Vedi Afghanistan dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Collocato nel cuore dell’Asia centrale, crocevia tra Oriente e Occidente, l’Afghanistan è stato sin dall’Ottocento al centro degli interessi geostrategici delle grandi potenze. Alle pesanti influenze esterne, che in più occasioni hanno preso la forma dell’ingerenza e dell’occupazione militare, si aggiunge l’estrema frammentazione etnica del paese. Proprio questa frammentazione ha compromesso le capacità del governo centrale di controllare il territorio nazionale e ha ostacolato la formazione di un apparato amministrativo omogeneo ed efficiente. Prima conteso tra Impero coloniale britannico e Impero russo, durante la Guerra fredda l’Afghanistan ha subito l’invasione sovietica, che ha innescato una prolungata guerra di resistenza (1979-89). Il ritiro dell’Unione Sovietica è coinciso con lo scoppio di una guerra civile, che si è conclusa solo parzialmente con l’avvento al potere dei talebani nel 1996. Il regime dei talebani, guidato dal mullah Mohammed Omar e caratterizzato dall’imposizione di regole sociali fortemente repressive, derivate dalla rigida interpretazione dei testi islamici, si è scontrato con la resistenza guidata dal Fronte islamico unito per la salvezza dell’Afghanistan, noto in Occidente come Alleanza del Nord, con base nel nord-est del paese. Alla sua guida, Ahmad Shah Massoud, assassinato il 9 settembre 2001. Come risposta agli attentati terroristici dell’11 settembre 2001, il regime è stato rovesciato dal successivo intervento militare statunitense, con l’operazione Enduring Freedom. La rete terroristica di al-Qaida, responsabile degli attentati, aveva il suo quartier generale proprio in Afghanistan e godeva dell’appoggio e della protezione dei talebani. Deposto il regime talebano, con l’Accordo di Bonn del 2001 la comunità internazionale ha avviato un processo di stabilizzazione del paese, per promuovere le istituzioni democratiche, per ricostruire le infrastrutture e l’economia e per stabilire condizioni di sicurezza necessarie alla normalizzazione. A partire dal 2004-05 le truppe internazionali hanno dovuto affrontare un movimento insurrezionale sempre più organizzato e violento, guidato dai talebani. Parte di essi, in seguito all’intervento militare, si sono ritirati nelle zone tribali a maggioranza etnica pashtun del Pakistan, le cosiddette Aree tribali di amministrazione federale (Fata), da dove hanno riorganizzato la resistenza. Altri, concentrati nelle province meridionali dell’Afghanistan, dove sorgono le storiche roccaforti talebane (come Kandahar), non hanno mai abbandonato il paese e hanno continuato a contrastare la presenza internazionale.
Le forze internazionali inquadrate nella missione International Security Assistance Force (Isaf, dal 2003 sotto comando Nato) sono progressivamente cresciute di numero e, dal 2006, sono distribuite sull’intero territorio. Nel dicembre 2010 le truppe contavano più di 130.000 soldati, la maggior parte dei quali (circa 90.000) di provenienza statunitense. Con il progressivo ritiro, pianificato dall’amministrazione Obama e dagli alleati, all’ottobre 2013 il numero di truppe dispiegate si attestava intorno alle 86.000 unità (di cui 60.000 statunitensi).
Dal punto di vista politico-istituzionale, secondo la Costituzione approvata nel gennaio 2004 l’Afghanistan è una repubblica presidenziale: le prime elezioni dirette si sono tenute nell’ottobre 2004 e hanno decretato la vittoria di Hamid Karzai, rieletto anche nel 2009, nonostante le accuse di gravi brogli. Karzai non potrà presentarsi alle successive elezioni del 2014, per il vincolo dei due mandati imposto dalla Costituzione afghana. L’effettiva capacità del sistema politico afghano di gestire la transizione rappresenta una delle principali preoccupazioni per l’immediato futuro.
Il Parlamento afghano è bicamerale e, per legge – a segnare la discontinuità con il passato regime –, almeno un sesto dei suoi componenti deve essere di sesso femminile. A oltre dieci anni dall’inizio dell’intervento internazionale, tuttavia, l’apparato statale è ancora molto debole, il governo di Kabul fatica a esercitare la sua azione politica su tutto il territorio nazionale (in particolare sulle province meridionali e orientali, a forte presenza talebana) e le condizioni di sicurezza rimangono precarie. Il ritiro delle forze ISAF, che verrà completato negli ultimi mesi del 2014, lascia incerto il futuro del paese: incombono lo spettro della frammentazione dello stato e della recrudescenza del conflitto civile.
Nel complesso permangono forti fratture tra il governo centrale e le potenti figure tribali locali. A ciò si somma un grado di corruzione fra i più alti al mondo (secondo l’indice di corruzione percepita 2012 di Transparency International, l’Afghanistan è al 174° posto su 176 paesi), che riguarda tanto il governo centrale quanto i livelli amministrativi più bassi. Inoltre, la stessa sopravvivenza economica del paese, sia sul piano delle attività produttive sia su quello istituzionale, dipende dagli aiuti internazionali. I paesi Nato si sono dichiarati disponibili a fornire 4 miliardi di dollari l’anno in supporto alle forze armate afghane dopo il 2014, accompagnati da 4 miliardi di dollari di aiuti non militari nel periodo 2015-17. Altri paesi hanno annunciato la loro disponibilità ad assistere il governo afghano per i prossimi quattro anni con una somma di 16 miliardi di dollari. Grossi dubbi permangono però circa l’effettiva capacità del governo afghano di utilizzare in maniera efficiente i fondi. A livello internazionale, tra gli interlocutori principali del governo afghano vi sono gli Stati Uniti e i vicini regionali: Pakistan, India, Iran. I rapporti con gli Stati Uniti si sono lentamente deteriorati: il presidente Karzai ha spesso espresso il suo risentimento di fronte alle accuse di corruzione mossegli da Washington. Karzai, inoltre, non ha gradito le reiterate richieste statunitensi di aprire un dialogo con i talebani. In sospeso tra i due paesi vi è anche la firma di un accordo bilaterale di sicurezza che definisca il ruolo degli Stati Uniti in Afghanistan dopo il ritiro del 2014. Se l’accordo non venisse raggiunto, Washington ritirerà tutte le truppe, lasciando le forze nazionali afghane da sole davanti al difficile compito di fronteggiare il sicuro riemergere dell’offensiva talebana.
Sul fronte dei rapporti regionali, le relazioni con il Pakistan rimangono tese, sia perché il governo di Islamabad ha appoggiato in passato il regime dei talebani, sia perché è accusato di non aver adottato misure adeguate per smantellare le centrali insurrezionali sul suo territorio. L’uccisione di Osama Bin Laden, leader di al-Qaida, da parte delle forze speciali statunitensi è avvenuta proprio in Pakistan. Inoltre, alcuni dei gruppi basati in Pakistan sono stati accusati di aver condotto attacchi in Afghanistan, come quelli all’ambasciata Usa e al quartier generale Nato a Kabul nel settembre 2012. Islamabad, viceversa, accusa Kabul di dare rifugio a mullah Fazlullah, capo del gruppo terroristico dei talebani pachistani. Fazlullah è noto soprattutto per essere il mandante della mancata esecuzione di Malala Yousafzai, giovane attivista per i diritti delle donne, nel 2012.
Anche le relazioni con l’Iran sono complesse e segnate dall’incognita del post-Karzai: Teheran ha giocato un ruolo fondamentale nei colloqui di Bonn del 2001, mediando tra le potenze occidentali e l’Alleanza del Nord, e rendendo possibile la nomina di Hamid Karzai a presidente. Oggi l’Iran teme la recrudescenza del conflitto interno in Afghanistan e il possibile ritorno al potere dei talebani, che porterebbe a un nuovo flusso di profughi e costringerebbe Teheran a fare i conti ancora una volta con un regime integralista sunnita alle porte.
Anche il destino delle relazioni con l’India sembra dipendere dalla tenuta del governo afghano nel post-Karzai. Nuova Delhi è uno dei più attivi sostenitori del governo Karzai e della presenza militare statunitense. Tra i suoi interessi vi è la repressione dei gruppi terroristici, ma anche l’accesso alle risorse energetiche dell’Asia centrale.
La popolazione afghana è molto giovane (l’età mediana è di soli 16,6 anni) e tre quarti degli abitanti del paese vive in zone rurali. L’urbanizzazione non ha subito notevoli variazioni nel corso dell’ultimo ventennio: l’Afghanistan è un paese in cui le consuetudini e le usanze tribali sono ancora fortemente radicate e in cui prevale perciò la tendenza a non vivere in città.
La composizione etnica è tra le più eterogenee del mondo. Con circa 12 milioni di persone, i Pashtun costituiscono l’etnia più diffusa, benché non superino il 40% della popolazione. Occorre ricordare che ben 28 milioni di Pashtun risiedono in Pakistan, sebbene vi rappresentino soltanto il 16% della popolazione. Dietro ai Pashtun figurano i Tagiki (27% degli afghani) e i popoli turcofoni (Uzbeki e Turkmeni, 12%). Segue una lunga lista di minoranze: gli Hazara, in massima parte sciiti, popolano il centro dell’Afghanistan e hanno animato una consistente diaspora in Iran (1,5 milioni di persone); i Beluci invece abitano nel Sud, a cavallo con il Pakistan, e sono assertori di forti istanze indipendentiste. Decenni di conflitti hanno avuto evidenti conseguenze sui movimenti della popolazione afghana. L’invasione del 2001 ha provocato la fuga di 7,5 milioni di persone, due terzi dei quali verso il Pakistan e un terzo verso l’Iran. Più di 5 milioni di afghani hanno poi fatto rientro nel paese nei successivi nove anni: i repentini sbalzi demografici hanno messo sotto pressione le infrastrutture afghane, già carenti e fortemente danneggiate dalla guerra. Tuttavia, secondo dati Unhcr, nel 2013 oltre 1,6 milioni di afghani risiedeva ancora in Pakistan. Al problema della diaspora e dell’immigrazione di ritorno si aggiunge anche quello degli sfollati all’interno del paese, stimati in 425.000 persone. Gli anni di guerra hanno contribuito all’arretratezza delle condizioni sociali e sanitarie. L’Afghanistan è lo stato con la più alta mortalità infantile al mondo. L’accesso all’acqua potabile è scarso e si registra un alto tasso di lavoro minorile. Dalla fine del regime dei talebani alcuni diritti sociali sono stati ripristinati e la segregazione delle donne è diminuita, ma la discriminazione resta radicata nei valori tradizionali della società tribale afghana. A fronte di un già scarso 43% di popolazione maschile che sa leggere e scrivere, soltanto il 13% delle donne è nelle stesse condizioni.
La struttura economica afghana risente dei quasi trent’anni di guerra ininterrotta. Fortemente dipendente dal settore agricolo e dagli aiuti dei donors internazionali, l’economia legale soffre dello scarso controllo dell’amministrazione centrale su vaste zone di territorio. Il sistema economico è ancora oggi frammentato a livello regionale, e resta perciò fortemente agricolo (industrie e servizi necessitano di una capacità di coordinamento centrale maggiore, oltreché di stabilità interna) ed esposto a grandi fluttuazioni, legate alla stagionalità delle colture e ai frequenti periodi di siccità. Negli ultimi anni si è tuttavia assistito a un rapido sviluppo del settore edilizio (per la ricostruzione) e delle infrastrutture, comparti gravemente danneggiati dalla guerra e verso i quali è stata indirizzata la maggior parte degli aiuti provenienti dall’estero.
L’Afghanistan non ha accesso al mare, e dunque dipende dai paesi confinanti per l’importazione e l’esportazione dei propri prodotti, così come per l’approvvigionamento energetico. Il porto più prossimo è quello di Karachi, in Pakistan, e le relazioni tra i due vicini sono state spesso segnate da aspre dispute commerciali che hanno riguardato, tra l’altro, l’entità dei dazi imponibili sui prodotti afghani diretti all’estero. Per questo, è attraverso l’economia illegale e sommersa che il paese ha intrattenuto storicamente, e in misura ancora maggiore dopo l’intervento militare del 2001, redditizi scambi commerciali con l’estero. In particolare, la coltivazione di papaveri ha portato l’Afghanistan a raggiungere una situazione di quasi monopolio mondiale nella produzione di oppiacei (eroina e morfina in particolare). I commerci sono spesso controllati dai capi tribali o dai signori della guerra, che ne utilizzano i proventi per finanziare le comunità locali o la stessa insurrezione.
L’Afghanistan è un paese povero di risorse, costretto a importare circa il 72,8% dell’energia consumata. Non produce petrolio, che importa raffinato dal Pakistan e dai vicini paesi centroasiatici. Al contrario, estrae dal proprio sottosuolo gas, in quantità limitate ma sufficienti a soddisfare la domanda interna. La rete elettrica nazionale è approvvigionata per il 75% da centrali idroelettriche. Tuttavia solo un terzo della popolazione dispone di corrente elettrica per l’intera giornata, e durante i frequenti periodi di siccità anche chi dispone di elettricità deve fare i conti con frequenti blackout.
Nonostante la scarsa disponibilità di risorse proprie, la peculiare collocazione dell’Afghanistan, strategicamente situato tra le aree di produzione di idrocarburi caspico-mediorientali e paesi – quali Pakistan, India e Cina – con crescenti necessità di approvvigionamento energetico, rendono il territorio un naturale crocevia dei progetti infrastrutturali centroasiatici. Con la progressiva stabilizzazione del paese sono così ripresi i contatti tra le autorità governative turkmene, pachistane e indiane per la posa di un gasdotto il cui progetto risale alla metà degli anni Novanta. Congelato a seguito dell’avvento al potere dei talebani, il progetto – denominato Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India (Tapi) – torna in agenda grazie ai programmi predisposti dalle istituzioni finanziarie internazionali e all’incremento della capacità produttiva turkmena. Secondo lo schema in discussione tra le parti coinvolte, il Tapi, che dovrebbe essere ultimato nel 2017 ed entrare in funzione nel 2018, potrebbe consentire l’esportazione di 33 miliardi di metri cubi annui di gas, di cui 14,1 miliardi riservati a India e Pakistan e 5,1 miliardi all’Afghanistan. Il progetto è sostenuto dagli Stati Uniti, che lo considerano un elemento centrale per la stabilizzazione del paese e che, non secondariamente, lo preferiscono all’alternativa di un gasdotto che colleghi l’Iran alla Cina o al Pakistan.
A oggi l’Afghanistan deve fronteggiare un’unica ma decisiva minaccia alla sua sicurezza: l’insurrezione talebana. Nell’affrontare tale problema, il paese è sostenuto dalle truppe dell’ISAF, la missione guidata dalla Nato in Afghanistan e a cui partecipano 49 paesi. Le truppe ancora stanziate sul territorio afghano all’ottobre 2013 ammontano a 86.834 soldati.
Accanto alle truppe straniere, nel 2013 hanno operato 187.000 militari afghani. Il cuore delle operazioni anti insurrezionali è tuttavia ancora riservato all’Isaf. I suoi obiettivi primari sono, da una parte, opporsi all’insurrezione sul piano militare, dall’altra assistere il governo afghano nell’addestramento di forze di sicurezza autonome.
Quest’ultimo obiettivo ha acquistato maggiore rilevanza da quando, nel 2009, il presidente statunitense Barack Obama ha annunciato il ritiro dei soldati, da completarsi entro gli ultimi mesi del 2014. Diviene dunque impellente trasferire sempre maggiori competenze in capo alle forze afghane. L’aumento nel numero delle truppe del contingente Isaf non ha sinora migliorato significativamente la sicurezza del paese, che negli ultimi anni ha registrato piuttosto un aumento della violenza. Da un lato, il numero di attacchi da parte dei talebani è costantemente aumentato; dall’altro, le perdite del contingente internazionale sono progressivamente cresciute (un dato solo in parte riconducibile all’aumento del numero delle truppe).
L’utilizzo da parte dei talebani di alcune città delle province pachistane a maggioranza pashtun (le Fata, acronimo inglese di Aree tribali amministrate dal governo federale, e la Provincia di frontiera del Nord-Ovest) come porto franco per organizzare l’insurrezione afghana ha evidenziato gli stretti legami, sia etnici sia tattico-strategici, che esistono tra gli insorti e il Pakistan. Gli sforzi del governo di Islamabad si sono finora dimostrati insufficienti a contrastare le roccaforti talebane sul proprio territorio. Proprio i limiti dell’azione pachistana, abbinati alla recrudescenza dell’insurrezione, hanno spinto gli Stati Uniti e la Nato a tentare di unificare il teatro delle operazioni coniando il concetto di ‘Af-Pak’, che comprende entrambi gli stati. Benché il diritto internazionale vieti di estendere il mandato di una missione sul territorio di un altro stato senza il consenso di quest’ultimo, gli Usa continuano a utilizzare aerei senza pilota per colpire le roccaforti talebane in Pakistan, sconfinando nello spazio aereo di quest’ultimo e alimentando vigorose proteste soprattutto nella popolazione civile. Si stima che tra il 2004 e il 2013 tali attacchi, intensificatisi soprattutto dal 2008, abbiano provocato tra i 1500 e i 2500 morti. La soluzione del dilemma afghano passa dunque, sempre più, oltre i confini del paese.
I talebani rappresentano un gruppo all’interno della vasta corrente dell’estremismo islamico sunnita. Alla guida dell’Afghanistan nel periodo 1996-2001, sono stati formalmente deposti dalle truppe internazionali a guida statunitense che hanno invaso il paese all’indomani degli attacchi alle Torri gemelle, allo scopo di sradicare le roccaforti di al-Qaida, che proprio nell’Afghanistan talebano avevano prosperato.
Tra le file dei talebani che, nel 1996, presero il potere in una Kabul dilaniata dalla guerra civile, vi erano ex mujaheddin afghani che avevano combattuto contro l’invasione sovietica nel periodo 1979-89, ma anche membri delle tribù pashtun afghane che aspiravano, per il loro paese, a una stretta aderenza ai principi dell’islam sunnita. Indottrinati nelle scuole religiose pachistane (madrase) e addestrati dai servizi segreti di Islamabad, che vedevano nel controllo dell’Afghanistan la possibilità di ottenere la tanto agognata ‘profondità strategica’, necessaria per fare da contraltare all’India in ascesa, i talebani riuscirono a imporsi nella politica afghana già nel 1994. Ottennero una serie di successi sul campo che si trasformarono in guadagni territoriali: nel settembre 1996 arrivarono a conquistare Kabul e a esautorare l’allora presidente Burhanuddin Rabbani, poi ucciso il 20 settembre 2011. Durante i cinque anni al potere, i talebani imposero una forma estremamente rigida della sharia, la legge islamica, contribuendo all’emarginazione dell’Afghanistan a livello internazionale.
Allontanati formalmente dal potere nel 2001, i talebani hanno continuato la lotta contro l’amministrazione centrale afghana guidata da Hamid Karzai. I talebani operano oggi in Afghanistan secondo le modalità dell’insurgency, spesso infiltrandosi tra le forze di polizia afghane e conducendo attacchi ‘green-on-green’ (contro agenti afghani) o ‘green-on-blue’ (contro le forze NATO). Secondo le stime di analisti militari, sarebbero circa 25.000 gli insurgents afghani che combattono tra le loro file.
Alla guida dell’organizzazione rimane il mullah Mohammed Omar, che già nel periodo 1996-2001 era stato a capo dell’Emirato islamico dell’Afghanistan. Assieme ad altri alti comandanti talebani, il mullah Omar dirige la ‘Shura di Quetta’, una sorta di consiglio centrale che, operando dalla città di Quetta, in Pakistan, rappresenta la centrale decisionale dei talebani afghani. I talebani possono poi contare sul sostegno di numerosi altri gruppi che lottano in nome dell’estremismo sunnita.
Tra questi, il più importante è il Network Haqqani, il cui leader Jalaluddin Haqqani è entrato in contatto con Bin Laden negli anni Ottanta e si è successivamente unito ai talebani negli anni Novanta. Il Network Haqqani opera in prevalenza lungo la linea Durand che separa l’Afghanistan dal Pakistan, conducendo attacchi mirati contro le forze NATO nell’area.
Consapevoli dell’impossibilità di soffocare l’insorgenza talebana, gli Stati Uniti hanno cercato, a partire dal 2010, di affiancare alla counter-insurgency sul campo un approccio negoziale. Un primo scambio ha preso avvio nel luglio 2011, ostacolato, già nel settembre dello stesso anno, dall’assassinio dell’ex presidente Rabbani, che ricopriva il ruolo di capo-negoziatore. Nel giugno 2013 il gruppo di pragmatici che si riunisce attorno al mullah Omar ha aperto un ufficio politico in Qatar formalmente allo scopo di facilitare i colloqui; molti hanno però visto dietro quest’azione un tentativo di formare un governo in esilio. Le proteste del governo afghano di Karzai hanno portato alla chiusura dell’ufficio pochi giorni dopo l’apertura. I talebani stessi, però, sembrano essere divisi sull’effettiva necessità dell’azione negoziale. La fazione più pragmatica, che si ritiene essere quella più vicina al mullah Omar, sembrerebbe consapevole della necessità di raggiungere un accordo, mentre la fazione più radicale sembrerebbe orientata sull’intransigenza e decisa a riprendere il conflitto armato su vasta scala già all’indomani del ritiro della coalizione internazionale nel 2014.
L’Afghanistan è il primo produttore di oppio a livello mondiale. Dal 2001 al 2007 la produzione è costantemente cresciuta, fino a portare l’Afghanistan a coprire da solo oltre il 90% della produzione mondiale di oppio. I processi legati alla coltivazione dei papaveri da oppio e alla produzione di morfina ed eroina hanno un peso considerevole sulla vita del paese. Nel novembre 2013 è stato raggiunto il livello record di 209.000 ettari di terreno coltivabile dedicati all’oppio. Secondo alcune stime, il narcotraffico ottiene ricavi per circa 1,4 miliardi di dollari l’anno, pari al 10% del PIL dell’Afghanistan. La coltivazione dell’oppio è concentrata nelle regioni meridionali e orientali, in particolare nelle province dell’Helmand e di Kandahar. Le stesse aree si distinguono per la forte presenza talebana e per la cronica insicurezza. Questa sovrapposizione conferma lo stretto legame tra il mercato della droga e l’insurrezione, un legame che si configura come una relazione di sostegno reciproco. Da un lato, i proventi del narcotraffico rappresentano una delle maggiori fonti di finanziamento dell’insurrezione; dall’altro i talebani stessi, nelle aree dove sono più presenti, sono interessati a creare le condizioni necessarie perché il mercato dell’oppio prosperi. Il tentativo di contrastare la produzione di oppio e il mercato della droga, sia da parte del governo di Kabul sia da parte della comunità internazionale, incontra limiti oggettivi nella natura stessa della coltivazione. Rispetto ad altri tipi di pianta, il papavero da oppio è molto resistente e garantisce buoni raccolti anche in condizioni atmosferiche sfavorevoli e in caso di siccità. Inoltre, dati i prezzi sul mercato internazionale, la produzione di oppio è incomparabilmente più redditizia rispetto a quella del grano, della vite o delle spezie. Le principali strategie proposte dalla comunità internazionale per contrastare il mercato della droga sono essenzialmente tre. In primo luogo, si è investito sulle politiche di estirpazione delle piantagioni illegali. Benché non prive di alcuni risultati, come la riduzione delle aree adibite alla coltivazione di oppio, tali politiche si sono tuttavia dimostrate uno strumento insufficiente per l’abbattimento della produzione. In secondo luogo si è cercato di promuovere progetti di conversione della coltivazione del papavero da oppio in coltivazioni legali. Tuttavia questi progetti richiedono grossi investimenti infrastrutturali e forti incentivi: quelli arrivati finora si sono rivelati inadeguati. Infine, per via delle divisioni nella comunità internazionale, rimane solo ipotetico il progetto di legalizzare le coltivazioni di oppio e la produzione di morfina destinata a usi medici.
Entro la fine del 2014, dopo circa tredici anni di occupazione, i contingenti militari occidentali impegnati nella missione ISAF (International Security Assistance Force) lasceranno l’Afghanistan. Alle operazioni, che dall’agosto del 2003 sono state condotte in ambito NATO, hanno partecipato formalmente 49 paesi. Il contributo di gran lunga più rilevante in termini di uomini, mezzi e costi, tuttavia, rimane quello fornito dagli Stati Uniti: nel 2011, ad esempio, la spesa autorizzata dal Congresso per le operazioni in Afghanistan ha toccato i 120 miliardi di dollari e, ancora alla fine del 2013, 60.000 sui circa 84.000 soldati presenti nel paese erano americani. Non stupisce quindi che sia stata in primis l’amministrazione Obama a caldeggiare l’idea di un ritiro massiccio dal paese.
Questa scelta si inserisce nella strategia di più lungo periodo volta ad assicurare che le Forze di sicurezza nazionali afghane fossero in grado di gestire in autonomia l’ordine interno al paese. A tal fine, nel 2009 fu avviata una profonda revisione strategica volta a eliminare le principali roccaforti dei talebani. Tale nuova strategia si basava su quattro punti:
1 La strategia Af-Pak, ovvero l’allargamento del teatro delle operazioni oltre il suolo afghano per includere il Pakistan.
2 L’adozione della strategia di contro-insorgenza, così come codificata nel 2006 dal generale Petraeus e sperimentata in Iraq dal 2007.
3 Un contributo significativo all’addestramento delle Forze di sicurezza nazionali afghane e un loro maggiore coinvolgimento nelle operazioni contro i talebani.
4 Il surge, ovvero l’incremento nel numero di soldati americani, che a metà 2011 ha raggiunto la significativa cifra di 100.000 uomini.
I successi non sono stati pari alle aspettative: per quanto il nuovo approccio abbia permesso di conseguire alcuni innegabili risultati, soprattutto a livello tattico, nel contesto più ampio della guerra contro i talebani rimane difficile sostenere che abbia portato gli insorgenti a un passo dalla resa, così come si sperava inizialmente. Al contrario, come testimoniato dal trend nel numero di attacchi perpetrati nel periodo 2009-12, non si è assistito ad alcuna significativa riduzione nella capacità offensiva (né tantomeno nella volontà di combattere) dei talebani. Questo rende il ritiro molto più rischioso e problematico di quanto non fosse stato previsto. In particolare, le Forze di sicurezza nazionali afghane si troveranno a dover superare due ordini di problemi.
Il primo è costituito dal fronte interno: per quanto le forze afghane nel complesso possano contare circa 187.000 soldati, le loro capacità rimangono limitate (in parte per mancanza di mezzi ed addestramento, ma anche per problemi di inefficienza e corruzione). Senza il supporto di una massiccia campagna di contro-insorgenza come quella condotta dalle forze ISAF, si stima che al massimo potranno controllare le aree già stabilizzate, senza riuscire a penetrare le regioni contese o ancora sotto controllo talebano.
Il secondo fronte è costituito dai talebani stessi: l’attuale ritirata è certamente il frutto della maggior pressione esercitata dalle forze ISAF, ma può essere letta altrettanto realisticamente come una scelta strategica in attesa dell’abbandono delle forze occupanti nel 2014: infatti, sebbene le province occidentali e le aree vicine a Kabul siano tendenzialmente stabilizzate, le regioni meridionali (Helmand e Kandahar) e quelle orientali (Konar, Laghman, Nangarhar) rimangono per i talebani una roccaforte sicura.
Se si vorrà evitare una situazione di stallo, sarà quindi necessario che la comunità internazionale mantenga un impegno a tempo indefinito e con funzioni ben più ampie rispetto al semplice addestramento. Apparentemente consapevole di queste circostanze, la NATO ha già dichiarato che il suo ruolo nella stabilizzazione dell’Afghanistan si protrarrà ben oltre la conclusione di ISAF, con l’istituzione della Resolute Support Mission, il cui obiettivo sarà di compensare tutte le carenze delle forze afghane – sostenibilità finanziaria, equipaggiamento, supporto aereo, intelligence.
Se si considera che il bilancio delle Forze di sicurezza nazionali afghane (pari a quasi 6 miliardi di dollari) è grosso modo il doppio rispetto alle entrate complessive dello stato, non è azzardato prevedere che l’onere che i paesi NATO dovranno accollarsi si aggirerà sui 5 miliardi di dollari (a cui dovranno aggiungersene altrettanti o più per l’addestramento e l’assistenza).
Anche senza impegnarsi in funzioni di combattimento, dunque, gli Stati Uniti e i loro alleati continueranno a giocare un ruolo chiave nella difficile partita tra forze governative e insorgenti.
Sarà probabilmente un ruolo meno visibile, meno oneroso in termini di perdite e di bilancio, e forse più sostenibile nel lungo periodo. Rispetto all’obiettivo ultimo – portare ordine e sicurezza in un paese devastato dalla guerra – non sarà comunque più semplice di quanto sia stato fino a ora.