono interrotte dalla morte dell’editore.
Non va peraltro mai dimenticato che la Glossa, prima di divenire ordinaria e irrigidirsi in un unicum con il testo normativo, circolò – al pari di ogni altra scrittura giuridica bolognese – assimilando tutto quanto era di chiarimento alla littera della legge e rendendo accursiano quanto accursiano a volte non era. In sintonia con questa ormai acquisita percezione della capacità omogeneizzante degli apparati, la storiografia post-torelliana ha individuato nella palingenesia, vale a dire nella enucleazione ed edizione dei precedenti dottrinali sui quali Accursio aveva tessuto la propria trama (glosse dei suoi allievi Bulgaro, Iacopo, Martino ecc.), un più efficace costruttivo percorso di ricerca.
Nel panorama italiano ed europeo dell’ultimo quarto del 13° sec., l’Alma mater non godeva più di un regime di monopolio, spartendo il mercato degli aspiranti al sapere giuridico dal 1222 con la rivale Padova, dal 1224 con Napoli e di seguito con molti Studia neobeneficiati da privilegi e da diplomi. Al primato dei numeri, che vedeva lo Studio per eccellenza ancora gratificato dalla presenza di studenti richiamati dalla sua fama, le nuove università rispondevano con quella che oggi si direbbe un’offerta didattica diversificata e con eccellenti professori, che a Bologna – imbrigliata da una miope politica di reclutamento locale – iniziavano o finivano la carriera, ma che erano mobilissimi all’interno del circuito europeo. Il secolo ricompreso fra il trionfo della Magna glossa di Accursio e l’affermarsi, con l’opera di Bartolo da Sassoferrato, dell’ermeneutica del commento, è stato definito a contrario il «secolo senza Bartolo», ma al tempo stesso il «secolo dopo Accursio», colonne d’Ercole all’interno delle quali si è spesa la professionalità di una nutrita schiera di giuristi che la storiografia ha classificato talora come precursori talaltra come seguaci: per almeno un settantennio il secolo dei «postaccursiani».
Una definizione alla quale il 'post', il dopo, imprime un’accezione negativa: giuristi ai quali latu sensu la tirannia della Glossa ordinaria aveva tarpato le ali dell’originalità nell’esegesi testuale dei libri legales, sospingendoli verso gli itinerari paralleli (ma meno nobili) del criminale e della procedura, del diritto statutario, dell’ars notaria. Lo stesso Friedrich Karl von Savigny, cui pur si deve l’avvio di questa valutazione deteriore, confrontandosi con la varietà e la qualità della dottrina prodotta in quell’intervallo temporale che avrebbe dovuto essere 'grigio', avvertì la necessità di ripartirne gli esponenti in tre gruppi : 1) giureconsulti teorici dopo Accursio (Alberto figlio di Odofredo, Omobono Morisio, Guido da Suzzara, Iacopo d’Arena, Martino Sillimani, Lambertino Ramponi, Accorso da Reggio, Ugolino Fontana, Dino del Mugello); 2) giureconsulti pratici dopo Accursio (Martino da Fano, Nepos da Montealbano, Giovanni Faggioli, Egidio dei Foscherari, Alberto Galeotti, Alberto Gandino, Tommaso da Piperata); per poi preludere al nuovo con i «giureconsulti italiani all’inizio del Trecento» (Riccardo Malombra, Oldrado da Ponte, Iacopo di Belviso, Iacopo Bottrigari). Auctoritates ingiustamente coinvolte e travolte da un giudizio di mediocrità scientifica, su molte delle quali la storiografia più recente ha con merito acceso qualche luce.
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